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Dodi Battaglia: «Ho dedicato la vita alla musica, altro che ‘Piccola Katy’»

Intervista a tutto campo col guitar hero dei Pooh: la canzone per Stefano D’Orazio, la fissa per ‘Bando’ di Anna, l’amore per Hendrix, la stima di Kirk Hammett, la melodia “rubata” da Freddie Mercury

Foto. Domenico Fuggiano

Il successo: una brutta bestia per la quale molti venderebbero la madre, ma se fosse solo quello il prezzo saremmo tutti famosi. Raggiungere la cima non ti mette al riparo da qualcosa di ben più tosto: te stesso. Il grande esempio è quello dei Pooh, il gruppo più famoso della storia d’Italia che alla vigilia dei festeggiamenti per il cinquantennale perde Valerio Negrini, lo storico fondatore e paroliere e decide di sciogliersi. Scelta dolorosa, ma dopo poco la morte di Stefano D’Orazio, batterista/simbolo della band, trasforma la decisione già durissima in qualcosa di irreversibile. Improvvisamente i Pooh devono ricominciare da zero, da soli, guardandosi dentro come individui.

Il membro dei Pooh che non ha mai pienamente accettato lo scioglimento e che anzi ha sempre tentato di resistere alla fine di una grande avventura è Dodi Battaglia, uno dei più quotati guitar hero italiani e non solo. Nella sua carriera ha ridisegnato il ruolo della chitarra elettrica nella musica leggera italiana, facendone uno strumento in cui anche le parti soliste sono al servizio della canzone e non un mero frullare tecnico, cosa che d’altronde ha dimostrato di saper sapientemente fare in varie battles of guitar. Torna ora con un singolo, Il coraggio di vincere, che già dal titolo ci dice che Dodi Battaglia non vuole arrendersi a un mercato che non ti perdona l’essere controcorrente. Lo intervistiamo per capire se davvero chi vince ha coraggio.

Ciao Dodi, sono contentissimo di parlare finalmente con te, sono un grande fan e apologeta dei Pooh come dimostra questa maglietta (gli mostro la t-shirt Pooh Staff in camera, nda).
Ah ah ah, bellissima! Pensa, io non ne ho neanche una purtroppo, mi piacerebbe averla.

Sono un grande fan anche del tuo lavoro da solista e volevo appunto parlare di questo tuo nuovo singolo, Il coraggio di vincere. Già il titolo è strano: di solito quando uno vince la gente crede che non ci sia sofferenza dietro…
Bravo, hai capito esattamente lo spirito del brano. Sai che io, ti dico sinceramente da uomo a uomo, quando l’ho scelto mi sono chiesto se non fosse un po’ da presuntoso. E te credo che Dodi Battaglia ha il coraggio di vincere! Questo ha venduto 100 milioni di dischi, ha fatto non so quanti cacchio di concerti, Telegatti, cavaliere di qua e di là… Non vorrei risultare uno sborone, ecco. E allora, mentre lo stavo cantando, ho voluto inserire una frase in cui dico che per vincere servono coraggio e umiltà. Io che corro anche in macchina (categoria Turismo, dove ha vinto parecchie volte, nda) e so che significa andare sul palcoscenico in diretta per milioni di persone, so che se vuoi vincere non è che te lo inventi lì per lì. Devi stare a studiare, ti devi preparare bene perché sappiamo che appena c’è la possibilità di fare una cappella, di trovare un ostacolo oppure una dimenticanza puoi star sicuro che si cade. E adesso ti racconto una storia divertente: avevo fatto quest’ultima versione del testo perché oltre a scrivere le musiche in questo disco che sto completando, metto mano – alle volte anche pesantemente – sui testi. È stata una mia idea il fatto di aver aggiunto questa cosa del coraggio e umiltà. Anche perché credo che facciano parte della mia indole, e anche del mio cognome se vuoi…

Ah, beh, Battaglia è tutto un programma…
Abbiamo fatto il testo, l’ho cantato ed è uscito. A un certo punto accendo la televisione, neanche una settimana fa, e vedo un’intervista a Mario Draghi che in occasione del conferimento della sua laurea honoris causa va all’università e parlando coi ragazzi spiega le sue motivazioni di vita e dice: «Ragazzi, ricordatevi che per vincere nella vita ci vogliono coraggio e umiltà» (ride).

