Oggi doveva essere il gran giorno, quello della tanto attesa reunion dei Pooh. Invece sono state talmente tante le richieste per vedere nuovamente insieme Red Canzian, Roby Facchinetti e Dodi Battaglia che si è deciso di cambiare locale e data. I fan della band, ormai orfana di Stefano D’Orazio, dovranno attendere il 20 febbraio per assistere alla serata evento dedicata a Valerio Negrini (il quinto Pooh) a dieci anni dalla scomparsa. Lo show benefico in favore dell’ANPIL, che si terrà al Teatro Lirico di Milano, vedrà salire sul palco anche Mario Biondi, Enrico Ruggeri, Christian Iansante e Leonardo Manera. Ne parliamo con Dodi Battaglia, chitarrista dei Pooh, in tour con lo spettacolo Nelle mie corde.
Recentemente hai dichiarato a RTL 102.5 che, dopo questa reunion, comincerete a parlare in pubblico dei Pooh non singolarmente, ma con una sola voce.
Abbiamo capito era impensabile, per quello che rappresentiamo da 50 anni, che ognuno di noi avesse un’opinione diversa, a volte diametralmente opposta su determinati argomenti. D’ora in poi comunicheremo in modo univoco. Questo non significa reunion o concerti.
La prima cosa decisa insieme?
Partecipare a questa serata per onorare Valerio Negrini. Saliremo sul palco insieme e faremo questo tributo al quinto Pooh.
Di fatto, in quella serata, come Pooh, canterete insieme nuovamente?
Sì. Qualcuno di noi suggeriva di apparire separati, qualcun altro che non era pensabile salire su un palco ognuno per i fatti suoi: lo dobbiamo alla nostra storia e al pubblico.
Tu sei sempre stato il più attivo, dopo la morte di Stefano D’Orazio, nel mantenere viva la band. Quindi d’ora in poi come si comporteranno i Pooh?
Diciamo che, non essendo stato entusiasta all’idea di sciogliere il gruppo, ho sempre cercato di essere propositivo. Le risposte, da oggi in poi, saranno univoche. Le decisioni o andranno bene a tutti o nulla.
Prima com’era?
Prima i Pooh andavano a maggioranza. Oggi serve l’ok di tutti per partecipare a qualche evento. Un atteggiamento giusto per la nostra vita di amici per sempre.
Perché non volevi sciogliere la band dopo la scomparsa di Stefano?
Con Stefano avevo un rapporto fraterno. Lo stimo profondamente per umanità e generosità. Quando è mancato Charlie Watts, i Rolling Stones hanno annunciato che avrebbero preso un altro batterista: il sogno e mito di vederli sul palco sarebbe continuato. L’ho apprezzato, l’ho visto come frutto della voglia di portare avanti la vita. È vero, manca una gamba a una sedia che si deve reggere su tre piedi, ma the show must go on. Credo sinceramente che Stefano e Valerio avrebbero caldeggiato questa nostra voglia di proseguire la bellissima storia intrapresa insieme a loro. Penso che stiamo facendo anche la loro volontà.
Che mi dici di Negrini?
Come artista, uno che scrive “Dio delle città e dell’immensità, se è vero che ci sei e hai viaggiato più di noi” è una persona di spessore, profonda, umana, elegante. Non devo aggiungere nulla.
Umanamente cosa ha rappresentato per te?
Era il mio fratello maggiore quando, a 17 anni, sono entrato nei Pooh. In pratica fino a giugno prendevo il bus, con lo zaino pieno di libri, per andare a scuola e a settembre andavo in aereo per fare concerti con i Pooh. Valerio era di una carineria e di un’intelligenza… e aveva un bagaglio culturale pazzesco. Pensa che, poco prima di morire, si era messo in testa di imparare il russo. Era un uomo ostinatamente votato alla conoscenza. Ho fatto uso di questo suo approccio alla vita. Lui sapeva tutto. Non a caso, nei nostri testi, spesso citava avvenimenti storici come in Parsifal. Nei primi anni ’70 nemmeno si sapeva chi fosse Parsifal, a parte quello di Richard Wagner.
In pratica Negrini ti ha svezzato, per così dire…
Valerio mi ha preso per mano per farmi fare un’esistenza di palcoscenico. Quando è venuto a mancare ho perduto gran parte del mio sostegno.
Tre ricordi indelebili del mondo dei Pooh?
Il primo è legato a un ragazzo di Bologna che considerava i Pooh la mira più fantastica: essendo nati lì erano punto di riferimento per chi voleva fare il musicista. Per me, da fuori, erano già importanti. Pensa che, negli autoscontri, sentivo In silenzio con la voce di Riccardo Fogli. Altro ricordo è il primo live fatto con la band in una festa regionale in Friuli dove, allora diciassettenne, ebbi una delle prime esperienze etiliche.
Cioè?
Ai tempi era di moda bere un whiskettino che dava quella marcia in più. Quella è stata la prima volta da uomo, non più di ragazzino.
Terzo ricordo?
Una Gibson del ’54 che ho comprato a New York City nel 1972.
Una chitarra è un ricordo? Spiegami un po’…
Fino a un certo punto la critica, nonostante il successo, diceva che facevamo canzonettine. È stato lo stimolo per fare vedere che razza di musicisti eravamo: abbiamo tirato fuori un pezzo come Parsifal, suite di quasi 13 minuti. Fu un’occasione per dimostrare che spesso, le critiche, se prese col giusto atteggiamento, possono spingere a migliorarsi. Quel brano ha permesso ai Pooh di distinguersi coi gruppi del momento che facevano una canzone e poi sparivano.
Ma questa rivalità con Riccardo Fogli c’era o no?
