Per un gruppo come i Deep Purple, non poter suonare dal vivo equivale a morire. Considerati da tempo più una band da concerto che una macchina sforna dischi, sono pronti a ripartire per quella che, inevitabilmente, potrebbe essere l’ultima fase di una carriera leggendaria. Whoosh!, prodotto ancora una volta da Bob Ezrin e in uscita il prossimo 7 agosto, ne racchiude in qualche modo tutte le anime. E conferma, allo stesso tempo, che raggiungere un’età da pensione non equivale per forza di cose a perdere il filo di un discorso iniziato più di cinquant’anni fa. Il bassista Roger Glover, ironico e lucido come sempre, ci ha parlato della nuova uscita, delle difficoltà della vita on the road e della voglia di andare avanti con dignità e nel rispetto dei fan.
Da una ventina d’anni a questa parte, ogni vostra uscita è accompagnata da una sola domanda: sarà il loro ultimo album?
Quando raggiungi una certa età, cominci a porti delle domande doverose: sono ancora in grado di fare bene il mio lavoro? Sono diventato patetico? Sono ancora credibile? Il rischio è quello di dare tutto per scontato o di pensare: non importa come suono o i pezzi che faccio, tanto la gente verrà comunque a vedermi. La storia dei Deep Purple rappresenta un unicum nella storia del rock, perché la formazione è cambiata di continuo. L’unico vero fil rouge di questa avventura è che ogni membro che ne ha fatto parte è riuscito a mantenere altissima l’asticella delle esibizioni dal vivo. Ci sono concerti migliori e peggiori, succede anche ai giovani e succedeva anche a noi negli anni ’70, ma se tre o quattro date vanno da schifo, allora devi cominciare a farti delle domande.
Vi ho visti per la prima volta dal vivo nel 1998. Avevo 18 anni, voi una cinquantina e avevate appena pubblicato Abandon. Mi dissi: devo andarli a vedere perché sarà l’ultima volta.
Sì, poi siamo andati avanti altri vent’anni (ride). Forse è proprio lì che abbiamo cominciato a prenderci un po’ gioco di chi ci dava per finiti. Per quello Ian (Gillan) tirò fuori quel titolo che, però, andava letto come A Band On, l’esatto contrario di quello che lasciava intendere se le parole restavano unite. Quelli sono i suoi classici giochi di parole. Non a caso, prima di Whoosh! abbiamo pubblicato InFinite, che giocava ancora con lo stesso concetto. Lì, però, abbiamo pensato davvero che poteva essere l’ultimo. Come anche questa volta. Bob Ezrin è il più convinto di tutti a riguardo, infatti ha voluto farci registrare nuovamente And the Address, la traccia che apriva il primo disco del gruppo, Shades Of Deep Purple. In studio ci ha detto: avete tutti superato i 70, lo scenario del mondo è completamente cambiato nel giro di qualche mese, chiudiamo un cerchio.
Una volta i problemi maggiori della vita on the road erano droghe, alcol, donne e scomodità dei tour bus. E a volte dagli stati d’animo di Ritchie Blackmore. Oggi magari pensi al fatto di dover stare in piedi due ore consecutive…
Sì, Ritchie ogni tanto qualche problema lo causava (ride). È vero, essere un giovane musicista di successo negli anni ’70 ti portava a fregartene di tutto. Ti sentivi immortale. I tuoi genitori erano ancora lì che aspettavano una tua visita la domenica e guadagnavi abbastanza per non dover pensare al futuro. Ora abbiamo l’età dei nostri genitori e continuiamo a fare quella vita. Se ci pensi è straniante, perché ti ritrovi a dare degli insegnamenti ai tuoi figli che poi ti vedono girare il mondo con una bandana in testa. Ti ritrovi a chiederti chi è il genitore dei due. Dopo un concerto siamo pieni di dolori. Abbiamo la fortuna di essere sempre tenuti sotto controllo, ma siamo persone come le altre. Ian Paice se l’è vista brutta qualche tempo fa e ognuno di noi ha un’età nella quale cose di quel tipo possono accadere di continuo.
Hai mai paura che un evento esterno come quello che stiamo vivendo in questo momento possa decidere il vostro destino?
Assolutamente sì. La beffa potrebbe essere proprio questa: finire la carriera non per una scelta ponderata, ma un cazzo di virus. Onestamente non posso dire in che condizioni sarò fra un anno. Che poi, stiamo spostando tutto all’anno prossimo, ma senza alcuna certezza. Per gente come noi, Clapton o Paul McCartney nulla è scontato. Un lasso di tempo così grande può essere devastante. Appena arrivato, Steve Morse continuava a fare battute sul fatto che eravamo vecchi, ora ha smesso persino lui. L’unica certezza è che vedrete dal vivo gli Stones, loro non li ammazza nessuno (ride).
Per una band come la vostra, abituata a creare nuovi pezzi jammando liberamente in studio, non deve essere stato facile affrontare un periodo come questo. Avete dovuto cambiare il vostro metodo di composizione?
