L'intervista a DrefGold per 'Goblin' | Rolling Stone Italia
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DrefGold «La mia fortuna è non aver mai tentato di essere pop»

Il trapper ci ha raccontato l'immaginario del nuovo disco 'Goblin', il rapporto difficile con Milano e quello più caldo con il suo Salento, la disillusione verso la scena dove «tutto gira intorno ai soldi». L'intervista

DrefGold «La mia fortuna è non aver mai tentato di essere pop»

DrefGold

Foto: Antonio de Masi

DrefGold è sempre stato un personaggio curioso nella scena trap italiana. Già nel 2016 con il suo primo mixtape Kanaglia ci aveva incuriosito per il suo immaginario colorato e caramelloso, senza spocchia gangsta né velleità da popstar sanremese ma con un’attitudine trap sinceramente scanzonata di chi fa musica senza l’ossessione delle visualizzazioni o della classifica. Sono passati quasi dieci anni e oggi anche lui si deve misurare con una scena bulimica che dimentica in fretta: l’ha fatto con Goblin, un album curato e fresco nei suoni e nelle produzioni, dando una spolverata freak al suo immaginario, ora zeppo di gremlins, goblin e goonies. Un ritorno al futuro di cui abbiano chiacchierato in questa intervista.

Goblin è una sorta di manifesto trap, un genere che molti danno per “prossimo alla morte” ma che sei riuscito a rivitalizzare con suoni freschi e produzioni non scontate.
La mia fortuna reale è quella di non aver mai cercato il passo in più verso il pop o verso un suono più commerciale, perché nel mio percorso i pezzi che hanno funzionato – Tesla, Sciroppo, Elegante – erano prettamente trap. Goblin è quindi solo una riaffermazione e un’evoluzione di quello che mi piace e so fare, la trap appunto.

Un paio d’anni fa ti eri per cimentato nel pop, campionando Bongo Bong di Manu Chao nel tuo singolo Giorni nel blocco.
Non l’ho mai percepito come commerciale, anche se in realtà lo è: Manu Chao fa parte del mio background, ascoltavo i sui pezzi in macchina con i miei genitori, insieme a quelli di tanti cantautori, De André su tutti.

I pezzi di Manu Chao sono legati a un immaginario politico ben definito.
Nella mia musica non ho mai fatto entrare la politica. Giorni nel blocco è stata scritta in un periodo in cui molti prendevano un campione di un pezzo famoso e lo portavano nella loro versione trap, non c’era altro significato se non quello di fare una hit con una canzone che mi piaceva.

DrefGold - JUNKIE BAR (Visual Video)

Però un po’ di politica in Goblin c’è: “Fuck un nazi, fuck i fasci”. Confermi?
Certo, non nascondo nulla. Vengo da Bologna, e lì c’è un clima più umano che politico che porta ad avere questi pensieri comuni. Rimane il fatto che sono un artista e non ho grande cultura politica.

Bologna ha una grande tradizione, dalla prime posse come quella di Isola nel Kantiere (sulle cui ceneri nacquero i Sangue Misto di Neffa, Deda e Dj Gruff) fino alle cronache di queste settimane con le manifestazioni dei centri sociali.
Per quanto possa avere dei principi in comune con questo mondo ed abbia suonato nei centri sociali, all’inizio della mia carriera – quando pubblicavo musica su YouTube sui beat di Lil Wayne cantati con l’autotune – ero visto da loro come una mosca bianca perché veniva considerato un rapper solo chi usava le basi di Dj Premier.

È per questo che te ne sei andato da Bologna per trasferirti a Milano?
Milano è una città molto più fredda e meschina, ma se vuoi fare qualcosa le possibilità sono di più. Ci sono altri valori.

Tipo i soldi?
Mi dà fastidio il fatto che io abbia rincorso questa mentalità. Da piccolo dicevo a mia madre che volevo vivere a Milano perché avevo una testa rap e pensavo che quella fosse una città rap, ma quando ci sono arrivato ho capito che qui tutto gira attorno ai soldi e a dinamiche poco umane.

Forse è per sfuggire a queste dinamiche poco umane che nel disco hai creato un immaginario da videogame fatto di goblin, gremlins e goonies?
Per me è molto importante l’immaginario dietro al progetto. Sono stato fan di immaginari di artisti di cui non mi sono ascoltato poi le canzoni, ma ero soddisfatto così. E gli immaginari non vanno spiegati, il significato è astratto. Come dici tu potrebbe anche essere un videogioco creato dall’intelligenza artificiale, la mia.