Foto: Marisa Venturini

Sei stato sempre visto come un virtuoso, un grande musicista perché davvero in 45 anni di vita ho visto tutti i chitarristi possibili: metallari, jazzisti, poppettari, new waver, e però quando parlavi di Dodi Battaglia stavano tutti zitti, muti, in religioso silenzio. Soprattutto i giovani.
Intanto ringrazio tutti quelli che hanno avuto un apprezzamento nei miei confronti che ricambio decuplicandolo. Perché io apprezzo i ragazzi che suonano. Oggi non è come ai miei tempi. Io ho avuto la fortuna di avere la mia prima moglie che era americana, per cui andavo spesso negli Stati Uniti, compravo i metodi di John McLaughlin, i dischi, le ultime uscite, ero inserito nell’ambiente newyorkese della fusion, del prog degli anni ’70, roba mica da ridere. Cosa che i ragazzi oggi basta fare un click e sono in contatto col mondo.

Come ti senti nei panni di paroliere? È da poco che ti cali in questo ruolo.
Guarda, una volta ho scritto un testo per il mio primo album da solista nell’86, dove c’era anche un testo di Vasco Rossi che poi ha dato il titolo al disco Più in alto che c’è . Il mio si chiamava…

Ciao amore… buon appetito, giusto? Molto bello, un acquerello quasi.
Sì, quello! È bello perché è grazioso, non c’è il mestiere. Son quelle cose tipo che le fa un ragazzino che non ha mai scritto un testo, per cui nel bene e nel male, senza giudizio, a me piaceva ed ero già contento. Però, ecco, mettersi a fare un testo con accanto il signor Valerio Negrini e il signor Vasco Rossi, insomma non è facile.

Beh quel testo era uno spaccato quotidiano molto forte nella sua semplicità, era la vita degli italiani all’epoca. Ed era anche quasi accelerazionista nel descrivere l’amore in mezzo a una vita frenetica.
Ho sempre avuto embrionalmente questa voglia di scrivere, ma non mi ci sono mai messo. Scrivo le musiche, faccio gli arrangiamenti, faccio le chitarre, canto, studio le copertine…a  Dodi, hai rotto i cojoni! (Ride) Basta, vaffanculo, no? E invece mi sono permesso in questo caso di dare degli input e di seguire lo sviluppo di questi testi con un paio di questi ragazzi molto bravi. Uno di loro si chiama Roberto Casini, l’autore di Una canzone per te di Vasco Rossi. Poi c’è questa ragazza deliziosa, Chiara Peduzzi, è di una profondità, di una poesia. Ha 24, 25 anni, è laureata in psicologia, di un paesino vicino a Lecco, scrive cose che mi prendono il cuore. Le ho affidato il lato B di questo primo singolo che si chiama Una storia al presente ed è dedicato a Stefano D’Orazio.

Una dedica importante…
Ti racconto velocemente questo… perché ci tengo , perché è dentro il mio cuore. Stavo scrivendo i brani di questo disco e avevo già dato un input a questa ragazza: «mi piacerebbe fare un brano che inizia così: guarda là fuori la neve che fa». Era un ritratto molto dolce di questi due innamorati che guardando fuori con un camino acceso alle spalle fanno progetti per il futuro. Era un’immagine come dire…

