Il pop non è solo un genere musicale, è innanzitutto una sfida che spinge a scrivere un brano in maniera originale pur confrontandosi con una struttura compositiva canonizzata, che ogni volta va ripensata e (possibilmente) rinnovata. Lo sa bene Molly Rankin, la frontgirl degli Alvvays, capace di scrivere brani di eccezionale appetibilità pop e di consapevole fascino indie. Ma proprio l’indole alternativa e un passato ricco di ascolti trasversali portano la cantautrice canadese ben lontana dalle produzioni formalmente calligrafiche, indirizzandola alla ricerca della perfetta canzone pop attraverso una consapevole alterazione noise. «Amo le chitarre rumorose e i muri di feedback», ci spiega al telefono Molly, «mentre Alec (O’Hanley, chitarrista della band, nda) è riluttante a usarli. Kerri (MacLellan, tastierista, nda) ed io lo incoraggiamo, perché penso che, fin quando c’è una parte melodica su cui lavorare, il bilanciamento può essere entusiasmante e anche divertente».
Blue Rev, il terzo nuovissimo album degli Alvvays, arriva ben cinque anni dopo Antisocialites. Nel mezzo c’è stata una pandemia, i momenti utili per la scrittura dei nuovi brani e il tempo per riprendersi dalla brutta avventura in Belgio, quando proprio la Rankin fu approcciata sul palco da un ammiratore che provò a baciarla. Un episodio destabilizzante, per fortuna ora superato, a cui è seguita l’impossibilità (causa Covid) di incontrare per mesi gli altri membri della band e di provare i nuovi pezzi. Ancora una volta, ad aprire il disco c’è una traccia di violenta bellezza, Pharmacist, che immerge fin da subito l’ascoltatore in un flusso sonoro ricco di suoni elettrici, chitarre vibranti e voce elegiaca.
«Ho insistito molto affinché questo fosse il primo singolo e la prima traccia dell’album, perché è un brano che riesce ad essere allo stesso tempo nuovo e vecchio, inedito e riconoscibile rispetto al nostro suono. È una fiammata!». Una scelta simile era stata fatta nel 2017 con In Undertow, il brano di apertura di Antisocialites, probabilmente una delle canzoni pop più vicine alla perfezione dell’ultimo decennio, con le sue chitarre fuzz e la melodia modernamente romantica. L’effetto resta ancora dirompente e apre la strada a una raccolta decisamente varia e accattivante, ricca di rimandi al moderno suono canadese così come agli ascolti adolescenziali di matrice Brit e alternative anni ’90.
«In un certo senso gli Oasis sono stati la prima band moderna che ho ascoltato, a cui mi sono appassionata», racconta Molly con una punta di nostalgia. «Li vidi in tv, credo avessi 12 anni e che il brano fosse Don’t Look Back in Anger, e quell’esperienza mi ha aperto la mente. Da allora ho imparare a suonare quei brani con la chitarra e poi a scrivere le mie piccole canzoni». Per molti versi, però, gli Alvvays rappresentano una diretta discendenza del suono dei Broken Social Scene e di quella parte rock emersa dalla correlata label Arts & Crafts. Fra tutti, vengono senza dubbio in mente gli Stars, la formazione di Toronto che ha interpretato la fusione fra anni ’90 e ’00. «Gli Stars sono stati molto incoraggianti con noi», rivela Rankin, «ma fanno parte di una scena differente. Ad ogni modo amo la voce di Amy Millan».
Cinque anni, dunque, per un disco scritto nella tranquillità dei momenti di quiete, lontano dal caos del tour e dagli infiniti impegni promozionali. «Non riesco a buttar giù le mie piccole idee quando resto tutto il giorno in mezzo alla gente. Invidio molto chi ce la fa, ma nei momenti di relax durante il tour desidero solo dormire e fare cose come una persona normale. A volte cammino per strada e vengo folgorata da una melodia, che riesce a sbloccare differenti sentimenti e parole. A volte può trattarsi di una combinazione unica di parole che mi fanno ridere oppure arrabbiare, allora mi isolo e provo a esprimere me stessa».
