John Taylor indossa una sorta di divisa, quando sale sul palco: pantaloni della tuta (ma in versione deluxe, con bande glitterate), t-shirt nera con una tigre verde e una giacca biker di pelle rossa. Siamo un po’ lontani dagli eccessi new romantic, ma l’emanazione di coolness è comunque notevole. È seduto in una stanza bianca, nel backstage dell’Home Festival di Treviso, dove i Duran sono headliner, gli unici a vantare un pubblico di almeno due generazioni: mamme e figlie sono in prima fila a sgomitare, le prime pronte a piangere per Save a Prayer, le seconde a usare Instagram per riempirlo di stories su Pressure Off.
«È giusto, siamo una band differente adesso, completamente differente. Siamo più adulti. È come se a un certo punto avessimo deciso di costruire qualcosa di più stabile», dice Taylor. «Nessuno può mantenere lo stesso status per sempre. Negli anni ’80 abbiamo costruito qualcosa di unico, ma era un’altra storia. Amavo essere in quella band!», urla, ridendo. Ma il tempo passa anche per loro: «Stiamo diventando dei tipi un po’ noiosi… Ci preoccupiamo di cose come la perdita dei capelli». Un problema che non diresti, vista la chioma fluente che il bassista può ancora vantare. Non si esce vivi dagli anni ’80, in fondo. Qualcosa dovrà pur cambiare. «In quegli anni, le cose succedevano molto in fretta. Un po’ perché eravamo giovani, un po’ perché era quella stessa epoca a essere rapidissima. Prendi per esempio il Giappone: ci siamo appena tornati dopo una decina di anni (alcune date che si trasformeranno in un documentario live, nda), ma ci abbiamo messo una vita a conquistarlo. Ci andavamo ogni settimana per fare promozione, mini tour, concerti!».
C’era anche una costanza diversa, un ritmo di lavoro più serrato: «Dovevi stare sul pezzo, sempre. Potevi avere un successo incredibile un anno e sparire totalmente quello successivo. Non potevi rilassarti mai: appena tiravi un po’ il freno e ti godevi un po’ la tua notorietà, la tua vita, perdevi il passo… “Ma come? Dove sono adesso?”. E vedevi il treno passarti davanti agli occhi. Bastava sbagliare letteralmente due canzoni», dice Taylor. «Anche a noi è successo qualcosa del genere. Negli anni ’90 ci siamo dovuti fermare e ricostruire la band. Anche mentalmente. È stato necessario: volevamo creare qualcosa che non fosse solo pop, che non fosse solo una moda, ma che fosse eterno. Siamo rinati, letteralmente, dopo quella pausa».
Il momento di stop della band è arrivato abbastanza presto e, tra mille progetti paralleli, abbandoni e reunion, solo negli ultimi anni sembra essere arrivata la calma. Dal 2006 a oggi, dopo l’abbandono definitivo di Andy Taylor, Simon Le Bon e soci sembrano essere tornati quelli di una volta, adattandosi per forza di cose all’industria discografica attuale. Il ritmo dei Duran Duran negli anni ’80 sarebbe impossibile da reggere ora, non solo per l’età raggiunta (la band è in una forma notevole, ma Nick Rhodes, che è il più giovane, ha passato le 55 primavere), ma per le logiche del mercato discografico: Duran Duran, Rio e Seven and the Ragged Tiger uscirono nel 1981, 1982 e 1983. Nessuna etichetta scommetterebbe su una band che ha pronto un disco all’anno.
«Sai qual è il segreto? Non avremmo scritto così tanto se ci fossero stati i social, sicuramente!», scherza Taylor. «E in più ho avuto un grande vantaggio: senza Instagram ho potuto spassarmela senza dover fare foto e mantenendo una sorta di privacy».
Ma ultimamente ci sono ricascati: «Ho avuto un momento social di recente, un momento pesante. Poi ho dovuto cambiare il mio telefono e non ho più installato nulla. È facile uscirne, ti piace tantissimo e poi all’improvviso, quando non ce l’hai, non te ne frega più niente. Come tante altre cose nella vita». Comunque, prima di lasciarci, non possiamo rinunciare a un video saluto.