La storia artistica di Don Joe è lunga e particolarmente importante per la musica hip hop e urban in Italia (se volete approfondirla, nel 2019 ha pubblicato per Mondadori un libro in cui la racconta, Il tocco di Mida). Fin dagli esordi come dj e produttore negli anni ’90, con la sua cultura musicale ricchissima e variegata ha contribuito a plasmare il suono che ora svetta nelle classifiche italiane. A renderlo iconico è stato sicuramente il gruppo che ha fondato insieme a Jake La Furia e Gué Pequeno, i Club Dogo, ma come solista, soprattutto negli ultimi anni, è riuscito ad affermarsi anche in un ambito più trasversale: da una parte lavorando con i grandi nomi del pop come Giuliano Sangiorgi, Emma Marrone, Francesca Michielin e tanti altri, e dall’altra cominciando a collaborare con il meglio dell’urban della nuova generazione, come Vegas Jones o Boro Boro.
Dal suo studio milanese, un’astronave bianca di nome Dogozilla, sono passati più o meno tutti, e negli ultimi 12 mesi è riuscito a togliersi parecchie soddisfazioni anche a livello personale, ad esempio producendo Cos’è l’amore, una traccia postuma di uno dei suoi idoli musicali, Franco Califano, in cui lo fa collaborare virtualmente con due giovani artisti romani che ne hanno raccolto idealmente il testimone, Franco126 e Ketama126. Insomma, sicuramente non bastava una pandemia mondiale a placare la sua sete di musica nuova e nuovi stimoli: esce proprio oggi il suo nuovo singolo, Spaccato, in collaborazione con Madame e Dani Faiv, in cui il concetto tipicamente rap di “spaccare” viene applicato anche a questo difficile momento storico, come invito a non lasciarsi andare.
Come hai conosciuto Madame?
Viene spesso nel mio studio per registrare i provini dei suoi pezzi, quindi mi capitava spesso di lavorare con lei: un paio di volte alla settimana avevamo un appuntamento fisso da noi. Un giorno è arrivata con un ritornello di cui però lei e il suo team non erano molto convinti. Eppure era fortissimo. Mi sembrava folle non usarlo. Quindi ho creato un beat apposta, lei ha scritto anche le strofe e alla fine abbiamo provato a registrarlo. Il risultato è diventato Spaccato. Mi gasa tantissimo. Madame è davvero incredibile, ha una testa pazzesca.
Al pezzo partecipa anche Dani Faiv…
Artisticamente mi è sempre piaciuto, e già lo conoscevo di persona, mentre invece Madame lo ha conosciuto più di recente, a un evento prima del lockdown. Si sono trovati bene e così le è venuta l’idea di tirarlo in mezzo, cosa che mi ha fatto molto piacere, visto che ho sempre apprezzato il suo stile. Insomma, è stato tutto spontaneo, non c’era niente di strategico. In qualche modo, prosegue la saga dei miei singoli con accoppiate strane: oggi come oggi lo trovo più stimolante. In questo momento, se devo pensare al mio progetto artistico, non so se produrrei più un classico pezzo con il featuring di Marra e Gué, perché l’ho già fatto: preferirei invitarli a collaborare con persone con cui non hanno ancora mai lavorato.
Spaccato è un pezzo rap, ma è davvero orecchiabilissimo, in maniera molto naturale e non forzata. Anche tu hai sposato l’assunto secondo cui il rap e la musica urban sono il nuovo pop?
In America è un buon momento per i singoli freschi e solari, dopo un lungo periodo di sonorità malinconiche che forse hanno un po’ stufato. In linea di massima a me la trap piace, anche la più oscura e triste, però credo che ora ce ne sia fin troppa in giro; ho voluto provare a sfruttare alcune caratteristiche della trap per fare un brano più melodico. Anche perché è un periodo storico in cui abbiamo bisogno di un po’ di positività, deprimerci ulteriormente non serve a nessuno. Già è abbastanza difficile lavorare: tutti noi, quando entriamo in studio a registrare, sicuramente non abbiamo più lo stesso mood di prima. Se non ci tiriamo su almeno con il tipo di musica che facciamo, non ne usciamo più.
Moltissimi artisti avrebbero voluto sfruttare la quarantena per creare indisturbati, in effetti, ma poi a sentire in giro le dichiarazioni che fanno sembra che quasi nessuno sia effettivamente riuscito a scrivere, a comporre o a fare beat…
Nonostante nelle storie su Instagram la maggior parte della gente si mostri molto allegra e attiva, o passi il tempo a fare appelli ai fan e a cercare di tenerli su, secondo me sotto sotto sono molto abbattuti. Quelli che riescono a creare anche in questo periodo sono gli stessi che già riuscivano a farlo anche in mezzo a tutte le altre difficoltà della vita. Io sono sempre stato uno che se ne sta per i fatti suoi, senza troppa esposizione sui social e senza neanche fare troppa vita mondana, e inoltre sono sempre stato abituato a rialzarmi subito dopo ogni batosta: il virus non è riuscito a fermarmi, come non ci è mai riuscito nient’altro. Non ho mai smesso di lavorare, perché sono abituato a fare musica anche al di fuori dello studio. Penso che anche se non avessi fatto questo lavoro, avrei cercato di reagire allo stesso modo: se per esempio avessi avuto un locale, probabilmente avrei cercato di trasformarlo in qualcos’altro nel mentre, piuttosto che rimanere chiuso per un anno.