Un po’ alla Paul McCartney…
Sì, ecco… e a un certo punto poi è successo il fatto di Stefano, sono andato a Roma insieme a centinaia di altre persone a dargli l’ultimo saluto. Tornando indietro ho detto: no, dev’essere “guarda là fuori la folla che c’è”. E allora ho preso la fine di Pronto buongiorno è la sveglia dei Pooh: “Folla davanti al teatro sarà meglio passare da dietro”. Ho preso quell’immagine e ho scritto: “guarda là fuori la folla che c’è, tu non la vedi ma c’è anche lei qui per te”, che è quello che succede in tour quando vedi che c’è la ragazzetta a cui stai facendo il filo che quando vai a suonare, che ne so, a Salerno, ti viene a trovare, ti segue. L’ immagine poi cambia e ci si sposta a Piazza del Popolo: “guarda là fuori la folla che c’è, tu non li vedi ma sono qui per te”. Un brano che solo a parlarne mi commuovo e non so nemmeno io come ho fatto a cantarlo.

Stefano era molto solare. Ho avuto il piacere di conoscerlo e rideva sempre. E infatti il pezzo alla fine è allegro.
Sai cosa? Io detesto le cose patetiche. Ecco, non è tipo “amico mio che te ne sei andato”. La canzone ha un’attitudine un po’ padana, un po’ bolognese, reale e molto concreta… barbabietole e campi con la nebbia… però è proprio per questo a me piace, sennò sarebbe stata troppo da lacrima. Invece così è quello che doveva essere.

Che cosa hai ascoltato per ispirarti a fare il nuovo disco?
Io sinceramente adesso ascolto Liszt. Ho passato il momento di Cajkovskij, di Debussy…

Quindi molta musica classica.
Quando vado in macchina invece sento un po’ di tutto, ma non trovo gli stimoli che avevo quando con Valerio Negrini negli anni ’70 uscivano dal cinema, ci mettevamo in auto a sentire Radio Glastonbury. Era un viaggio, stavamo dentro a gesticolare, «senti che ficata!». Sarà che non sono più un ragazzino ma difficilmente mi inebrio per delle cose nuove. Ma non perché siano troppo giovanili, eh, per esempio l’ultima mia figlia ha 15 anni e abbiamo scoperto insieme Anna, quella di Bando. Beh, demenziale, una roba pazzesca… e piace sia a lei che a me. Io ogni tanto la rimetto su per far sentire una delle cose che mi piacciono dei giovani d’oggi e mia figlia fa: «papà basta, hai rotto le palle co ‘sta Anna, hai rotto i coglioni!» (ride).

Me ne ha parlato bene anche Pol G degli Assalti Frontali.
Beh è così “fuori”, è geniale. Per cui ecco, vago qui e là negli ascolti ma adesso sono molto preso dal mio lavoro e cerco di dare il massimo anche perché io sono un po’ nel crinale tra la vecchia maniera di fare musica e la nuova. Non è una scelta, è che sono proprio io fatto così. Posso fare dei brani jazz, posso fare dei brani nazional-popolari, posso fare anche dei brani raffinati come Ci penserò domani che per alcuni è la canzone più bella dei Pooh: per me è bella e basta.

Voi Pooh nel 1977 come vi rapportavate alle mode musicali giovani molto “dure”?
Beh non abbiamo mai sconfinato, non abbiamo mai fatto veramente i “cattivoni”. Forse siamo stati più prog, c’è stato un momento in cui eravamo ispirati molto da Yes, Genesis, questa musica evocativa ecco. Quando facevamo racconti tipo Parsifal. Poi Valerio essendo un grande viaggiatore era come se nella sua scrittura inventasse i video ancora prima della nascita dei video. Perché tu sentivi la canzone e viaggiavi, vedendo immagini fantastiche.

In questo senso voi eravate anche molto psichedelici e tu quando hai ripreso alcuni pezzi del primo periodo suonandoli live con il progetto Perle mi hai ricordato Nick Mason con i suoi Saucerful Of Secrets. I Pooh quei brani non li suonavano più da tantissimo, eppure erano davvero “fuori”.
Noi abbiamo fruito, gioito e riproposto a nostra volta un clima che si viveva in quegli anni. Perché non ti nego che abbiamo un po’ sofferto la colpa di aver fatto successo con Piccola Katy. E mica è una colpa no? O Tanta voglia di lei o Pensiero, che hanno melodie micidiali: quella è grande musica italiana e lo posso dire perché non le ho scritte io. «Sì sì, però sono canzonettine»: canzonettine un cazzo! Volevamo dimostrare che nonostante il successo eravamo gente con gli attributi.

