Don Joe è uno dei produttori hip hop per antonomasia, ma soprattutto è uno dei pochi che è stato in grado di cambiare le regole del gioco: da quando è entrato in campo lui con i Club Dogo, nei primi anni ’00, il sound del rap italiano è cambiato completamente. E non ha mai smesso di cambiarlo, singolo dopo singolo, collaborazione dopo collaborazione, disco dopo disco. Milano Soprano, uscito venerdì scorso, non fa eccezione.
Esiste un parametro fisico molto semplice, per gli appassionati del genere, per valutare la bellezza di un disco: quanto ti fa muovere la testa su e giù durante l’ascolto. E l’ultima creazione di Joe ti fa venire un discreto torcicollo. «Per me un album rappresenta un po’ un punto della situazione: non solo dove sono arrivato io, ma lo stato della scena, le new entries, i big che si confermano tali», racconta nel suo studio milanese, Dogozilla, un’astronave bianca che ha visto passare tra le sue mura tutti i rapper più forti del momento. «È anche un punto da cui ripartire, per me: è un album che parla di Milano e di rap, la città e il genere dove ho cominciato a fare musica, e da dove vorrei che la mia musica riprendesse le fila».
È un disco molto milanese anche nei riferimenti. A un certo punto in un skit, ovvero gli interventi parlati che intervallano i brani, citi la rapina di via Osoppo, uno storico fatto di cronaca che risale al 1958 e di cui probabilmente solo chi è cresciuto in zona ha sentito nominare dai nonni o dai genitori…
Mi piaceva il parallelismo con il rap. Quella rapina è famosa perché è stata fatta senza sparare neanche un colpo, ma semplicemente simulando il suono delle mitragliatrice con la voce, un po’ come fanno i rapper quando sparano le loro rime come fossero proiettili.
A proposito, perché così tanti skit, soprattutto da un produttore che di solito non ama parlare molto nei suoi album?
Inizialmente ero un po’ titubante anche io, ma ci stava, perché il disco doveva prendere molto in prestito dalla tradizione dei mixtape, che nel rap sono i prodotti più ricchi di skit, di solito. Non sono i classici saluti agli artisti presenti, però, o il cazzeggio che di solito c’è in tanti titoli leggendari come PMC vs Club Dogo (storico tape del 2004, se ne avete ancora una copia sappiate che oggi vale una piccola fortuna, nda). Si parla tanto di me, di vicende veramente accadute, di riflessioni. Un po’ come poi è anche Milano Soprano: non ci sono solo brani potenti che spingono, ma anche canzoni da ascoltare.
Milano Soprano è un album inequivocabilmente rap, ma ha sonorità molto varie.
Innanzitutto ho voluto dedicarmi alle produzioni come si faceva una volta, con il breakbeat tagliato, i ritornelli aperti, i cambi di tempo e di stile all’interno di uno stesso beat… Tutte le cose che mi è sempre piaciuto ascoltare nel rap, insomma. Ho anche voluto sposare qualche innovazione della nuova generazione, sperimentare, ma chiaramente io vengo da un altro mondo, perciò devo cercare di mantenere certi capisaldi. Penso che anche i ragazzi più giovani, ormai, siano perfettamente in grado di capire che la trap o la drill sono alcune delle tante sfaccettature dell’hip hop. E chi è innamorato dell’hip hop mira a fare un classico, e non un disco che risponda alle necessità della moda del momento. Un po’ come quando uscivano gli album di Dr. Dre o di Timbaland, che con gli anni diventavano dei veri e propri pilastri della discografia hip hop.
È un anno d’oro per gli album dei produttori italiani, ne sono già usciti vari e altri ne usciranno: sembra quasi che vi siate messi tutti d’accordo…
Vero (ride). In America la tradizione del disco da produttore c’è sempre stata, e in Italia anch’io sono stato tra i primi a farne. Oggi la figura del produttore è cambiata molto: prima era nell’ombra, oggi spesso si sente quasi frontman. La prima molla, però, di solito ti scatta quando stai producendo tantissimo per altri e sei in un picco creativo: a furia di accumulare beat, ti rendi conto che potresti fare un album tutto tuo. È quello che è successo a me: io ho centinaia di strumentali parcheggiate nel mio hard disk, ho dovuto fare una cernita e abbinarle ai nomi giusti.
Alcuni anche piuttosto atipici per un album puramente rap: mi riferisco ad esempio alla traccia dove compaiono J-Ax, Coma_Cose e Myss Keta.
Jackpot, quel brano, è molto anni ’60, ma alle mie orecchie assomiglia anche alle produzioni di Havoc per i Mobb Deep, con il Moog usato per fare il basso. Insomma, girala come vuoi, ma dentro di me c’è sempre una parte più classicamente rap che da qualche parte devo tirare fuori.
Uno dei pezzi che sicuramente saranno più amati dagli appassionati di rap italiano è Guerriero, con Marracash e Venerus: riprende lo stesso campione di Cose preziose, leggendario brano di Fritz Da Cat e Kaos, uscito originariamente nel 1999. Com’è nata l’idea di questo omaggio?