E a livello personale, come te lo sei vissuto il lockdown?
Beh, sicuramente è un momento che ti fa riflettere molto sulle cose importanti della vita, e ti fa ragionare su dove e come abbiamo sbagliato, come specie umana. È come se ci fosse un filo conduttore tra tutti gli avvenimenti gravissimi che ci sono accaduti negli ultimi vent’anni, dall’11 settembre alla pandemia. Per me la quarantena non rappresenta solo il disagio di non poter vedere la famiglia e gli amici; ti fa fare dei bilanci sul concetto di libertà personale, che spesso diamo per scontata. Però non sono caduto in depressione, e non mi sono neanche messo a fare proclami da virologo su Instagram come tanti altri (ride, nda). Ne ho approfittato per godermi un po’ la casa, visto che di solito sono sempre in giro per lavoro, per leggere e per ascoltare musica. E poi, aiuta molto il fatto di non essere stato da solo: per fortuna c’è mia moglie e, anche se stiamo insieme da tantissimo e lavoriamo insieme, abbiamo sempre tante cose da raccontarci. Al di là di tutto, però, ho cercato di fare tanta musica, un po’ in tutte le sue forme.
Tra le altre cose hai fatto una battle su Instagram con i 2nd Roof, altro team di superproduttori hip hop di Milano, ispirandovi al format Verzuz che Timbaland e Swizz Beatz hanno lanciato in America…
Diciamo che non era una cosa competitiva, anche perché siamo molto amici: l’idea era di far sentire un po’ delle produzioni che hanno caratterizzato la nostra discografia. Anche le battle americane che abbiamo visto in queste ultime settimane, comunque, mi sembrano fatte un po’ con quello spirito: far capire chi sono quegli artisti e che momenti altissimi sono riusciti a creare. Un esempio perfetto è quella di Babyface contro Teddy Riley, che sono due giganti dell’R&B americano che hanno superato da un pezzo i 50 anni: guardarli sfidarsi è stato stupendo. Si divertivano tantissimo, ballavano, rispondevano ai messaggi dei fan… Meraviglioso.
Un altro dei pezzi che hai firmato durante la quarantena è stato Algoritmo, con al microfono Willie Peyote e Shaggy. Come è nato?
La strumentale di quel pezzo fa parte di una categoria che io, tra me e me, chiamo “cavalluccio nero”: sono quei beat talmente trasversali che non sai mai a chi darli, perché sono pop, ma non funzionerebbero bene con tutti. L’ho fatta sentire a Willie: l’idea era quella di fargli scrivere un brano come autore. Per una serie di coincidenze, tutte le persone a cui avremmo voluto proporlo avevano altro da fare, così è rimasto lì per un po’. A un certo punto abbiamo pensato di puntare verso l’estero, e Shaggy non appena ha sentito il pezzo ha voluto mandarci la sua strofa a tempo di record. Fuori dall’Italia non c’è l’abitudine di ragionare mille volte su ogni mossa e di consultare tutto il tuo staff dal primo all’ultimo, prima di decidere se fare qualcosa o no: si sentono molto più liberi e, se la canzone li prende, si buttano, agiscono d’istinto. Alla fine gli è piaciuto talmente tanto che Shaggy lo terrà perfino nel suo disco, e nelle radio italiane sta andando fortissimo. Una soddisfazione pazzesca, soprattutto in un periodo come questo.
A proposito di periodo: come vedi la situazione, per i musicisti e l’industria discografica?
Siccome tra le altre cose curo la direzione artistica del Giffoni, sto partecipando a parecchie riunioni e brainstorming, e stanno saltando fuori parecchi spunti applicabili anche al mondo dei concerti. Credo che ci sia speranza di creare qualcosa di nuovo, ma sicuramente non torneremo alla situazione di prima nel giro di breve. Bisognerà trovare degli escamotage per fare ripartire qualcosa, a tutti i costi, che si tratti di eventi con distanziamento sociale, in streaming o in modalità drive-in. Nell’industria cinematografica si stanno già riorganizzando per ripartire, e qualcosa succederà anche per noi, credo. Le idee migliori nascono sempre in condizioni di difficoltà. Non ci si può far fermare da ogni ostacolo.