Ci sono tre cose per cui non mi sento di promettere la rinuncia a un filo di retorica: Manu Ginobili, la Repubblica dell’Ossola e SxM. Ma non di euro step e né di partigiani garibaldini tratta questo articolo, perché in questi giorni cade il 25esimo anniversario del primo e unico disco dei Sangue Misto. Era il gennaio del 1994 e a Bologna Giovanni Pellino e Andrea Visani, rispettivamente 27 e 23 anni, con i nickname di Neffa e Deda, pubblicavano le 12 tracce che hanno cambiato per sempre il corso dell’hip hop italiano.
Il suono era cupo, angosciante e ipnotico. Le rime ora erano decisamente “conscious”, come in Lo straniero o Cani sciolti – a testimoniare la precedente militanza dei membri del gruppo nell’Isola Posse All Stars e nel circuito delle occupazioni -, ora tendevano al cazzeggio. Tra le barre saltavano fuori di continuo geniali rapsodie, e citazioni iconiche che ancora oggi capita di sentire sulla bocca di qualcuno oppure sui social network. Perché negli anni SxM è diventato un fenomeno di culto che ha travalicato il mondo hip hop, passato da quella fase pionieristica ai numeri da capogiro di oggi, per diventare per molti “il disco della vita”.
Così è per me, merito o colpa di un fratello di quattro anni più grande con un’insana – e poco condivisa allora – passione per le Montana e le braghe oversize. Al resto pensa la nostalgia che, depositandosi, smussa ogni spigolo. Sarà anche per quello che fa un certo effetto parlare oggi al telefono di quel disco con Deda. In questi ultimi anni, in cui al centro del suo mondo è rimasta la musica con il progetto Katzuma, ha parlato pochissime volte del disco e dell’esperienza dei Sangue Misto, che dopo SxM si è interrotta per sempre. Ma prima di riavvolgere il nastro, partiamo dai giorni nostri.
Cosa combini oggi?
Continuo a fare musica, sempre a Bologna, come da una trentina d’anni a questa parte. Negli ultimi 15 con il nome di Katzuma (qua il profilo SoundCloud per ascoltare un po’ della sua musica), cambiando genere ma proseguendo nel solco del lavoro che facevo già prima come produttore hip hop. Sono sempre stato un mega-appassionato di vinili e ho passato anni a collezionare musica black: dal funk al jazz, fino alla disco music e alla house. Quindi di base passo le giornate in studio. Per il resto giro col dj set di Katzuma. In Italia ho suonato un po’ ovunque, anche se le maggiori gioie di questa mia “seconda fase” sono venute dall’estero. Ho pubblicato in Canada, in Giappone e in Inghilterra e collaborato con gente storica del giro della disco, da Al Kent a John Morales. Sono soddisfazioni per addetti ai lavori, ma per me funzionano.
La “fotta” per la musica mi pare ci sia ancora tutta.
Sì certo, anche se mantenersi con la musica non è sempre facile. Riesco a fare quello che mi piace e ci campo, ho trovato una specie di equilibrio. Negli ultimi anni ho “diversificato” parecchio, suonando in gruppi diversi oltre ai dj set, dietro alle macchine o alla tastiera, collaborando con tantissimi dei musicisti della scena di Bologna. Mi si è aperto un mondo di talenti mostruosi, che suonano ogni sera nei baretti per due euro. Oppure per un po’ ho prodotto deep-house come Tony Tee. Stare dietro a più progetti mi aiuta a non annoiarmi. Appena una roba inizia ad avere troppa identità, tendo a cercare qualcosa di nuovo. È un modo un po’ dispersivo di dedicarsi alla musica, ma almeno continuo a divertirmi. Che non è poco.
Prima parlavi di “seconda fase” nella tua vita. Se invece ripensi alla prima, 25 anni fa in questi giorni, qual è la prima immagine che ti viene in mente?
Penso alla valigetta in cui conservavamo i floppy con tutte le produzione di SxM, che poi avrebbero composto il disco finito. C’erano scritte dappertutto e adesivi, e lo scotch con il logo del disco. Lì dentro c’era il frutto di due anni di sbattimenti. Io e Neffa iniziammo la pre-produzione delle basi a casa mia. Poi ci trasferimmo per circa un anno nello scantinato della nuova sede della Century Vox, a rifare le basi praticamente da capo e a registrare un demo con le voci: SxM non poteva che nascere in uno scantinato, se ci pensi. Nel frattempo Gruff si aggiunse definitivamente come dj del gruppo. Infine andammo in uno studio serio, sempre qui a Bologna, a registrare e mixare la versione definitiva. Il tutto durò, appunto, un paio di anni.