Foto: Roberto Zanetti

Tra le cose chitarristicamente migliori, scusa se insisto, ci sono anche quei brani in cui siete new wave, cattivi, quasi punk: come ad esempio È vero non è vero, Selvaggio, Tutto adesso che conoscono in pochissimi ma ci sono queste chitarre così arrabbiate e nello stesso tempo così tecniche senza perdere lo spazio evocativo.
Hai ragione: forse Tutto adesso è uno dei pochi esperimenti in cui abbiamo davvero rischiato di sconfinare mettendoci le borchie sul giubbotto (ride).

Ma anche quando avete fatto Musicadentro, mi pare che anche là avete cercato di scavallare un po’ sulla coda finale del grunge, sulla roba alla R.E.M.
Beh, Musicadentro sì. Ho sempre contribuito pesantemente alle scelte musicali, ma in Musicadentro mi è stato proprio attribuito il ruolo di arrangiatore. Per cui Dodi Battaglia e il suo strumento erano un po’ trainanti: e quindi automaticamente si va a finire in un mondo legato al rock, è evidente. Più che tastieristico, chiaro.

Ma poi come andò quel disco? Meno bene degli altri?
Era un bel disco, ma come dissi appena finimmo di realizzarlo: «C’è un piccolo grande problema: manca il singolo». Lo dissi a Roby e Valerio: «Scusatemi, ma noi che abbiamo fatto dei grandi successi usciamo con un singolo che dice “falle tu le canzoni di domani”? Ma voi siete impazziti?» (ride). Un conto è giocare sul fatto che non siamo più ragazzini, ma un conto è il singolo. Tra l’ altro cantato da Red che, con tutto il rispetto, non è cosi riconoscibile quanto Roby o me. Dissi: ragazzi, secondo me becchiamo una tranvata. Ma nonostante questo il disco è andato bene e la stessa cosa è successa con Ascolta.

E anche lì il singolo Capita quando capita era cantato da Red.
Sì, esatto, Ascolta era un album bellissimo, ispirato.

Molto post brit pop per certi versi.
Sì, però non c’era la canzone popolare che la gente fischietta… serviva.

Quindi addirittura era un album quasi sperimentale?
C’era un po’ di ricerca sì, e la stessa cosa è accaduta con Dove comincia il sole.

Lì ci sono molte influenze epic/fantasy metal.
Eh, lì anche presi in mano un po’ le redini di tutto il baraccone. Dissi: «Sì, Stefano è andato via, mi dispiace, soffro per questo, avrei voluto stare insieme a lui. Ma se lui è felice da un’altra parte che cazzo volete da lui?». E allora abbiamo raccolto le forze e io personalmente ho – è brutto a dirsi, ma è così – indicato il faro che doveva portarci avanti in questo mare che non era poi cosi confortevole come lo era stato fino a pochi momenti prima.

Però è un disco molto moderno viste le sue influenze. Avete vinto anche il Premio Lunezia.
È uno dei dischi più apprezzati dal nostro pubblico, vuoi perché abbiamo dimostrato di avere ancora le palle, vuoi perché era proprio bello. Perché sai, nei momenti in cui ti manca la terra sotto i piedi devi tirar fuori le unghie.

A proposito di unghie, volevo parlarti delle chitarre: hai pubblicato un libro stupefacente a proposito.
Sì, Le mie 60 compagne di viaggio, le mie chitarre. Ognuna è raccontata dal suo momento della creazione, il tipo di legno, dalle mie fotografie dal vivo quando le suono…

Qual è il tuo chitarrista di riferimento?
John McLaughlin.