Fortunatamente no. Abbiamo iniziato a lavorare a Whoosh! nella seconda parte del 2019, quindi l’ossatura del disco è nata nello stesso modo di sempre. Il problema è nato nel momento in cui ci siamo ritrovati chiusi nelle nostre case. Soprattutto per Bob, che si è ritrovato tra le mani un gran quantitativo di materiale tra cui districarsi. Puoi immaginare quanto sia difficile lavorare su un unico pezzo di un’ora e mezza. Prima della quarantena, comunque, quasi tutti i pezzi erano stati definiti. Ognuno di noi ha poi aggiunto quello che serviva e, in un paio di casi, sono stato anche fortunato a trovarmi da solo. Penso a quando ho dovuto registrare Drop the Weapon, un brano con un giro di basso complicatissimo. In casa ho potuto registrarlo decine di volte, fino a quando non ci sono riuscito (ride).
La sensazione è che, dopo un periodo in cui i vostri album sembravano quasi una scusa per tornare a suonare dal vivo, stiate vivendo un momento creativo elevatissimo.
Il mio più grande punto di riferimento da questo punto di vista resta Johnny Cash, che ha pubblicato alcuni dei suoi dischi migliori nell’ultima parte della carriera. Cash è stata una delle figure più influenti di sempre, ma sai qual è stato il vero segreto della parte finale della sua vita? Aver trovato il produttore giusto. Ecco, Bob Ezrin è per noi quello che Rick Rubin è stato per lui. Bob ci ha portato al limite, ci ha spronati a rischiare, ma con la convinzione che snaturarci sarebbe stato sbagliato. Non è una cosa da poco, perché in genere una band che esiste da decenni tende a fare una di queste due cose: mantiene lo stesso sound per sempre oppure cerca di rendersi più giovane e appetibile per un pubblico che, alla fine, non conquisterà mai. Forse aver lavorato con gente come Lou Reed, Roger Waters e Alice Cooper gli ha lasciato qualche tipo di saggezza che non possiamo capire fino in fondo (ride). E ti dico queste cose rischiando di farmi un torto. Perché, come sai, ho partecipato alla produzione di quasi tutti gli album dei Deep Purple dalla reunion del Mark II del 1984.
A proposito di produttori, il primo album su cui non avevi messo mano prima dell’arrivo di Bob era stato Bananas. Credi che con un’altra copertina avrebbe avuto un destino diverso?
Ci sono due categorie di album che finiscono negli scatoloni delle offerte: quelli che hanno venduto milioni di copie e quelli che sono rimasti nei fondi di magazzino. Bananas fa parte della seconda categoria. Ed è un vero peccato, perché quel disco rappresenta il vero punto di svolta di questa formazione. Erano cinque anni che non pubblicavamo un album. L’ultimo era stato proprio Abandon e tutti, forse anche noi, eravamo convinti che non ne avremmo più prodotti di nuovi. In più, nello stesso periodo, Jon Lord aveva deciso di mollare. Fu un colpo devastante, perché Jon rappresentava il suono dei Deep Purple. Ancora oggi, quando penso ai Deep Purple non mi vengono in mente la voce di Ian o i riff di Ritchie, ma il suo Hammond. Andammo avanti con Don Airey, un altro genio dello strumento, ma nessuno di noi sapeva come tornare in studio senza Lord. Chiamammo quindi Michael Bradford, che ci disse: nei momenti di difficoltà bisogna rimanere ancorati alla propria essenza, dovete recuperare quello che avete perso, voi siete i Deep Purple! È stato terapeutico, ma se ne sono accorti in pochi.
La copertina di Whoosh!, invece, mi ha fatto pensare inevitabilmente al Major Tom di David Bowie…
È singolare che tu sia il primo a dirmi questa cosa, perché ci abbiamo pensato appena l’abbiamo vista. Considera che noi non ci occupiamo quasi più dell’aspetto dell’artwork, memori proprio della scelta di Bananas. Quindi abbiamo ricevuto delle proposte dalla nostra casa discografica e quella ci ha colpito immediatamente. Soprattutto perché va a unirsi a un titolo che non ha un vero e proprio significato. Whoosh è una parola onomatopeica, una roba da cartoni animati. Hai presente quando qualcuno fugge via e rimane solo la sua scia? Cose tipo Looney Tunes. Ecco, in questo caso potrebbe rappresentare il fruscio della polvere che passa sulla tuta dell’astronauta in copertina, ma lascia aperte diverse interpretazioni. Se c’è una cosa che ho capito è che sulle immagini è difficile giocare. Per noi, quella di Bananas era una copertina ironica, ma la gente rimase di stucco.
«Does humor belong in music?», chiedeva Frank Zappa.
Esatto. Ho la fortuna di lavorare da tanti anni con una persona come Ian Gillan che ha fatto del motto di spirito uno stile di vita. Mi ha insegnato a non prendermi mai troppo sul serio e credo che i Deep Purple stessi abbiano sempre fatto in modo di non farlo. In questo senso, siamo i più classici degli inglesi. Ci piace più l’ironia sottile rispetto a quella un po’ più greve che amava Frank, ma lui resta inarrivabile. Nessuno è riuscito a portare il concetto di presa per il culo di tutto e di tutti a quel livello. Anche dal punto di vista musicale, per altro, non ci siamo mai elevati a maestri. Non sentirai mai un membro della band parlare in termini di perizia musicale o cose del genere. Non ci interessa essere considerati dei pionieri o degli inventori. Se prendi una manciata di dischi a caso dei Deep Purple, puoi trovarti ad ascoltare heavy metal, funk o AOR. E Whoosh!, con le sue mille sfumature, è un po’ la summa di questa filosofia.