Nel 2013, anno di uscita del loro album di debutto Sixtrionic, le Deap Vally hanno catturato l’attenzione con un graffiante rock-blues e inni femministi come Gonna Make My Own Money e Creeplife. Dopo otto anni e un altro disco pubblicato nel 2016 e intitolato non a caso Femejism, Lindsey Troy (chitarra, voce) e Julie Edwards (batteria, voce) sono tornate con Marriage, dopo un paio di EP che si potrebbero considerare preparatori. Perché come accade spesso ai matrimoni, anche la relazione artistica tra le due californiane era entrata in una fase di stanca, ma anziché sedersi sulle vecchie abitudini arrendendosi alla routine – la via perfetta per il divorzio – Lindsey e Julie hanno deciso di tentare un’altra strada, quella delle collaborazioni.
Marriage è il frutto di una serie di sodalizi con KT Tunstall e Peaches, Jennie Vee degli Eagles of Death Metal, Ayse Hassan delle Savages, Jenny Lee delle Warpaint, Jamie Hince dei Kills. Addio al format due voci-due strumenti: come per l’album targato Deap Lips del 2020, esperimento giocoso che le ha viste fianco a fianco con Wayne Coyne e Steven Drozd dei Flaming Lips, in Marriage le Deap Vally restano ancorate a un sound carico di riff vicino a band quali White Stripes, Black Keys e ai già citati Kills, ma lo rinfrescano qua e là con groove ballabili (Phoenix), atmosfere eteree (Look Away), sfumature elettroniche (I Like Crime), tocchi di psichedelia (Magic Medicine).
«L’obiettivo era trasformare il processo di scrittura», dice Julie in videochiamata su Zoom da Los Angeles. Lindsey si unirà alla conversazione pochi minuti dopo e ne scaturirà una chiacchierata a briglie sciolte sull’essere donne, mamme, musiciste. E sui Måneskin.
Come mai avete sentito il bisogno di questa trasformazione?
Julie: A livello di creatività il nostro rapporto era arrivato a un punto morto, non ci andava di rimetterci solo noi due a scrivere. Abbiamo pensato che circondarci di altri musicisti ci avrebbe aiutate a rinnovare il nostro modo di lavorare insieme, a recuperare la freschezza degli inizi. Ed è successo. Agli ospiti del disco avevamo spiegato che se avessero accettato di collaborare non ci sarebbero state pressioni, che nessuno si sarebbe messo a giudicare il lavoro altrui, che amiamo le jam in cui si improvvisa e pazienza se non viene fuori nulla. Cercavamo la massima spontaneità e volevamo allontanarci sia dall’idea di appartenere a un genere specifico, sia da ogni idea di controllo sulla scrittura: quel tipo di approccio avrebbe finito per schiacciarci.
È stato il disco con i Flaming Lips a spingervi verso un approccio più collaborativo?
Julie: No, avevamo già avviato alcune collaborazioni per Marriage quando abbiamo contattato Wayne per chiedergli se gli andava di fare qualcosa insieme. Sapevamo che era nostro fan, ma non avremmo mai immaginato che gli sarebbe piaciuto davvero lavorare con noi. Invece ha accolto la proposta con entusiasmo, così siamo andate a casa sua a Oklahoma City e abbiamo trascorso alcuni giorni a suonare e registrare nel suo studio con lui e Steven Drozd. È stato un sogno, per me The Soft Bulletin (album dei Flaming Lips del 1999, nda) è uno dei 10 dischi più belli di tutti i tempi con A Storm in Heaven dei Verve e tutto ciò che hanno fatto i Portishead.
Che tipo è Wayne Coyne? Sembra piuttosto matto e divertente.
Lindsey: Prima di incontrarlo anch’io credevo, come molti, che fosse un fuori di testa e che si facesse di chissà cosa, sarà che è iper-creativo e che ciò che fa è sempre così psichedelico. Ma è vero solo che ha una creatività fuori dagli schemi, per il resto è una persona amichevole, gentile, è davvero facile averci a che fare. Tu che ne pensi, Julie?
Julie: Per me Wayne è un artista dall’estro raffinato. Ed è anche una sorta di life coach, è incredibile, sul serio!
Ossia?