Hai gli stessi gusti di Greg Ginn dei Black Flag!
Tutti dicono che è freddo, per me è una cazzata. Come tutti quelli che dicono che è freddo Al Di Meola. Un cazzo, è un sanguigno vero! Io ci ho suonato e tira fuori l’ anima e il sangue. Però McLaughlin, permettimi i termini, è stronzo: è sempre inglese lui, no? Sempre sulle sue. Appena dici «ho capito che sta facendo» lui cambia. Lo amo spassionatamente.

E invece tra quelli degli anni ’80/90?
Ne sono usciti fuori tantissimi, Steve Vai, Satriani. Son tutti bravissimi. Ecco, se c’è una cosa che devo dire caratterizzerà il mio prossimo disco, al contrario di tutta la musica attuale dove la chitarra è stata abolita, è che sarà un disco pienissimo di chitarra. Come lo è Il coraggio di vincere. Il coraggio di mettere UN SOLO! Da quanto tempo non si sentono i soli in un singolo? Per cui se mi posso permettere un lusso, faccio un singolo pieno di chitarrismo anche se non è di moda.

È anche vero che tu sei bravissimo a fare dei solo che in breve tempo danno una mazzata: mi ricordo ad esempio il solo di Sei tua, sei mia: una roba incredibile, concisa, che quando viene il fade out dici «nooo ma come!» e lo rimetti da capo…
Sono cose che mi vengono spontanee, non mi metto mai con l’ intenzione… dico mandami la base e via. Come ho fatto con Una canzone per te di Vasco. La musica deve fluire non devi avere troppi schemi perché sennò manca l’espressività.

E invece con l’effettistica come la mettiamo?
Guarda, sono uno dei peggiori fruitori.. Io sono plug and play proprio. Mi dai un Marshall e una Fender e sono a posto. Giusto un compressore se proprio devo fare qualcosa di particolare. E poi un flanger e un chorus. Ma tu lo sai come ho fatto Una canzone per te?

Sì, hai suonato in diretta nel mixer.
Esatto, avevo tutti gli strumenti alle Hawaii dove avevamo registrato Aloha coi Pooh. Mi ha chiamato Guido Elmi, il produttore di Vasco, e mi ha detto: «dobbiamo fare questo brano, a me piacciono gli arpeggi». E io: «va bene, ma non ho un cazzo, non ho neanche la mia chitarra». E Guido: «ma prendine una a caso, non romper le palle». Allora ho preso la Telecaster e sono andato in sala senza amplificatore. Ho preso il cavo, l’abbiamo attaccato nel banco in diretta. Degli sciagurati, però se tu senti quella chitarra li, a oggi, dici «cazzo che suono». Eh, ma è una chitarra dentro al banco (ride).

Ma allora vedi che sei punk. Hanno sempre dato ai Pooh dei precisini invece eravate molto ruspanti, diretti.
E infatti un altro disco importante che abbiamo fatto con i Pooh è Palasport, il nostro primo live. E tutti ancora oggi mi dicono: «ma che cazzo di suono che avevi, bellissimo! Ma chissà come hai fatto». E come ho fatto? Non c’avevo un cazzo di niente, solo due pedali: un chorus e un flanger, poi linea e distorto. Fine.

Ma poi il fatto che usavi un sacco il flanger ti metteva in linea con gruppi come i Cure, Siouxsie and the Banshees, in pratica avevi un suono duro come loro quando in Italia ci andavano tutti molto piano, persino i Litfiba.
Sì, ma io ho tante chitarre e ognuna ha un suono diverso. Se invece esageri a mettere troppi pedali poi suonano tutte uguali, non si capisce più un cazzo. Poi sai, io facendo parte di un gruppo avevo la necessità che lo strumento che suonavo venisse fuori. Ecco perché ho scelto una Fender. Se vuoi far casino prendi una Gibson, vai su col volume, ma con la Fender devi suonare bene, poche note, suono pulito, belle distinte. Ho fatto di necessità virtù, la necessità di essere facilmente udibile. Mi sono fatto un bel mazzo perché fare certe cose è diverso che farle con una Gibson. Quando tu suoni con altri tre, uno dei quali suona le tastiere e ce ne ha dieci e sempre col pedale a manetta, l’altro che fa bum bum col basso, l’altro bam bam con la batteria e dici, cazzo almeno che si senta un mio DING (ride)!

