Nell’hip hop è tradizione che, quando un brano si rivela particolarmente forte o iconico, dia vita a una vera e propria saga fatta di capitoli successivi, omaggi e rifacimenti detti sequel, proprio come in ambito cinematografico. How High, il classico di Method Man e Redman del 1995, è paradossalmente quasi meno famoso di How High part II, del 1999; Nas ha pubblicato una ripresa del suo leggendario N.Y. State of Mind nel 1999, cinque anni dopo l’originale; così ha fatto Jay-Z per Friend or Foe, gli Outkast per Da Art of Storytellin’, i Mobb Deep per Shook Ones e via dicendo.
Anche in Italia non è raro che un pezzo rap si trasformi in una vera e propria saga: gli ultimi in ordine di tempo a farlo sono stati dj Gengis, Gast e Noyz Narcos, che hanno appena pubblicato il capitolo 2 di Wild Boys, un pezzo uscito nel 2012 e diventato nel corso degli anni una vera e propria hit underground. L’originale è leggero e divertente, e si sposa alla perfezione con lo spirito «goliardico e cazzaro» (citiamo testuali parole) del TruceKlan, mitica crew romana in cui tutti e tre hanno mosso i primi passi. Anche il sequel mantiene intatte le stesse caratteristiche, per la gioia dei fan. «L’idea di fare una parte 2 è nata perché qualche mese fa abbiamo stampato per la prima volta il vinile 7” del primo Wild Boys e la risposta è stata ottima», racconta dj Gengis dall’automobile con cui lui e Gast stanno rientrando a Roma dopo aver girato il videoclip. «In questo periodo sto lavorando a un album, quindi era il momento perfetto».
Quando uscì il primo Wild Boys ti aspettavi che sarebbe diventato un pezzo di culto?
Gengis: No, assolutamente! Anzi, qualche giorno fa io e Gast eravamo a cena insieme e ridevamo del fatto che il divario tra l’investimento minimo e il successo che aveva fatto il pezzo era enorme: il video l’avevamo girato tra amici, con un budget di 25 euro o giù di lì! Ci eravamo arrangiati alla meglio, non avevamo certo l’ambizione di sfornare un pezzo da classifica. È una cosa che capita spesso, però, in tutte le epoche: tha Supreme, per esempio, ha detto che tanti dei suoi pezzi più famosi nascevano per essere semplicemente dei provini. È un classico dei produttori: magari passi un mese in studio e butti via tutto quello che fai perché non ti convince, e poi in tre giorni cacci fuori cinque hit, perché imbrocchi l’onda giusta.
Gast, com’è stato tornare sul luogo del delitto per te?
Gast: Il primo Wild Boys è una delle cose più divertenti che io abbia mai fatto: mi rappresenta molto come stile, ho sempre adorato la goliardia. È nato in un periodo in cui io e Noyz Narcos eravamo ad Amsterdam, in una casa prestata da un amico, a scrivere quello che inizialmente doveva essere un EP con noi due al microfono e Gengis alla produzione. Come diceva prima anche lui, non avremmo mai pensato che avrebbe fatto tutto quel successo, perché erano altri tempi e non capitava così di frequente di sfondare. Ma indipendentemente da questo sono stato felicissimo di poter riprendere il discorso, perché quando io, Noyz e Gengis siamo in studio sono giornate di vacanza, non di lavoro: insieme ci divertiamo di brutto, sembra di stare al luna park.
A proposito, all’inizio della vostra carriera eravate famosi per i live che assomigliavano più a quelli delle rock star anni ’70 che a quelli dei vostri colleghi rapper: avete preso alla lettera l’assunto “sesso, droga e rock’n’roll”…
Gengis: Meno male che qualcuno se n’è accorto! (ridono tutti)
Come si sopravvive a un tour del TruceKlan per poterlo raccontare ai posteri?
Gast: Diciamo che sono tanti anni che il TruceKlan come crew non esiste più: gli ultimi reduci del tour eravamo io, Noyz, Gengis e Chicoria. Buona parte di noi arrivava da un passato punk e metal, e questo aiutava molto, devo dire, così come aiutava il fatto che fossimo tutti molto amici e quindi non ci formalizzassimo su niente. Partivamo ammassati tutti insieme in una macchina – io nel portabagagli, qualcun altro con la valigia in braccio – e all’andata era come una gita di classe, mentre al ritorno non volava una mosca, perché eravamo talmente distrutti dalla serata che non avevamo neanche la forza di parlare.
Gengis: Beh, è normale, i concerti per noi sono sempre stati una scarica di adrenalina pazzesca, e quando si esauriva ci ritrovavamo prosciugati.
Gast: Sì, lo vivevamo così appieno che alla fine era come se si fossero esaurite le batterie. Erano serate in cui ci distruggevamo, ci buttavamo dal palco, facevamo un casino incredibile, ma era tutto molto spontaneo: non erano cose studiate a tavolino per stupire. Mi ricordo di un concerto, una volta, in cui abbiamo dovuto interrompere il live perché qualcuno ha lanciato una sedia sul pubblico… Era una roba tipo Sex Pistols! Tendevamo a esagerare, dovevamo cercare di contenerci perché se no rischiava davvero di finire male. Crescendo siamo migliorati, ma neanche tanto, perché quando suoniamo in giro non si sa mai come andrà a finire… (Risate)
L’aspetto del live è molto trascurato nella scena rap di oggi: tra le nuove generazioni è difficile che ne esistano ancora di memorabili, come invece erano i vostri quando avevate la loro età.