Julie: Non voglio entrare nei dettagli, ma è uno che sa consigliarti e dirti qualcosa di profondo su qualsiasi argomento: la vita interiore, le emozioni, la musica… È una fonte di saggezza.
Tornando al vostro Marriage, i testi contengono versi che si potrebbero considerare femministi, penso a I’m the Master o a Perfuction. Ma voi li definireste così?
Julie: I’m The Master è una canzone incentrata su un personaggio che ci limitiamo a interpretare: ci siamo messe nei panni di un uomo per descrivere come riesca a muoversi in ogni ambiente senza sforzo, vincendo sempre. Alla base c’è una frase anni ’90, quando per elogiare qualcuno si diceva “you the man!”.
Lindsey: Sì, era un po’ come dire “hai le palle”. Ma sono stufa di parlare di femminismo, mai come a questo punto della mia vita penso di non voler essere definita da nessun movimento sociale. Anche perché oggi ci sono così tanti tipi di femminismo che mi sembra si sia raggiunta una saturazione, non si capisce nemmeno più cosa significhi questa parola.
Su questo sono d’accordo, ma siete pur sempre il duo di Gonna Make My Own Money e Femejism.
Julie: Sì, ma già con Femejism volevamo più che altro giocare con un termine inflazionato. Anche Perfuction, che citavi prima, non l’abbiamo scritta con intento femminista, parla più che altro di quanto sia impossibile che le cose vadano come hai sempre desiderato che andassero. Hai presente? Sogni vs realtà. La traccia femminista dell’album, semmai, è Better Run, ispirata dal caso Harvey Weinstein.
“We burned your kingdom down, we’ve lit it with a match”.
Lindsey: Già, parla di quell’uomo ricco e così potente che nessuno osava fermare nonostante anni di abusi e molestie.
Julie: Il problema è che se sei una donna certe cose prima o poi ti succedono…
Lindsey: Però anche gli uomini possono essere trattati come oggetti sessuali, benché gli capiti di meno.
Julie: Sì, ma culturalmente è l’immagine della donna oggetto che ha dominato, di uomini in mutande sui cartelloni pubblicitari, negli spot tv, nei videoclip e un po’ ovunque se ne sono visti e se ne vedono meno. Anzi, penso che gli uomini capirebbero di più dove sta il problema, se lo avessero vissuto sulla loro pelle quanto noi, mentre non mi sembra lo comprendano a fondo. In compenso mi pare che sui social ci sia maggiore spazio per i più diversi tipi di femminilità: oggi è più diffusa l’idea che si possa essere belle in tanti modi, non solo se si ha una determinata taglia, un determinato fisico o un certo colore della pelle.
Fatto sta che come Deap Vally non volete essere etichettate come femministe, ho capito bene?
Julie: Esatto, siamo solo due donne che amano la musica.
Lindsey: Del resto, negli ultimi 10 anni è stato fatto un lavoro di sensibilizzazione talmente incisivo che almeno negli Stati Uniti il clima attorno alle donne è molto migliorato. La perfezione non esiste, ma abbiamo fatto tanti passi avanti. Su TikTok ci sono un sacco di ragazzine supersexy che ballano nella loro stanza, ma a questo punto è una loro scelta, no?
Può darsi, per me la vanità rende comunque schiavi. Voi siete anche mamme: da musiciste come vivete la maternità?
Julie: Hai figli?
No, mai voluti.
Julie: Meglio per te!
Perché?
Lindsey: Sai, noi donne vogliamo credere di potere avere tutto, ma non è così. Da musicista nessuno ti impedisce di fare figli, ma per far funzionare tutto devi fare sacrifici su sacrifici. A meno che tu non sia al livello di Beyoncé e possa permetterti una squadra di tate e baby sitter.
Julie: Ma infatti, dipende da quanti soldi hai. Se sei ricco puoi assumere professionisti che ti aiutino, altrimenti è la follia.
Lindsey: Di certo portarsi i figli in tour dandogli tutti i giusti comfort è dura. Però penso sempre ai Killers: sono abbastanza sicura che Brandon (Flowers, nda) porti parecchio i figli in giro con sé, e ne ha tre.