Ho fatto un post sulla disavventura di Riccardo al Grande Fratello Vip: lo conosco da più di 50 anni e non ha mai bestemmiato in vita sua.
Ok, ma la rivalità c’era o no?
Per quanto mi riguarda non è mai esistita. Probabilmente ho sviluppato il mio modo di stare sul palco legato al virtuosismo: come molti chitarristi, tipo Pino Daniele e Alex Britti, la cosa più importante è sempre lo strumento, tanto è l’amore che abbiamo. Per me era importante il progresso musicale personale, mentre Riccardo era il frontman e, forse, un po’ di amaro in bocca ce l’aveva a vedere ‘sto ragazzino di 17 anni che arrivava e si metteva a cantare… ma non è mai venuta fuori questa cosa e non ha mai condizionato la nostra amicizia.
Dopo la fine dei Pooh i tuoi amici e colleghi sono andati al Festival di Sanremo. Tu mai. Motivo?
Il festival è importantissimo. Ho avuto proposte di collaborazione, ma quando scendi da quel palco devi valere una tacca in più di quando ci sei salito. Il successo l’ho avuto, la popolarità ce l’ho, non voglio rischiare di mandare tutto all’aria per una figura non all’altezza. A ogni modo, con brano e collaborazione giusta, perché no?
Non sei mai stato nemmeno giudice in talent show o reality…
Non amo tantissimo quelle cose. Sono stato poco disponibile a farle considerati gli impegni tra dischi e tour. Grazie a Dio tutte le cose fatte sono andate bene, come Perle, i live con i brani meno famosi dei Pooh.
Lavori molto, quindi…
Solo quest’estate ho fatto una cosa come 40 concerti e poi ci sono figli, nipoti, e questo spettacolo, Nelle mie corde.
La regia è di Fausto Brizzi. Come è nata la collaborazione?
Dopo Le mie 60 compagne di viaggio, un libro fotografico dedicato alle chitarre che hanno segnato la mia vita, il fotografo mi ha suggerito di fare uno show attraverso di loro, consigliandomi di usare un professionista con una visione leggera nei confronti di 50 anni di carriera.
Perché avevi bisogno di leggerezza?
Sento il peso delle medaglie. Ho avuto tantissimi riconoscimenti molto belli e, quando li elenco, mi annoio a raccontare me stesso. La leggerezza di Fausto è stata la chiave vincente: la gente uscendo dallo spettacolo dice: «Ma tu pensa che questo si fa pure un po’ prendere in giro, nonostante la carriera».
In Nelle mie corde suoni solo pezzi dei Pooh?
Faccio anche brani di Jimi Hendrix, dei Rokes, degli Shadows, mostro uno spaccato di storie e ci sono chitarre scelte ad hoc per il loro suono.
Hai mai incontrato Hendrix?
No, ma una volta ero tra le band che suonavano prima della sua esibizione. Col mio gruppetto, con incoscienza e supponenza, mi misi a suonare Foxy Lady prima dell’entrata di Hendrix… ma lui non l’ho conosciuto: ero troppo timido per affrontare quel camerino.
Il tuo amico Maurizio Vandelli, invece, lo ha pure ospitato a casa.
Vandelli è più… esplicito rispetto a me.
A chi devi dire grazie?
Proprio a Vandelli. Ricordo che, per un concerto, all’epoca dell’Equipe 84, sbagliai camerino, entrai e mi trovai loro davanti. Avrei voluto scomparire. Pensavo mi avrebbero ammazzato. Invece Maurizio, gentilmente, mi chiese di chiudere la porta, invece di menarmi fu molto elegante.
Ma scusa, in quegli anni se sbagliavi camerino ti menavano?
Be’ sì, io ero un ragazzino di 16 anni: rischiavo di essere preso a male parole. Vandelli mi cambiò la vita, glielo dico sempre.
Chi ti ha deluso, invece?
Un collega, un grande artista, con il quale ho avuto anche collaborazioni. Sono andato a salutarlo nel camerino e, prima di entrare in scena, a mezz’ora dall’inizio del live, disse: «Dai, andiamo a fare anche ‘sta marchetta». Mi raggelai, mi ero fatto un’idea di eleganza e professionalità. Ci rimasi malissimo. Io sono onorato di fare quello che faccio, non vorrei mai avere un atteggiamento così becero.
Ora mi devi dire chi è.
No, mi spiace, non posso (ride).
Tra i partecipanti al prossimo Festival di Sanremo chi ti incuriosisce?
Molti, le aspettative sono alte. Da tempo sono vicepresidente del Nuovo IMAIE e ogni anno assegniamo il Premio Jannacci a un esordiente proprio a Sanremo. Puntammo su Mahmood prima che vincesse. Mi incuriosiscono i giovani come lui e Irama. Mi stupiscono sempre di più.
Chi sono i nuovi Pooh?
Sono cambiati col tempo: Negramaro, Modà, Måneskin… sono tanti i gruppi. Mi piacerebbe che, da qui a 50 anni, ci fosse qualcuno che possa parlare di musica come sto facendo io con te: significherebbe che ha fatto qualcosa di importante, non una carriera che passa velocemente. I Pooh sono l’esempio che si può collaborare per lungo tempo e fare cose belle. Si può essere amici per sempre: è lo slogan più rappresentativo della nostra band.
Un nuovo disco dei Pooh?
Mai dire mai. Non ne ho ancora parlato coi miei colleghi, ma credo che, se ci fosse una grande motivazione, non avrei nessun dubbio.
Come ti vedi oggi?
Un uomo che guarda il mondo e non più quello che, anni fa, teneva gli occhi abbassati sul manico della chitarra.