L’idea compositiva si innesca dunque in maniera proustiana, come deve essere accaduto a Molly all’assaggio del Blue Rev, un vino sciropposo di memoria adolescenziale. «Quella bevanda mi permette di evocare tante immagini, piccole cose di quando ero teenager e che mi hanno spinto a intitolare il disco in questa maniera. Ad ogni modo, generalmente non parlo di me nei testi, e anche nella musica cerco sempre un cambio emotivo. Se ti dai questo obiettivo, allora qualcosa di buono verrà fuori. Non intendo rifare le stesse cose, perché quando suoni da tanto tempo ti viene naturale rientrare in modelli confortevoli, così abbiamo fatto uno sforzo cosciente per provare a spezzare la routine e a creare delle vere svolte sonore. Alec ed io siamo cresciuti come produttori e autori, abbiamo avuto molto tempo per riflettere su ciò che stavamo facendo, prendere qualche rischio e divertirci con questo nuovo disco. Spero che si senta nell’album».
Dopo un lungo periodo di scrittura e di prove in sala, il quintetto è entrato in studio nell’ottobre del 2021, affiancati al banco di produzione da Shawn Everett (in precedenza al lavoro con War on Drugs e Kacey Musgraves). Registrato due volte in un’unica sessione giornaliera, Blue Rev è stato poi messo sotto la lente di ingrandimento della band e di Everett in un’impresa meticolosa di rielaborazione, insistendo proprio su quelle composizioni in cui si poteva osare maggiormente. «Alcuni brani li abbiamo tenuti in maniera simile alle demo», racconta Rankin, «mentre altri che avevano tanta energia sono cambiati completamente. Sean ci ha lavorato molto, ha avuto la capacità di capire cosa intendevamo fare, di sintonizzarsi con noi e di essere molto collaborativo. A lui piacciono i suoni strani e le cose che non sono troppo perfette».
I 14 pezzi di Blue Rev hanno uno sguardo in avanti rispetto agli esordi della band, ma ripensano anche il passato attraverso la scelta di suoni ben determinati. La raccolta mostra una lunga serie di richiami alla prima 4AD, a formazioni come Lush, Throwing Muses e certi Cocteau Twins. Il tutto sporcato con feedback e refrain lietamente rock. «Col primo disco le cose erano abbastanza nebulose, stavo imparando a cantare e usare la mia voce. Stavamo provando a capire come iniziare una “conversazione” fra la chitarra di Alex e la mia voce, a come farle coesistere nello stesso spazio. Penso che abbiamo fatto passi in avanti ed è bello che non vi sia timore di editare i brani e rifinirli. Ogni disco è stato un processo di apprendimento. Non volevo finire per realizzare un grande album synth tutto patinato, dove ogni cosa risultasse luccicante e costosa. Mi piace essere rumorosa, spigolosa, intrecciando le melodie con un po’ di caos e rumore».
Arricchito in After the Earthquake da una citazione al libro di Haruki Murakami Tutti i figli di Dio danzano («Ho letto un suo solo libro, ma da quando è uscita la canzone parlo spesso con gente che ha amato tutti i suoi romanzi»), questo terzo disco è quasi pronto per essere portato in tour. Ma non è così semplice. «Ci sono tonnellate di suoni che di solito non usiamo», spiega Molly, «e vogliamo costruire uno show che permetta ai brani di essere simili a come li si sente su disco. Si tratta di un processo di completo ripensamento, ci stiamo provando e siamo molto responsabilizzati. Abbiamo fatto del nostro meglio per costruire un arco d’ascolto, una sequenza corretta. Non credo che ormai sia molto comune che l’ascoltatore senta un disco per intero, ma questo non significa che non si debba tentare di creare un climax, così da accompagnarlo in un grande viaggio».