Julie: Sì, ma non è una mamma. Essere padre e essere madre sono due cose molto diverse. Se sei mamma sei tu che devi capire come far combaciare tutto, quindi se vuoi prenderti il tempo che ti serve per dedicarti a te stessa e non ai figli, questa è una tua responsabilità. Perché il figlio esce dal nostro corpo e allora è compito nostro occuparcene, la questione è vista così di default. Laddove la vita degli uomini che diventano padri non cambia così tanto, quella delle donne subisce una trasformazione radicale, e sono certa che diventare genitori può essere fantastico per molti uomini, traumatico per molte donne.
Lindsey: Però non si può generalizzare. Ho un’amica violinista che sta per andare in tour per tre mesi e per non perdere l’occasione si porterà i tre figli, che hanno da 1 a 3 anni. Ma ho anche una cognata che è una pediatra di successo e il cui marito ha assunto su di sé molti dei compiti solitamente lasciati alle mogli.
Julie: Resta, per le donne, un aspetto psicologico da non sottovalutare.
A cosa ti riferisci?
Julie: Se quando hai una relazione sentimentale molto lunga impari tanto su te stessa, quando cresci un figlio accade lo stesso, ma 300 mila volte di più. Il modo in cui sei obbligata, da madre, a confrontarti con te stessa attraverso lo sguardo di tuo figlio è qualcosa di davvero intenso. Io amo lavorare tanto, per cui ci ho messo anni a pacificarmi con l’idea di poter lavorare solo quando possibile. E mi viene da dire con tutto il cuore che probabilmente la cosa più femminista che si possa fare sia non avere figli.
Addirittura?
Julie: Senza figli puoi conservare libertà e autonomia, e realizzare le tue ambizioni nel mondo facendo sentire la tua influenza.
Lindsey: Però per me essere una mamma è un dono, un privilegio. Sono contenta di sapere che da vecchia avrò la mia famiglia con me e non sarò da sola a guardarmi i video e le foto di quando ero giovane e suonavo e andavo in tour. A me ha aiutato la Decker School, negli Stati Uniti è piuttosto popolare…
Julie: Sì, ma se non hai una baby sitter ti devi alzare alle 7:45 la mattina per portare tua figlia a scuola (sorride ironica).
Facciamo che cambiamo argomento? È vero che vi siete conosciute nel 2011 a un corso di maglieria?
Lindsey: Esatto, Julie aveva un knitting store molto cool, era il suo piano per diventare miliardaria velocemente (ride). Iniziai a frequentarlo perché volevo imparare qualcosa di nuovo da adulta, mi mancava quella sensazione che hai a scuola quando studiando senti che ti stai arricchendo. Alla fine è un’esperienza che mi ha fortificato, Julie è stata un’insegnante molto brava.
Julie: E Lindsey un’ottima allieva.
Julie, tu sei sposata con Phil Pirrone, con cui hai fondato il Desert Daze Festival: partecipi anche all’organizzazione?
Julie: Sì, a parte quest’anno, perché ho partorito.
Ah, sei diventata mamma per la seconda volta in piena pandemia?
Julie: Già, e causa Covid non permettevano a nessuno di stare con me in ospedale, per cui ero da sola con le contrazioni (imita se stessa durante il parto e scoppia a ridere). Ho avuto paura, ma è stato anche piuttosto comico. Però sai che le nostre figlie si sono incontrate per la prima volta proprio al Desert Daze?
Bello! Voi che cosa ascoltavate prima di diventare musiciste?
Julie: Prima? Lindsey è musicista sin dalla nascita!
Lindsey: Da bambina mia madre mi faceva sentire le canzoni delle fiabe di Mamma Oca, poi da adolescente sono diventata una grande fan dei Red Hot Chili Peppers, infatti nel 2016 andare in tour con loro è stato un sogno. E poi, mentre i miei coetanei andavano pazzi per le Destiny’s Child, io, forse per sentirmi più grande, ascoltavo guitar music, classic rock, i dischi della Motown…
Julie: Io alle superiori ero sotto per Radiohead, Nine Inch Nails, Alice in Chains, Smashing Pumpkins.
Lindsey: Io per le Hole, idolatravo Courtney Love, volevo essere lei. A un certo punto ho persino sognato di fare la spogliarellista perché lei lo era.
