Mettere insieme un tribute album dedicato a Ennio Morricone può essere un’impresa complicata. È un personaggio gigantesco, con una produzione unica per dimensioni e varietà, quasi impossibile da racchiudere in un singolo disco. Forse è per questo che i progetti più interessanti sull’eredità del compositore nascono tutti da un punto di vista particolare, un’angolatura insolita che lo racconta attraverso dei dettagli. È successo con Morricone segreto, la raccolta sul suo «lato nascosto, dark e psichedelico», e lo stesso si potrebbe dire di Morricone Stories, l’album di Stefano Di Battista che ripropone alcune composizioni in chiave jazz, suonate da un classico quartetto.
Insieme al pianista Fred Nardin, il contrabbassista Daniele Sorrentino e il batterista André Ceccarelli, Di Battista trasforma le melodie e i temi di Morricone in perfetti standard jazz. È così che Veruschka diventa un brano nello stile di Stan Getz, La cosa buffa un viaggio psichedelico a bordo di un pianoforte subacqueo, Metti una sera a cena uno swing ironico. Tutto con un approccio essenziale, che non stravolge la struttura e le melodie originali. «Ho cercato di calmare i vari Coltrane, Parker, Gillespie e Davis che mi entravano nel cervello», dice il sassofonista, «gli ho spiegato che trattandosi del maestro c’era bisogno di tenere a bada gli istinti». Lo abbiamo intervistato per capire com’è stato lavorare a questo progetto.
Come nasce l’idea di dedicare un disco alla musica di Morricone?
A dire il vero ne avevo parlato anche con lui prima della sua scomparsa. Lui aveva un po’ di timore verso chi aveva provato a fare degli arrangiamenti jazz con la sua musica, e scherzando gli avevo detto che ci avrei voluto provare anche io. Lui rispondeva sempre: «Ma lascia perdere» (ride). Per cui, un po’ per sfida e un po’ per gioco, è nato questo progetto. Tutte le volte che ne abbiamo parlato mi ha detto di stare attento. Ovviamente tutto questo è successo dopo che ha scritto un brano per me.
Stai parlando di Flora…
Sì, eravamo a cena da amici. Lui ha preso un foglio di carta e nel giro di qualche minuto ha scritto questo pezzo che poi ho dedicato a mia figlia. Se vai su YouTube puoi vedere tutto. Credo che quella sera gli sia andato a genio lo Stefano più periferico, più semplice. C’erano tanti personaggi importanti, e qualcuno gli aveva parlato molto di me. Insomma, a un certo punto mi chiede: «Ce l’hai lo strumento?». E io: beh, veramente sì. «Vabbè, allora prendilo che ti scrivo un brano». Si è rivelato uno dei regali più belli che potessi desiderare dalla musica. È nata un’amicizia e con il tempo mi sono convinto a fare questo disco. Un po’ era un gioco, come ti dicevo, ma c’è anche da dire che stiamo parlando di uno dei più grandi compositori in assoluto, un artista con un talento puro, magico, capace di emozionarti con pochissime note. Forse c’entra il fatto che suonasse la tromba, uno strumento monofonico… magari è così che gli è venuta voglia di scrivere solo le note più importanti. Insomma, è per questo che ho deciso di omaggiarlo con un disco. Mi dispiace non averglielo fatto ascoltare prima della sua scomparsa.
Fammi capire meglio: la sera in cui l’hai conosciuto ti ha subito regalato un brano?
Sì. Forse era anche una sorta di test, magari era stanco di sentire il mio nome. Abbiamo parlato un po’, e quando ha capito che ero un umile, quasi sulla soglia del borgataro, mi ha accettato. Pensa che aveva scritto la partitura già trasportata per sax soprano e pianoforte. L’abbiamo suonata al volo, e senza dire niente l’ho suonata un’ottava sotto. Avevo visto che la partitura arrivava fino alla nota più acuta del sax, e avevo paura di sbagliare. Speravo che non se ne accorgesse, ma dopo un paio di battute si è fermato, mi ha beccato subito (ride).
È una storia incredibile.
Sì, è così che siamo diventati amici. Grazie a lui ho vissuto momenti che porterò nel cuore per tutta la vita. Mi capitava di accompagnarlo a casa, lui scendeva e si metteva a fermare le macchine per farmi fare retromarcia. Il maestro era un uomo normale, secondo me gli piaceva sentirsi normale.
Torniamo a Morricone Stories. Come hai scelto i brani in scaletta? Immagino sia stato difficile…
(Ride) È stato difficilissimo. Ero partito con le migliori intenzioni, mi sono messo ad ascoltare tutto, ma dopo una ventina di pezzi sono crollato. Li avrei scelti tutti. E anche se siamo abituati ad ascoltarli con organici ampi, con l’orchestra, ho scoperto che funzionano anche in quartetto. Adesso che posso riascoltare l’album, devo dire che non sembra mio, ma un disco di tutti. Sembra musica che si è creata da sola.
Come hai approcciato gli arrangiamenti?
Ho cercato di mettere al centro il valore melodico e armonico di quello che aveva scritto il maestro, senza intervenire troppo. Mi risuonavano in testa le sue parole, sapevo che in queste operazioni è importante essere essenziali, che correvo il rischio di esagerare. Ho cercato di calmare i vari Coltrane, Parker e Gillespie e Miles che entravano nel mio cervello. L’idea era far respirare il tema e trattare ogni assolo come se fosse una linea melodica già scritta. Sembra complesso, ma non lo è. Per riuscirci, prima di registrare io e Frédéric Nardin abbiamo fatto un grande lavoro di analisi, abbiamo spulciato ogni singola nota e ogni singolo accordo dagli spartiti. Poi ce li siamo dimenticati e abbiamo suonato col cuore.
Insomma, chi conosce quei brani si sentirà a casa…
Sì, è uno dei nostri obiettivi. È per questo che dicevo che non sembra un mio disco, è una cosa che esiste e non so chi l’ha fatta. Chiaramente il merito è suo, di questa grande presenza che stava sopra di noi. Non solo nelle melodie, ma anche nel valore sociale della musica. Dentro a quelle note c’è l’Italia, la guerra, il cinema, ci siamo tutti.
Perché le melodie di Morricone sono così universali?
Non c’è una risposta esatta. Nella musica di Morricone c’è una magia, qualcosa di unico che veniva da lui e dalla sua semplicità. C’era anche grande tecnica di scrittura, cose che teoricamente si possono anche replicare… ma quello che gli permetteva di comunicare con così tante persone ha a che fare con la magia della musica, qualcosa che non si può studiare in accademia. Ma c’è, si sente.