Il dub, gli anni 90, gli Almamegretta e 20-anni-20 di Sanacore. «Il nostro disco più rappresentativo, più soddisfacente, che ha dato vita al nostro suono, marchio di fabbrica», racconta Raiz a proposito del secondo album del gruppo napoletano, che uscì appunto nel 1995 e che verrà presentato dal vivo all’Estathè Market Sound, ai Mercati Generali di Milano, domenica 19 luglio con il titolo The Sanacore Dub Live Sessions 20°.
«Il festival ci ha fatto anche una sorpresa perché ha invitato a suonare in apertura e insieme a noi, anche il produttore artistico, Adrian Sherwood».
Insomma, avete un’enorme malinconia a ripensare agli anni ’90, gli anni d’oro del dub, del reggae e del trip-hop, i vostri generei?
«Io credo che uno provi nostalgia per i periodi che non ha vissuto, io mi sento così nei confronti degli anni ’60. Ma noi gli anni ’90 li abbiamo stravissuti: ci siamo divertiti e abbiamo raggiunto il massimo della fama. Tutte le band hanno i loro up and down e noi lì eravamo nel massimo dell’up. Detto questo son contentissimo di vivermi anche questo tempo».
Come è stato tornare a esibirsi insieme?
Noi non ci siamo mai separati davvero ma non lo abbiamo comunicato in maniera corretta. Vent’anni fa non era così comune suonare in una band e poi dedicarsi ai propri progetti solisti, mentre oggi lo è molto di più. Nessuno pensa che i Club Dogo vogliano separarsi quando escono i loro album da soli. Esiste molta più libertà, è normale pensare che uno possa entrare e uscire in un collettivo.
Certo, quando esce un album con un cantante diverso si pensa che un divorzio ci sia stato.
Però in fondo non dovrebbe essere così scontato. Alcuni membri degli Almamegretta hanno collaborato ai remix dei miei pezzi solisti e siamo rimasti sempre in contatto. Non ci siamo mai veramente separati. C’è stata una crisi, sicuramente, della musica e della band ma ci ha stimolato a dedicarci ad altri progetti.
Negli anni 90 eravate anche un punto di riferimento per la musica impegnata e politicizzata, per i gruppi di oggi, obiettivamente, sono temi passati in secondo piano.
È il linguaggio della politica in generale che si è logorato e sarebbe necessario ripensarlo, oggi ancora più di ieri. Del resto io provo un po’ di fastidio verso quelle band che continuano a riproporre slogan in maniera estremista. Tutto è diventato molto più complesso rispetto a 20 anni, l’immigrazione verso i Paesi europei è più massiccia, bisogna prestare attenzione alle sfumature e per esempio avere una sensibilità religiosa. Ma credo che non si possa nemmeno accettare tutto in maniera acritica: l’accoglienza dei migranti è al primo posto ma poi bisogna far rispettare le libertà civili che abbiamo conquistato in Occidente. Solo per fare un esempio: far capire che la pena di morte prevista per i gay è inaccettabile.
Nell’album che uscirà nel 2016 ci sarà spazio per queste riflessioni?
Non so assolutamente, siamo ancora in fase di scrittura. Io butto giù delle idee e cerco di renderle in maniera poetica. E di pensare alla musica e basta.
Sul palco dell’Esthatè non avete suonato pezzi nuovi, a parte il singolo Not in my name?
Esatto, solo quello e poi Sanacore e pezzi di altri album. Non solo un’operazione nostalgia degli anni 90.
C’è ancora spazio per la musica dub oggi?
È un genere che bene o male avrà sempre il suo mercato. È la ricerca della dissoluzione delle tracce che arriva a effetti di psichedelia: non ci può cancellare.