È da poco uscito ii, il primo album dei Liima , la band formata dagli Efterklang e dal batterista finlandese Tatu Rönkkö. Con il cantante, Casper Clausen, ho fatto due chiacchiere sui Pink Floyd, il concetto di “passare la palla” e l’underground portoghese.
ii è un album nato durante una serie di residenze in posti disparati. Come è stato il processo?
Come saltellare da un’isola all’altra. Si tratta proprio di ragionare in termini di “isole”, piuttosto che di terraferma. Si va in un posto, si conosce gente, si buttano giù delle cose, si fa un tuffo al lago, un concerto finale, e poi si va via, si lascia quel posto e si pensa ad altro.
Che influenza hanno avuto queste “isole” sulla vostra musica?
Il viaggio in sé, con tutte le sue storielle da esotismo più o meno mancato, diventa una parte fondamentale. Per esempio, prendi il pezzo Roger Waters, è venuto fuori a Istanbul. Prima di arrivare eravamo quattro scandinavi eccitatissimi all’idea di passare gennaio al caldo in Turchia. Invece ci siamo ritrovati al gelo, un tempo di merda, zero gradi, le prime kofta assaggiate che erano pessime. Per tirarci su il morale, ci siamo messi a parlare come dei ragazzini del concerto dei Pink Floyd a Pompei. Poi quando abbiamo cominciato a suonare, Tatu ci ha detto: “Adesso prendo da internet una linea di basso di Roger Waters…”. È impossibile accorgersene, ma è stato il punto di partenza del pezzo. E potrei raccontarti aneddoti simili per ogni pezzo.
ii mi sembra un album molto immediato, dipende anche dalla velocità con cui è stato realizzato?
Sì, il tempo c’entra: questa idea di essere super concentrati in un lasso di tempo strettissimo, di avere un concerto a fine residenza come deadline. Con gli Efterklang, ad esempio, poteva trascorrere un anno e mezzo prima di far sentire a qualcuno un pezzo. Quello che mi affascina dei Liima è di creare qualcosa insieme, in modo molto istintivo e anche paritario, quasi socialista, e poi però “passare la palla”. Scriviamo un pezzo, ci diverte, ci piace, e lo passiamo ad altri: a Francesco (Donadello) e Jonas (Verwijnen) che hanno mixato e prodotto l’album. È una sorta di responsabilità condivisa, desacralizzante in un certo senso. Ci interessa il momento di entusiasmo, d’intuizione collettiva, che è sempre fortissima, piuttosto che la riflessione a posteriori; e non essere pienamente in controllo del risultato, il fatto che qualcun altro prenda decisioni drastiche senza la tua benedizione, è stata una piacevole sorpresa.
Adesso ti sei trasferito per un periodo a Lisbona, com’è rispetto a Berlino o alla Scandinavia, dove hai vissuto tanti anni?
C’è una scena indipendente locale molto interessante e spontanea. Un underground nel vero senso della parola, perché un sacco di cose avvengono in locali semi-illegali, sottoterra, posti quasi per iniziati. Non c’è la tensione a diventare famosi nel mondo, piuttosto a creare un’identità forte, a fare politica in qualche modo, a generare una rete clandestina. Mi sono ritrovato a vedere nello scantinato nascosto di un bar, questi ragazzi giovanissimi che facevano una jam di elettronica, ed erano veramente bravi. Forse a Berlino un tempo era così, adesso non più, e di sicuro in Scandinavia, dove la cultura è regolarizzata e finanziata in maniera efficientissima, un underground così non ha proprio ragione di esistere.