Foto: Salvatore Lello

Tu sei un sabbathiano?
Guarda se parliamo di roba estrema per me gli estremi sono stati già i Led Zeppelin. Ma soprattutto e solamente Hendrix. Lui vabbè… io sto ancora cercando di imitare il suo tocco e il suo suono… C’è un brano nel prossimo disco che prima di avere il testo si chiamava Hendrix. Con la chitarra semidistorta col mezzo crunchettino, fraseggio sulla Strato.

Nel 2015 ti chiedevi Dove è andata la musica. E secondo te oggi dove va? Tu pensi ci sarà un ritorno del rock? Delle chitarrone? Visto lo strapotere dell’elettronica…
Guarda se devo stare alla storia e ai suoi corsi e ricorsi, direi proprio di si. Io appunto sto facendo un disco pieno di chitarre e vorrei sperare di precedere questo ritorno… anche perché non se ne può più di dischi che suonano tutti uguali, le ritmiche tutte uguali, gli echi tutti uguali, le tastiere tutte uguali… e che palle!

E sì, non c’è dinamica…
Beh io spero che qualcuno si renda conto che siamo sì un popolo di poeti navigatori e tutte ‘ste menate, ma soprattutto persone che quando fanno musica non scherzano per un piffero. E spero che qualcuno si renda conto di questo e tuteli un pochino gli interessi di noi musicisti italiani. Cosa che sto facendo anche io nel mio piccolo in quanto vicepresidente del Nuovo IMAIE, che ha appena distribuito 20 milioni di euro ai nostri iscritti in conseguenza al Covid. Perché è sempre la solita storia. Dici «suono». «Sì ma di lavoro cosa fai?». «Musicista». «Sì, ma come guadagni da vivere?». C’è ancora questo cazzo di concetto, cosa che all’estero invece uno è assolutamente rispettato in quanto gran lavoratore e in Italia c’è sempre sto fatto che il grande musicista è lo strimpellatore. «Sì, dai, suonaci Piccola Katy e non romperci il cazzo». Io ho dedicato la mia vita alla musica non mi puoi trattare cosi, è veramente avvilente. E spero che, aldilà di dove andrà la musica, i musicisti ricoprano sempre un ruolo maggiore in quelle che sono le decisioni di una nazione. E di venire trattati in Italia bene come ci trattano fuori: che se all’estero gli dici «ho conosciuto Pavarotti» fanno «nooo, incredibile!», qua in Italia invece dicono «sì, vabbè, era uno sopra Modena, gli piaceva il vino, un po’ grasso».

Sono fenomeni impossibili da ignorare.
Tanto che io dissi questa cosa quando presi il premio di miglior chitarrista europeo grazie a un giornalista di Stern. C’era Ella Fitzgerald come cantante e io come strumentista. All’epoca suonavo una Steinberger senza paletta. Mi dissi: vedi, questo premio è la dimostrazione che nemo profeta in patria.

Pare che anche il chitarrista dei Metallica ti abbia lodato.
È vero, sì! Lo vorrei tanto conoscere. Pare che quando viene in Italia fa incetta di tutti i miei dischi, li compra e se li porta a casa. Almeno così mi dicono.

Si sente nei solo, eh. Io poi è una vita che dico che i Radiohead vi copiano, tanto per cambiare genere rimanendo all’ estero.
Guarda, vatti a vedere su YouTube un video in cui si scopre che Freddie Mercury ha preso para para la melodia di Noi due nel mondo e nell’anima per un pezzo, dieci anni dopo il nostro (Love Me Like There’s No Tomorrow): è uguale!

A questo punto è proprio il caso di dire: il coraggio di vincere.
Fantastico no?

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