«Dopo questa intervista mi toccherà annullare l’appuntamento con la psicologa di oggi pomeriggio», scherza Luca Galizia, in arte Generic Animal, dopo la seduta di gruppo davanti a tredici giornalisti nella sede della Island. «È la mia prima volta con così tante persone», diceva timidamente all’inizio dell’incontro con la stampa. Magrissimo, vestiti oversize, immancabile cappellino a nascondere la testa completamente rasata, timidezza ben in vista, sorride educatamente a tutti. Venerdì 21 febbraio è uscita la sua ultima fatica in studio, Presto, disco concepito «in tre fasi, ma chiuso in fretta» – aggiunge il diretto interessato, seduto a capotavola – nei periodi di transizione che hanno separato l’esordio omonimo e il secondo album, Emoranger, tra un concerto e l’altro, i tre traslochi, le relazioni finite e «il non sapere cosa fare».
I tour, le collaborazioni tra hip hop e trap – Ketama126, Rkomi, Mecna, Massimo Pericolo, Pretty Solero o Franco 126, «tutti amici», continua Luca –, e il suono di Generic Animal che si fa sempre più riconoscibile, pur nella sua indefinibilità. «La mia è una musica liquida, cambia stato velocemente, si espande, va dove vuole». Come nei precedenti lavori, infatti, anche questa volta Generic Animal rispecchia il disegno da cui è nato il suo nome d’arte: lo schizzo di un piccolo animale asessuato realizzato da Luca qualche anno fa, forse tra i banchi dell’Accademia di Belle Arti. I contorni tra generi sono flebili, tocchi di math rock si mischiano con i ricordi emo, pennellate di trap si confondono nel post rock, sfumato da soul o r’n’b. Colori indistinti, perfettamente coerenti nel quadro di Presto, opera decostruttivista nel manierismo della scena italiana, tutta perfettamente incasellabile. Da come parla del tempo trascorso sui software, a modificare riverberi di chitarra o i filtri dei sintetizzatori, sfregandosi le mani mentre racconta le nottate in un sottotetto di Milano con Garage Band e poco altro, sembra che Luca sia nato esclusivamente per fare musica.
Nel tuo stile, di cui Presto è sintesi, ci sono una quantità impressionante di spunti, suoni, influenze. Come hai lavorato all’album?
Nella scrittura mi piace partire da tanto materiale, scrivere un’infinità di parti di chitarre, aggiungere suoni uno dopo l’altro, infatti le mie demo sono sempre piene di take, molto caotiche. La canzone vera e propria si forma poi in studio, quando lavoro insieme al mio produttore Fight Pausa, lui riesce sempre a trovare la vera idea del brano in mezzo alle centinaia che gli porto io. Siamo amici da almeno dieci anni e con lui ho condiviso tutti i progetti in cui ho suonato. Lui riesce a riconoscere il motore che spinge le mie canzoni, riesce a vedere la mia matrice.
Parlando di amicizie di lunga data, in Presto ritorna anche Massimo Pericolo, di nuovo insieme dopo la collaborazione su Sabbie d’oro.
Anche con lui ci conosciamo da quando siamo ragazzini, abbiamo sempre parlato di musica anche se non siamo mai andati d’accordo, anzi spesso abbiamo anche litigato. Tuttavia con Vane (il vero nome del rapper è Alessandro Vanetti, nda) c’è sempre stato del rispetto reciproco, e dopo Sabbie d’oro era rimasta la voglia di continuare a fare qualcosa in nome dell’amicizia che ci lega, chi se ne importa se lui poi è diventato famosissimo.
Legame che è al centro di Scherzo, una delle tracce più forti dell’album.
Inizialmente era una canzone completamente diversa. Non aveva una struttura determinata, non aveva ritornelli, non aveva un beat. Nel momento in cui ho iniziato il lavoro con Fight Pausa ci siamo resi conto del vero potenziale del brano. A quel punto abbiamo deciso di tirare in mezzo qualcuno, ma non per il gusto di fare un featuring, volevamo qualcuno che avesse davvero qualcosa da dire. Volevo coinvolgere un amico, per questo ho invitato Vane. Gli ho fatto ascoltare tutto il disco e lui ha subito deciso che Scherzo sarebbe stata la sua canzone. È un brano che parla di scuola e noi due abbiamo fatto entrambi un istituto professionale, abbiamo un background comune seppur affrontato in maniera diversa. Ha scritto le sue parti in un’ora, con il suo punto di vista ci ha fatto trovare la via giusta per la canzone.