Foto: press

Ma se proprio lo volessimo spiegare, chi o cosa è il Goblin che dà il titolo al disco?
È un G, uno che ha la situazione sotto controllo, che non ha bisogno di terzi. È il capo dei goonies che poi sono i gruppi di dieci ragazzini appostati al parchetto fuori da una stazione di benzina o che ne so, fuori dal Mc Donald’s, pronti a fare qualsiasi cosa insieme. E poi ci sono i gremlins, che sono più astratti dei goonies, ma rispondono anche loro al Goblin.

Non ci ho capito molto, ma il mood dell’album sembra abbastanza “solare”, da “presa bene”, o sbaglio?
Sicuramente sì, per quanto il suono sia sicuramente più dark. In pezzi come Junkie Bar ci sono tante rime che per me sono proprio una gag, nascono nelle chiacchiere e battute tra amici. Magari un giorno farò canzoni introspettive o d’amore, ma ora il mio mood è quello di non essere angosciante o una palla!

Il tuo slang, pieno di anglicismi e parole storpiate è un vero e proprio marchio di fabbrica. Ci tieni molto?
Sono dei giochi, mi gaso nello scrivere così anche se mi rendo conto che se fossi più comprensibile allargherei il mio pubblico, sarei più pop. Il fatto è che ascolto solo cose americane o inglesi e il mio vocabolario è influenzato da quello.

Una parola che compare sempre è Komparema. Che significato ha?
La mia famiglia è originaria del Salento e giù in dialetto ci si chiama così, è come dire “bro”.

Nella tua musica si percepisce questa vibe salentina, lu sule, lu mare e lu reggae come cantavano i Sud Sound System. Fa parte del tuo background?
Ci hai beccato. E anche la canzone di Manu Chao di cui parlavamo prima è stata scelta perché ha un suono in cui mi riconosco, un po’ reggae. Da ragazzino in Salento ho visto centinaia di live, gente tipo Capleton e Buju Banton, sono cresciuto con quel ritmo dancehall. Ascoltavo Vacca quando andò a vivere in Jamaica e pubblicò un mixtape ispirato a quell’esperienza. E tra un party techno e una dancehall scelgo sempre la seconda!

In Goblin parli molto e in maniera disinvolta di droga…
Che poi nella vita non ho provate alcune cose, e la gente quando glielo racconto si stupisce. Sicuramente sono per la legalizzazione e depenalizzazione delle canne, ma per il resto non mi piace elogiare il consumo di droga, ho visto tanta gente rovinarsi. E non amo dire “faccio questo, faccio quello” come fanno molti colleghi, lo trovo un po’…

Diseducativo?
Ma no, il rap non deve educare. Quando Sciroppo era in classifica mi gasava l’idea che fosse una canzone scorretta, l’idea di andar contro al politicamente corretto mi è sempre piaciuta. Mi ricordo quando mio padre mi portò in vacanza il libro dei Club Dogo, La legge del cane, perché glielo avevo chiesto e mi disse «questi parlano solo di cocaina, di troie, che stronzata è?«, io risposi «è il rap». Ma i miei non mi hanno mai messo paletti, mi hanno lasciato libero di fare le mie cazzate.

DrefGold - ORAZIO KANE (Official Video)

Forse perché vieni da una famiglia colta, so che tua madre è una scrittrice e sceneggiatrice. Cosa ne pensa della tua musica?
Mi ha detto che Junkie Bar è il suo pezzo preferito. L’ho sempre vista in casa a scrivere al computer e questo suo commento mi rende orgoglioso. Per me la scrittura è sempre stata importantissima. Alle superiori mi diedero cinque e mezzo in un tema e io, per quanto poi sia uscito con 64 alla maturità, andai dalla professoressa, gli ridiedi il tema, uscii da scuola, misi il casco e tornai a casa. Era un voto che non volevo accettare.

Una curiosità. Mi ha raccontato il mio barbiere di fiducia che c’è un ragazzo a Milano che fa le freccine a te e a Ghali. Chi è?
Ibrah, numero uno. Di primo lavoro fa le mozzarelle in un caseificio, immaginalo con dei dread lunghissimi, un clash culturale stupendo, lui è un vero professionista nel suo campo. Con lui passo quattro ore a farmi le treccine e a parlare solamente di Sizla Kalonji o Vybz Kartel: è una figura super positiva e per noi “dread head” fondamentale.

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