C’era tanto hype su di voi in quel momento?
Ricordo che prima che il disco uscisse, tra chi seguiva l’hip hop in Italia, si era creata una certa attesa, perché in qualche modo si era sparsa la voce che stavamo per spaccare. Però la scena era ancora minuscola e il vinile uscì, se non mi sbaglio, in 3000 copie, mentre il cd poco di più: una tiratura super minimale (l’anno scorso è stata fatta una ristampa in 3000 copie, ndr). Noi di base eravamo roba di nicchia, per niente radio-friendly. Provammo a fare un singolo e un video, ma furono passati qualche volta su MtV o su Radio Dj e poi basta. E anche ai live a volte capitava che non ci fosse tantissima gente. Cento strippati sotto al palco. Non che a noi importasse più di tanto. Eravamo nel “viaggio super b-boy” e ci interessava soltanto fare due ore di freestyle.
Quando avete capito che il disco stava prendendo il volo?
Per quel che mi riguarda, ci sono voluti anni per capire quanto importante SxM fosse diventato per un sacco di gente. Poco dopo quel disco io e Neffa abbiamo fatto Aspettando il Sole, poi 107 Elementi, e ovviamente i feedback che avevamo dalle gente erano su quelle robe nuove. Che negli anni SxM avesse preso così tanto piede anche fuori dal mondo hip hop, almeno per me, non era affatto scontato. Quando Rolling Stone ci ha incluso nella sua lista dei cento dischi italiani del secolo (nel 2012, ndr), io personalmente cominciavo appena a rendermi conto delle conseguenze di quello che avevamo fatto (ride). Evidentemente quel disco mantiene una fascino tutto suo, malgrado siano passati 25 anni.
Quante persone ti hanno detto che SxM è il loro disco della vita?
Capita spesso. La cosa divertente è che me lo dicono anche certi ragazzini di 20 anni. Credo dipenda da una serie di motivi diversi. C’entrano la spontaneità, le atmosfere, lo slang, le immagini, il fatto che per molti anni il sia stato introvabile: tutto questo ha contribuito ad alimentare il culto di quel disco, che per molti ha finito per rappresentare un periodo storico ben preciso. Evidentemente non è solo una questione musicale, quella da sola non sarebbe bastata.
Da dove nascono il suono e l’immaginario di SxM?
Sia io che Neffa venivamo dal mondo del punk hardcore e dei centri sociali. Entrambi avevamo ascoltato un sacco di rock, di psichedelica e di punk. Nel disco queste influenze si sentono tutte, anche se ovviamente in quel momento a noi interessava fare la cosa più hip-hop della storia. Riguardo ai testi, scrivere in quel modo, usando il proprio slang, è una cosa che già si faceva. Usavamo i nostri modi di dire di tutti i giorni, un misto di slang bolognese e altro. Nel disco poi ci sono tutta una serie di dettagli, penso agli skit, le telefonate registrate, gli ospiti che fanno le intro, ma anche i temi che ritornano nel logo. Alla fine in un certo senso è un concept album.
Mi parlavi delle intro. La più preziosa per me è “Inculare Ambra e Fuerza Italia” (da Piglia male, ndr). Da dove viene?
Da Aldo Vignocchi, un caro amico di Bologna legato alla scena dei centri sociali, che la canta nel disco. Era il frontman di un gruppo che i cultori dell’underground locale conoscono bene: i KavallaKavalla, che all’epoca erano davvero il gruppo più nichilista d’Italia.
Avevate una visione cupa della società, penso a Clima di tensione o Lo straniero. Oggi le cose vanno molto peggio di allora.
Anche 25 anni fa si respirava una certa intolleranza. Non come oggi, ma, insomma, l’integrazione è sempre stato un problema. Quei testi rimangono attuali, purtroppo.
Perché in questi anni hai parlato così poche volte di SxM?
C’è stato un periodo in cui ne parlavano tutti, citare SxM era diventata la cosa di moda. E così finivi per dire “ok, allora parlatene voi”. Questo non toglie che io nutra solo affetto e gratitudine per quel disco e quel periodo. Il fatto che sia io che Neffa abbiamo a un certo punto deciso di fare altro è stato vissuto da certe persone come un problema, ma così va il mondo. E poi a essere sincero ho accettato di fare l’intervista solo perché mi hai promesso che non avresti dato un taglio troppo nostalgico: io sono per il futuro.