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‘Don’t’ di Lamusa II è un album-podcast ambientato a Milano durante un live degli Autechre

Un rave da cui spunta una band anni ’80, Thom Yorke che jamma a Calvairate, Björk e i Massive Attack in una sala d’attesa a Linate. Il dj e producer racconta il suo nuovo lavoro

Foto: Leonardo Vecci Innocenti

Tra le strade della periferia sud-est di Milano, a pochi passi da quello che fu Macao (il centro sociale e club chiuso a fine 2021), la sala prove Lombroso è rimasta uno dei pochi luoghi di unione e aggregazione artistica. Attiva dagli anni ’90 e con uno storico di band dell’underground meneghino ad averne fatto agitare mura, mixer e pedali, è anche il posto da cui parte la storia di Don’t, il secondo album del dj, produttore e musicista Giampaolo Scapigliati, alias Lamusa II.

L’anima portante del suo nuovo capitolo nasce lì, unendo il carattere underground della città a quello di un artista versatile e ambizioso, in consolle come in studio, con un passato da dj su palchi prestigiosi come quello del Sónar di Barcellona. Si parte quindi da Milano, certo, ma la storia di Lamusa ha ambizioni internazionali non solo attraverso i titoli criptici e multilingua presenti nella tracklist di Don’t (Próxima Parada, La Mecánica, 一个人, 我害怕), ma anche grazie a una geografia di coordinate musicali che sono sparse sulla mappa che l’ascolto suggerisce.

«Milano è l’elemento principale, tutto è stato concepito lì e sono sue le strade che risuonano nell’album, quelle che racconta. In particolare, la zona in cui è stato registrato ha sempre avuto un’energia speciale per via della vicinanza con Macao: l’edificio stesso mi parlava ed ispirava ogni volta che tornavo alla sala Lombroso per nuove sessioni, per via ovviamente del suo passato. Penso che l’album stesso possa evocare le esperienze vissute durante gli anni in cui era in pieno fermento», ci racconta a proposito Lamusa II.

Un lungo rave durante il quale – a sorpresa – sbucano suoni da band fine anni ’80. «Grazie a basso, chitarra e batteria posso far emergere stili molto differenti come krautrock e trip-hop, oltre che post-punk ed elettronica, nello stesso momento. Tutto guidato da uno spoken word quasi continuo. Volevo ampliare la mia gamma sonora, prendere spunto da prospettive diverse e provenienti da altre persone. Nel mio caso, sono partito da ascolti di artisti come 21 Hertz, Amon Tobin e Bowery Electric, che hanno contribuito alle sfumature che la maggior parte dei brani esplorano».

Un parlato-cantato che come una nenia si pone da filo conduttore e che è, per l’appunto, anche una chiave di molti dei riferimenti menzionati. Si guarda al passato anche se il racconto è odierno: un compito affidato alle voci della canadese Marie Davidson, dell’italo-argentina Zara Colombo, e di Kailì (alias Carlotta Menozzi dei Dumbo Gets Mad), oltre al jazz psichedelico del duo Assembly Group. Il tutto è così follemente miscelato che, a un certo punto, sembra di ascoltare un podcast crime durante un live degli Autechre, nel buio apocalittico. Il titolo è Don’t, la direzione dei brani esorta a fare l’esatto contrario. Ci sono poi sentori industrial che ci portano direttamente alla Sheffield cupa ma istrionica raccontata dai Cabaret Voltaire, come il singolo Get Your Job Done e il brano And I Hated It, mentre 74 Rewind e Close To Me fanno incontrare Björk, Massive Attack e Tricky in una sala d’attesa in aeroporto a Linate, a una manciata di chilometri da dove l’album è stato concepito. Non si sa quale volo stiano aspettando, ma probabilmente vengono da una immaginaria (e ispirata) serata (o after?) a Macao.

C’è anche un riferimento cinematografico diretto, quello all’America di Oliver Stone: «Natural Born Killers mi è arrivato dritto in faccia, specie per quell’immaginario marcio, militare. Parla di quella parte di nazione trasandata, abbandonata e scura che lui mostrava. È una delle direzioni in cui va l’album e la sua estetica, è stato un importante input». Un disco italiano, ma che di italiano in fondo che ha? Poco o nulla, e visti gli elementi sul piatto diremmo per fortuna. Che poi, sarà ancora un vero problema chiarirlo? «Non so quanto abbia di italiano, se non nel gusto», ammette Lamusa. «Ma sai, l’apertura su questi versanti è ormai sempre maggiore: fortunatamente abbiamo esempi come Caterina Barbieri, Lorenzo Senni o Daniela Pes».

E sul tema aggiunto: «Fin da piccolo sono stato abituato a fare esperienze all’estero, a grandi festival come il Field Day, il Sónar, il Primavera, dove puoi immergerti completamente in una scena musicale ampia e diversificata, non limitandoti solo alla tua. Rispetto al passato, sembra che ora ci sia una maggiore coesione e meno distacco nei confronti di un certo tipo di musica, anche in Italia. È evidente per eventi come Club to Club e altre realtà simili: credo che grazie alla crescita di festival di un certo tipo e ad una maggiore apertura culturale, il lavoro di certi artisti stia cominciando a essere riconosciuto».

Nel rave trip-hop che vede Milano sullo sfondo, tra dancefloor e strada, tra corpo e mente, a un certo punto ci imbattiamo nella traccia Objects, una storta ma elegante marcia elettronica a là Radiohead, che parla presumibilmente di quella volta in cui Thom Yorke e soci si sono persi a jammare in qualche parchetto di Calvairate. E magari, dopo saranno passati in sala Lombroso. Don’t è così pieno di stimoli che a fine ascolto non rimane che una domanda: a che ora è il futuro?

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