Julie: C’era anche questa band, i That Dog, nel ’95 avevano pubblicato un album, Totally Crushed Out!, che all’epoca ho consumato. Me ne ero dimenticata, poi l’altro giorno, bloccata in auto nel traffico, l’ho riascoltato e ho realizzato che è stato un’influenza musicale enorme per me. Fondamentalmente tutto quello che ho fatto come musicista l’ho preso da lì!
Lindsey, cos’era, invece, quella storia della spogliarellista?
Lindsey: Alla fine fui sconsigliata da un’amica più grande che mi disse che negli strip club gira un sacco di droga: meglio così.
Julie: Però si potevano guadagnare un botto di soldi facendo quel mestiere, io da ragazzina l’avrei fatto, ma ricordo che solo al pensiero mi veniva una paura fottuta di essere scoperta dai miei. Oggi sarebbe ancora peggio, con i social è meglio non uscire proprio di casa.
In effetti già sei anni fa Bill Gould dei Faith No More mi diceva che nei backstage non si respirava più l’atmosfera di una volta.
Julie: Ma perché ormai non si può fare niente senza essere filmati o fotografati, è la tragedia dell’umanità. Mi sento così fortunata per essere cresciuta in un’epoca in cui potevi prenderti dei funghetti godendoti il momento e basta.
Lindsey: Mio padre è stato a Woodstock nel ’69, a casa mia si è sempre glorificato quel periodo; quando avevo 11-12 anni guardavo i video del festival e pensavo a quanto doveva essere stato fantastico vivere quell’epoca in cui potevi andare a un festival nudo e viverti tutto liberamente. Adesso ci si mette nudi su TikTok magari, ma non è la stessa cosa.
Julie: Ma poi dove sta l’arte quando un artista condivide foto su Instagram? E dove sta la vita privata se ogni cosa che fai la posti sui social? È tutto sbagliato. Però va così: oggi il marketing favorisce le personalità narcisistiche, per cui più sei narcisista più i social possono diventare una naturale estensione di te stesso. Ma, per citare un artista che sia io sia Lindsey amiamo, cosa farebbe Elliott Smith in un’epoca del genere? Eccola, la tragedia: non so che conseguenze potrà avere vivere in un mondo che punta sui narcisisti ed esclude chi non lo è, non mi pare una bella prospettiva.
Lindsey: Purtroppo bisogna averci a che fare, con i social, alla fine vogliamo che la gente ascolti la nostra musica, ma sono cresciuta adorando quel fascino mistico che un tempo era parte dell’essere artisti, oggi più che altro si costruiscono personaggi da mostrare. Forse l’unica è non mostrare troppo.
Toglietemi una curiosità, li conoscete i Måneskin?
Lindsey: Li ho appena scoperti, settimana l’altra un mio amico ha condiviso qualcosa dal Gucci Fashion Show, c’erano anche loro e… wow, da quel che ho capito suonavano per strada e d’un tratto hanno vinto l’Eurovision: è così?
Non esattamente, prima hanno partecipato a X Factor classificandosi secondi, poi hanno vinto il Festival di Sanremo, il che in Italia consente l’accesso all’Eurovision.
Lindsey: Ma ora sono una delle più grandi band al mondo, giusto?
Di sicuro stanno facendo cose enormi, come aprire per i Rolling Stones negli Stati Uniti.
Lindsey: Ho ascoltato qualcosa e non ho capito bene… Fanno rock? O forse più pop-rock? Ho sempre saputo che la cultura rock’n’roll non è così forte in Italia, magari con i Måneskin questo cambierà.
Dipende sempre da cosa s’intende per rock’n’roll, non ho mai amato il tipo di stilemi che i Måneskin hanno fatto loro.
Lindsey: In ogni caso dopo che li ho visti la prima volta mi sono chiesta: ma le Deap Vally possono partecipare all’Eurovision o non possiamo perché siamo una band americana? Ho sempre pensato che quel tipo di eventi fossero pacchiani.
L’Eurovision Song Contest è una competizione europea e non credo vi piacerebbe.
Lindsey: Ma oggi la gente lo ama, no?
La gente ama tante cose orrende. Julie, tu non parli più?
Julie: Io dei Måneskin ho visto solo una fotografia su Google. Quanto all’Eurovision, per me è uno schifo, lo associo al film con Will Ferrell.