Gengis: Io, nonostante la battuta sul rock’n’roll e sullo sfascio, ci ho sempre tenuto tantissimo che il live fosse musicalmente molto forte: anche all’epoca ero sempre quello che rompeva i coglioni a tutti, che insisteva per fare le prove e per mettere su una scenografia e una scaletta ben studiate. Anche se da fuori sembrava tutto molto selvaggio, in realtà i nostri concerti sono sempre stati parecchio curati.
Gast: Esatto. Diciamo che io e Noyz potevamo permetterci di sbracare perché tanto sapevamo che dietro di noi c’era Gengis a tenere insieme tutto!
Negli anni la figura del dj nell’hip hop si è evoluta tantissimo: Gengis, quando hai iniziato tu era una colonna imprescindibile in un concerto e in studio, oggi (soprattutto dal vivo) spesso è solo il tizio che preme play su una base. Ti capita di sentirti un po’ l’ultimo dei Mohicani?
Gengis: Fortunatamente la sensibilità degli artisti con cui lavoro di solito è molto simile alla mia, perciò sono felici di avere uno con le mie capacità ad accompagnarli. Senza voler cercare di imitare la nuova wave del rap italiano, cerco di portare avanti il mio modo di lavorare adeguandolo ai tempi, anche perché, come è normale che sia, anche io a volte mi stanco di fare sempre le stesse cose. Negli ultimi anni, ad esempio, ho trovato il modo di abbinare dei visual che vadano a tempo con i miei scratch: grazie al sistema che uso per suonare, il Serato, con i miei vinili non controllo solo le tracce audio, ma anche i video proiettati dietro di me.
Negli anni ’90 e fino ai primi anni ’00 i dj hip hop erano noti per essere tipo monaci Shaolin: leggenda voleva che alcuni di loro, dai 15 anni in poi, si chiudessero in casa per allenarsi otto ore al giorno sul giradischi e prepararsi alle grandi competizioni di scratch. Che tu sappia esiste ancora quella filosofia di vita?
Gengis: Certo! Ci sono ancora ragazzi giovanissimi che lo fanno. Anzi, in Italia abbiamo anche un campione del mondo, Damianito, che a 27 anni ha vinto il Red Bull 3Style, una delle gare più importanti del pianeta. Con gli anni, però, l’attenzione del pubblico si è un po’ spostata: se prima i campionati per dj, come il DMC o l’ITF, erano seguitissimi, adesso si bada più ad altre cose. È un po’ come i contest di freestyle, che un tempo attiravano migliaia di persone e adesso hanno molti meno spettatori. E comunque, anche questo tipo di realtà si è evoluto per incontrare un pubblico più generalista e non strettamente hip hop.
Restando in tema di circuiti non strettamente hip hop, per un periodo hai portato avanti insieme a dj Drugo anche il progetto Rubber Headz, più incentrato sulla musica dance ed elettronica. È stata solo una parentesi o prima o poi riprenderai anche quel filone?
Gengis: Non escludo di riprenderlo in mano, anche se definirla una parentesi è corretto. Avevamo voglia di un progetto che potesse darci anche degli sbocchi internazionali, e ci siamo anche riusciti. L’apice è stato quando un mio amico mi ha telefonato per dirmi che uno dei nostri pezzi, W.O.P. (Without Passport), era stato scelto da dj Shadow per uno dei suoi mixtape, All Basses Covered. Era nato in maniera un po’ assurda: stava facendo una serata a South Beach e a un certo punto è arrivato il classico coatto a dirgli «Ahò, ma che è ‘sta merda? È roba troppo sofisticata per ballare!». Non si aspettava assolutamente che la sua musica non fosse capita, così ha trasformato quell’esperienza in un vero e proprio mixtape, che è diventato un piccolo progetto di culto nell’ambiente. E avere una nostra traccia dentro un prodotto del genere è stata una soddisfazione pazzesca.
Ciclicamente esce qualche gruppo o crew che viene incoronato dal pubblico o dai critici “il diretto erede del TruceKlan”. Vi è capitato di individuare qualcuno che secondo voi ha davvero raccolto la vostra eredità?
Gast: Quando vedo qualcuno un po’ goliardico, che sa prendersi per il culo, sono contento. Di solito mi piacciono quei decerebrati che vedo nelle storie di Instagram addormentati e mezzi sfatti appoggiati a un palo o sul marciapiede: almeno mi fanno ridere. Però devo ammettere che non sono molto legato a questa nuova scena, non mi ci identifico tanto. Il tipo di live farlocco che va tanto di moda ora, in cui il dj manda in sottofondo il pezzo intero con tanto di voci e l’artista fa finta di rapparci sopra in playback, non mi piace proprio. A ‘sto punto è molto meglio non fare proprio concerti, che senso ha?