Background che occupa quasi tutto il tuo immaginario. Come lavori sui tuoi testi?
Per me scrivere è uno sfogo fisico, ogni parola ha una sua nota, musica e testo procedono insieme. Forse sono un po’ troppo autoreferenziale, nei miei testi c’è sempre un’evoluzione di me stesso, non prendo mai ispirazione dalla vita di qualcun altro. Da ragazzino, quando scrivevo in inglese, cercavo spunti nelle parole delle mie band preferite, erano come maschere che potevo indossare. In italiano, invece, mi sono sempre sentito libero da linguaggi che non fossero il mio.
Libero di trovare il tuo colore, il viola, di cui ti sei tinto per Presto.
Lo strippo per il disegno mi accompagna da tutta la vita, e dopo aver esaurito la mania per gli animaletti ho deciso di disegnare me stesso. Sono diventato il mio manichino, ho iniziato a disegnare sulle mie foto, colorando la mia faccia, trasformandomi in The Mask, nei video di Peter Gabriel, nelle maschere del teatro. Il viola, poi, era un colore che utilizzavo pochissimo, un colore torbido che tuttavia mi affascinava. In quel momento ho deciso che sarebbe stato il mio colore.
Insomma, dopo l’animale generico ora c’è un avatar viola. Un continuo mutare d’identità che nel disco, tuttavia, sembra spinta dalla necessità di un ritorno al passato, verso l’infanzia e l’adolescenza. Da dove nasce questo bisogno?
Forse dalla solitudine, dall’incapacità di riuscire a spiegarsi i cambiamenti, di doverli accettare e basta, senza conoscerne la causa né parteciparvi in alcun modo. In questi casi fa sempre comodo tornare a pensare a come stavi da bambino. Nel disco c’è ancora un po’ lo scazzo del teenager, alcuni ricordi che conservo con affetto, l’insicurezza di non aver ancora capito bene cosa significa diventare adulti.
La paura dell’ignoto, di quello che sarà il tuo futuro, come quando in 1400 canti “Mi viene da vomitare su sto palco da svenire”.
Esattamente. Ringrazio sempre il cielo di poter far musica e andare in tour, ma continuo a stare male prima di salire sul palco, a volte mi sembra di cercare ancora lo stesso abbraccio di quando, a sette anni, avevo paura di fare la recita scolastica. Qualche volta capita di non riuscire a razionalizzare le scelte che ho fatto, di non riuscire a rappresentarmi per chi sono ora.
Infanzia che nel disco racconti in Volvo, il brano dedicato a tuo padre.
Voglio molto bene a mio padre, è un mio caro amico. Volevo dedicargli una canzone e Volvo racconta racconta di come vedi i tuoi genitori da bambino, di come cambia il tuo sguardo con il trascorrere degli anni, finché non diventi adulto e capisci il rapporto che hai con loro, riesci a dargli un altro significato. Mio padre ora fa il dentista, e io l’ho visto laurearsi. Prima faceva l’odontotecnico, ha fatto tre figli poi ha sempre lavorato e studiato. Uno dei ricordi più vividi della mia infanzia sono le automobili orrende che comprava, macchine sempre più brutte e sempre più usate. Volvo parla dei cambi di casa, della separazione dei miei genitori, delle nostre rotture e delle rappacificazione. Tutto in quella Volvo, con il baule rotto e riparato con lo scotch.
Nello stesso canzone racconti di quando, da bambino, ballavi con lui le canzoni di Lucio Dalla.
È sempre stato il suo cantante preferito. In passato mio padre ha lavorato anche come insegnante, e quando morì Lucio Dalla impose un minuto di silenzio a questi ragazzini un po’ tamarri che probabilmente manco sapevano chi fosse. È tornato a casa molto fiero di averlo fatto.