C’era chi diceva che con la cultura non si mangia. Figuriamoci con il punk, soprattutto se questa attitudine è vissuta con reale trasporto, artistico ed emotivo. È il caso di Dome La Muerte, 62 anni, una vera e proprio leggenda della scena italiana, che da qualche tempo a causa dell’assenza di concerti dovuta all’emergenza Covid si trova in difficoltà e ha quindi accettato – su sollecitazione di alcuni amici – di lanciare una raccolta firme su Change.org per chiedere aiuto allo Stato attraverso la legge Bacchelli che prevede l’assegnazione di un vitalizio a «cittadini italiani che abbiano illustrato la Patria attraverso meriti acquisiti nei campi delle scienze, delle lettere, delle arti, dell’economia, del lavoro, nel disimpegno di pubblici uffici o di attività svolte a fini sociali, filantropici, umanitari, e che versino in stato di particolare necessità».
E quindi stupisce che uno dei nomi più importanti del punk, considerato un mito vivente da più generazioni, si trovi costretto in questa situazione. Eppure, la sua carriera è lunga 45 anni e costellata di band che hanno segnato un’epoca. Prima di tutto con i Not Moving L.T.D. con i quali aveva realizzato da poco la reunion, ma potremmo citare anche i CCM (Cheetah Chrome Motherfuckers) che è stata la prima band hardcore italiana, finita persino nelle attenzioni di Jello Biafra dei Dead Kennedys, oppure i Dome La Muerte and The Diggers, gli Hush (gruppo avanguardista stoner rock) e i Dome La Muerte E.X.P. Gruppi fondamentali per il punk di casa nostra, ma che sono spesso gli unici rappresentanti italiani a comparire in antologie punk hardcore all’estero, compresi gli Stati Uniti. Per non dimenticare, i tanti apprezzamenti avuti nel corso del tempo da artisti conosciuti a livello popolare, come Litfiba, Afterhours, Giovanni Lindo Ferretti, Clash o Johnny Thunders. Ma nonostante tutto, Domenico Petrosino, in arte Dome La Muerte, chitarrista e cantante, oggi versa in uno stato di grave necessità economica.
Lo abbiamo contattato, per farci raccontare cosa lo ha portato a chiedere di farsi aiutare – nonostante rimanga sempre un punk nell’animo – attraverso un sussidio statale dedicato agli artisti, che per un musicista potrebbe rappresentare il primo caso in Italia.
Come mai questa scelta così forte della legge Bacchelli?
È stato grazie al direttore di Punto Radio e altri amici che mi conoscono da una vita. Non sto lavorando da un anno, mangio con qualche soldo raccolto durante l’estate, ma ho 62 anni e davanti vedo il buio. Sto andando sempre più nel delirio e non so più come campare. Finora la legge Bacchelli è stata data a pittori, scrittori e attori, ma a nessun musicista rock e forse potrebbe essere una occasione per aprire la strada a chi fa musica e si trova in difficoltà.
Hai alle spalle una carriera lunghissima e ricca di soddisfazioni, tanto che nell’ambiente sei considerato una leggenda, com’è che ti sei ritrovato così in difficoltà?
Ma sai, arriva qualcosa dalla Siae però sono davvero briciole. Io non sono passato dalle radio, sono sempre rimasto nella scena indipendente e anche se negli anni ’80 ho conosciuto una certa notorietà fuori dalla scena, per questioni ideologiche non ho mai voluto firmare con una major. Ho sempre detto di no, preferendo il circuito indipendente, benché me lo abbiano proposto di “vendermi”, ma sarebbe stata una mancanza di gratitudine verso chi, fino a quel momento, mi aveva sostenuto.
Tornando indietro rifaresti tutto?
È una scelta che ho fatto da tempo e ho continuato in questo modo. Rifarei tutto, a parte i problemi economici che ho oggi. Forse ripenserei di firmare certe musiche, come delle colonne sonore, visto che su alcune cose sono stato un po’ troppo leggero, perché non avrebbero distrutto la mia identità e poi fatto comodo oggi. Con le band invece rifarei la stessa strada. Mi sento fortunato, comunque, ad aver incontrato gente che ci ha creduto fino in fondo, per cui gli dovevo qualcosa.
La tua opinione rispetto alla scena mainstream rimane invariata?
Ancora peggiore che negli anni ’80, visto che per artisti come me è logico starne fuori. Se fai pop non critico la scelta, ma per chi fa punk come fai? Per me non è solo un lavoro, ma molto di più. È la mia vita in tutto, quindi ho sempre preferito essere libero. Già all’epoca c’erano clausole sui contratti per l’immagine, volevano dirti come vestirti, cosa mettere nel disco, persino ti filtravano i messaggi con il pubblico, insomma non avevi più libertà né artistica, né estetica. Ora con i social, poi, vedo ancora tutto più studiato a tavolino.
A 62 anni rimani pur sempre un punk e forse questa tua ennesima scelta di rottura potrebbe aprire la strada a tanti altri che hanno bisogno.
Il punk è una scelta che ho fatto a 18-19 anni, quando è esploso in Italia e sono rimasto su quell’onda di rottura con il passato. Per me è stato un flash, perché prima i nostri idoli li vedevamo farsi i macchinoni e la villa e non potevi raggiungerli, invece con il punk erano lì davanti a te e ci potevi parlare e anche suonare insieme. Io non ho mai voluto perdere quello spirito, spero che questa mia richiesta possa essere utile a me e anche agli altri che non sanno come andare avanti.