Sono partito con l’idea di fare un tributo a quella strumentale, e ovviamente ho pensato subito a Marra, perché un tappeto del genere l’avrebbe senz’altro spinto a scrivere una roba significativa. Venerus, poi, è uno degli esponenti più forti della nuova scena di cantanti della scena urban, o indie, chiamala come vuoi. La cosa più difficile, a dire il vero, è stato liberare il campione (She’s Only a Woman degli O’Jays, nda): nel 1999 Cose preziose aveva vissuto varie peripezie perché l’utilizzo non era propriamente autorizzato, perciò in alcuni dischi era uscita in versione remix. Stavolta siamo riusciti a ottenere la possibilità di usarlo e ne sono stato felicissimo, perché è uno dei brani italiani con cui sono cresciuto, e in più adoro gli O’Jays. Ci tenevo tantissimo a poter campionare quella band, così come ci tenevo a omaggiare Free degli Ultra Nate.
Tra l’altro anche il tuo collega TY1 ha usato lo stesso brano nel suo album dello scorso maggio…
Sì, esatto. Me l’aveva anche mandato prima, perché volevamo capire se i due pezzi avessero atmosfere simili, ma sono molto diversi, comunque. Il terzo omaggio presente, invece, è nella prima traccia, Big Checks: è Represent di Nas, un classico del rap della mia generazione. Forse farà un po’ strano a chi lo ascolta trovarci sopra un’accoppiata così diversa a livello di stile, come Jake La Furia e Shiva, ma secondo me è molto riuscita. Ho cercato di combinare sempre gli artisti in maniera inedita; forse solo Jack the Smoker e Silent Bob avevano già lavorato insieme in una traccia.
Ci sono alcuni nomi che addirittura non avevo mai sentito nominare, come Nerissima Serpe: chi è?
L’ho scoperto vedendo un suo brano che compariva nelle storie di varie persone che seguivo, così sono andato a sentirmelo e mi è subito piaciuto molto. Ci siamo incontrati di persona e anche a livello umano ci siamo subito trovati. Mi ricorda un po’ i rapper alla Massimo Pericolo, quelli che sono riusciti a creare e a imporre un nuovo tipo di slang, di scrittura e di spocchia. È come se avessero superato la trap e inventato qualcosa di completamente nuovo, e credo che farà molta strada.
C’è anche una traccia che di fatto è già culto: quella con l’intera Dogo Gang, non a caso intitolata Dogo Gang Bang.
Non eravamo tutti insieme su una traccia da un secolo. Siamo tutti rimasti in contatto, tranne con Caneda, con cui non mi sentivo da un paio d’anni. Quando l’ho chiamato non riponevo grandi speranze che accettasse, e quando l’ho visto arrivare in studio quasi non ci credevo. In più quando è arrivato ha annunciato a tutti che non era sicurissimo della strofa che aveva scritto. Me l’ha rappata, ma usando solo sillabe tipo “pa-pappa-rappappa”. Da Neda puoi aspettarti di tutto, per cui per un attimo ho pensato che davvero volesse entrare in cabina e fare tutta una strofa così, una di quelle robe pazze sue che poi sarebbe diventata un nuovo tormentone in stile Il ragazzo d’oro (brano del 2011 di Guè Pequeno: nella sua strofa Caneda ripete ossessivamente la parola “bianco”, nda). Alla fine è andato al microfono e ha rappato con le parole vere, e la strofa era incredibile. Nonostante molti non credessero che saremmo mai più tornati a fare cose insieme, i ricordi che ci legano sono fortissimi.
E a proposito di Dogo Gang e legami fortissimi, veniamo alla domanda che tutti aspettano…
Quella sulla reunion dei Club Dogo? Non posso che ribadire il solito concetto: quando ci ritroveremo tutti e tre sulla stessa traccia, sarà per un disco dei Dogo, e non semplicemente per collaborare e smuovere un po’ di hype. Quando nessuno se l’aspetterà, magari un giorno uscirà un pezzo dei Dogo, a sorpresa, ma discograficamente non ho notizie in merito (ride). Chiaramente tutti i nostri fan lo vorrebbero, e ripongono speranza soprattutto in me, visto che l’ultimo pezzo con noi tre insieme era Status symbol, sul mio album Ora o mai più del 2015. Guardano a me, mi dicono: «Solo tu puoi farcela a riunire i Dogo», ma la verità è che non posso. Continuiamo a sentirci, ma ciascuno di noi ha la propria vita e il proprio business: il gruppo non è mai morto, ma ora come ora non esiste.
Dal passato al futuro: secondo molti commentatori, la moda della trap sta passando per lasciare spazio a un nuovo sottogenere, la drill, e soprattutto a un revival di campionamenti anni ’90 e rime molto più tecniche. Cosa ne pensi?
In questo momento in Italia il vento soffia a favore dell’urban pop, che cavalca la classifica anche perché c’è tanta voglia di estate e di leggerezza. In altri ambienti, in questo momento tutti parlano di drill e piace anche a me, ma hai presente cosa vuol dire un disco tutto drill? È difficile gustarti un album intero in quel mood. Ovviamente parlo sempre a livello personale, da ascoltatore, non voglio dare giudizi sulla musica di altri. Quello che non posso fare a meno di notare, e che mi fa molto piacere, è che le varie mode del momento, a livello di sound, si basano su una serie di elementi presi in prestito dall’hip hop e applicati ad altri generi. E questa è una cosa buona. Ci sarà sempre spazio per il buon rap fatto con delle buone rime e buoni beat: ne è la prova il super successo di Persona di Marracash. Quando fai un disco bello, prodotto bene, con delle tematiche forti, sarà sempre imbattibile e senza tempo.