Quando gli chiedo se è contento della “rinascita” della musica jazz, del suo ritorno sui palchi dei festival più importanti del mondo e nelle playlist di Spotify, Delvon Lamarr non sembra particolarmente colpito. «Io suono la mia musica, mi siedo dietro l’organo. Poi se viene qualcuno ad ascoltarmi tanto meglio. Del resto si preoccupa Amy», dice a poche ore di distanza dal suo concerto milanese. Amy Novo è sua moglie e “primo motore” del trio che da Seattle l’ha portato a suonare in tutto il mondo. «Il trio è una sua idea. Io non ho mai voluto una band, non avevo la pazienza e forse non ce l’ho nemmeno adesso. Ma un giorno Amy mi ha ordinato di trovare altri musicisti e scrivere un po’ di musica».
Il Delvon Lamarr Organ Trio nasce così: Delvon Lamarr al B-3 Hammond, Jimmy James alla chitarra e Grant Schroff alla batteria. Suonano un mix di jazz, soul, funk e rock, e il primo album Close But No Cigar, uscito in modo indipendente nel 2016, sta vivendo una seconda giovinezza grazie alla ristampa di Colemine Records. Il concerto al BASE è l’antipasto della nuova edizione di Jazz MI, il festival che il prossimo autunno porterà a Milano il meglio della scena mondiale.
Suonate un mix piuttosto indefinibile di generi. Come descriveresti la vostra musica?
Lamarr: È una domanda difficile, attraversiamo tanti generi ed è difficile sceglierne uno. Jazz, soul, rock ‘n roll… io la chiamo feelgood music, e non c’è modo migliore per descriverla.
Il trio è una delle formazioni più iconiche del jazz. Ci sono delle band in particolare che vi hanno ispirato?
Lamarr: Brother Jack McDuff, Charles Earland, Booker T… io sono fissato con l’organo, quindi mi vengono in mente solo organisti, non importa se suonavano in un trio o in altre formazioni. Basta che ci sia l’organo.
Com’è nata l’idea di fondare la band?
Lamarr: Come ti dicevo, io non ho mai voluto una band, è merito di Amy. Ho chiamato subito Jimmy James, ci conosciamo da decenni e sarebbe stato impossibile non pensare a lui.
Novo: Quando ero giovane tutti dicevano che il jazz era roba da vecchi, musica da accademia. L’idea del trio nasce per dimostrare il contrario. Gran parte del nostro pubblico è composta da giovani, e c’è anche chi fa cover su internet.
Avete davvero una cover band?
Lamarr: Sì, una cover band di teenager spagnoli.
James: È fantastico, le nuove tecnologie ti permettono di arrivare a un pubblico nuovo, e se la musica che suoni è onesta prima o poi la gente arriva. Noi non usiamo nessun trucchetto, niente backing track o autotune… e funziona. È il soul, musica onesta.
So che il vostro live ha poco di programmato. Guardando le vostre scalette, però, ho notato una presenza fissa: Move on Up di Curtis Mayfield. Cos’ha di speciale quel pezzo per voi?
Lamarr: Tantissimo tempo fa, all’inizio della carriera del trio, eravamo riusciti a farci assumere per una residency in un club di Seattle. Ma non avevamo un repertorio, non avevamo niente, quindi ci inventavamo il concerto sul momento. In realtà, la maggior parte delle canzoni dell’album è nata così, improvvisando sul palco. Comunque: io e Jimmy siamo cresciuti insieme, ascoltiamo la stessa musica e succede spesso che lui inizi a suonare una cover dal nulla, senza avvertire. Succede ancora adesso! Probabilmente è andata così anche con Move on Up, sarà apparsa dal nulla.
E come mai è “sopravvissuta” così a lungo nel vostro set?
Lamarr: Se non la suoniamo ci ammazzano! Credo sia nel repertorio grazie alla reazione del pubblico… i nostri fan capiscono quando stiamo per suonarla, riconoscono l’intro di Jimmy e vanno fuori di testa. A volte basta il primo accordo.
James: Appena suono le prime note c’è sempre qualcuno che urla Curtis Mayfield!, mi sembra abbastanza chiaro che non possiamo non suonarla.
L’organo Hammond è uno degli strumenti più iconici del rock, e in un certo senso ha definito il sound degli anni ‘70. Secondo te perché quel suono si è imposto così facilmente nel genere?
Lamarr: Beh, è semplice: non c’è niente di simile. Quando Hammond ha costruito i primi modelli non si sarebbe mai aspettato che qualcuno li avrebbe usati per il rock. L’idea era di creare una versione portatile del classico organo da chiesa, ed è alle chiese che volevano venderli… Poi sono arrivati dei veri pionieri, gente come Wild Bill Davis, e l’hanno inserito nelle formazioni jazz. Da allora lo strumento ha preso una strada sua, come se fosse un’entità distinta dall’organo vero e proprio. È così ancora oggi, non c’è niente di simile e forse non ci sarà mai.
Ultima domanda. Quest’anno cade il 60° anniversario dell’uscita di Kind of Blue di Miles Davis, probabilmente l’album jazz più noto al mondo. Che cosa rappresenta per te?
Lamarr: È il primo album jazz che ho ascoltato. Conoscevo il genere, ovviamente, ma Kind of Blue mi ha costretto a sedermi e prestare attenzione. All’epoca ero fissato con l’hip hop, ma mi sono innamorato immediatamente di quella musica, è ancora nella mia playlist. Se pensi al jazz che si faceva all’epoca… suonavano milioni di note. Coltrane, Bird, erano virtuosi. E ovviamente se lo potevano permettere. Ma Kind Of Blue era… era semplicemente diverso. Il contrasto è impossibile da ignorare: quell’album ha stile, un’anima. Miles suonava lo spazio, era l’unico musicista jazz a farlo, Dizzy e gli altri erano fermi al bebop. Ascolto ancora Kind of Blue, e non sarà mai noioso. È impossibile.