«Fare un’intervista oggi è strano e piacevole. Dall’uscita di Operazione Oro è passato un anno, in cui sono stata chiusa in casa a scrivere nuovo materiale. Alla fine il confronto è stato per lo più con me stessa o con il mio team stretto. Raccontarsi di nuovo all’esterno è bello».
Chiamo Joan Thiele in un sabato pomeriggio primaverile così piacevole da far quasi dimenticare che fuori c’è una pandemia che va avanti da più di un anno. Operazione Oro, il suo debutto in italiano dopo due album in inglese e una carriera iniziata a neanche 19 anni, è uscito proprio durante il primo lockdown. Un disco con cui l’artista, di base a Milano ma di origini napoletane e svizzero-colombiane, ha raggiunto una nuova maturità, una nuova consapevolezza. Soul, hip hop, indie ispirazioni quasi jazz e un impianto cinematografico che ricorda le sonorità delle colonne sonore del cinema italiano anni ’60 e ’70: da Piero Umiliani a Piero Piccioni, Morricone, Trovajoli e tanti altri.
Consapevolezza e dna sonoro che ora trovano seguito in un progetto composto da atti, ciascuno di due brani. Il primo, Memoria del futuro è uscito a febbraio, prodotto da Mace, Venerus e Ceri, mentre il secondo, Disordinato spazio, da Emanuele Triglia, Amanda Lean e notforclimbing. Joan Thiele sta evidentemente prendendo la rincorsa verso un nuovo salto. Questo anche grazie anche alla capacità di giostrarsi tra featuring come quello con Myss Keta e Le ragazze di Porta Venezia o quello (in coppia con l’amico Venerus) sul celebrato ultimo disco proprio di Mace.
Tutti gli artisti citati sono di Milano, che ormai sembra ormai essersi nuovamente appropriata dello scettro di centro musicale italiano (creativamente, non solo economicamente), dopo la parentesi indie romana di anni ’00 e ’10. Come da tradizione per la città meneghina, il suono che si sta delineando strizza decisamente l’occhio all’estero. Questo pur rimanendo saldamente ancorati a suoni e tradizioni italiani, a partire dalla lingua, che rimane l’italiano anche se in una versione dal suono e l’approccio quasi inediti – basti pensare alla dizione particolare di artisti come Mahmood o Venerus, un po’ strascicata e irresistibilmente lamentosa, condivise proprio con la stessa Thiele. «All’inizio nel passaggio dall’inglese all’italiano avevo molta paura. È stato un processo di apprendimento durato un anno e fortemente voluto, in cui conoscere più lingue è stato importante anche nell’approccio tecnico alla scrittura. Ho iniziato a usare una lingua un po’ evocativa, cinematografica, che foneticamente prende ispirazione dall’inglese, superando i limiti di suono dell’italiano. Continuo comunque a fare cose in inglese e spagnolo, ma ora che ho trovato questa cifra stilistica la uso per tutte e tre le lingue».
L’unione tra la voce da sirena di Joan e le basi musicalmente inclassificabili, con un tocco di hip hop e soul moderno arricchiti da una sensibilità quasi jazz, compongono un monolite ipnotizzante. Prima ancora di trasmettere parole, le linee vocali agiscono come un vero e proprio strumento aggiunto al mix. Insomma, una lingua cinematografica per una musica fatta della stessa pasta. «Il cinema è in primis un luogo che si condivide con gli altri, dove si ascolta e si guarda assieme. Quindi mi piaceva l’idea di far uscire questi atti come se fossero un po’ un momento comunitario, da condividere».
Il tema della condivisione sposta la conversazione su come gli artisti abbiano reagito a questi mesi di chiusure e divieti, sia praticamente («io come reazione ho scritto tantissimo») ma soprattutto dal punto di vista emotivo. In questo senso gli atti scritti e pensati da Joan sono nati nei mesi di isolamento, improntati a un atteggiamento riflessivo senza diventare drammatico. «Ci sono stati alcuni temi ricorrenti che mi hanno colpito molto in questi mesi. Il primo a palesarsi con forza è stato quello del tempo: la qualità del mio tempo, in particolare di come prima della pandemia avessi la tendenza ad essere un po’ maniaca del controllo. Da questo cambio di prospettiva è nato il primo atto, Memorie del futuro. Il secondo atto invece si intitola Disordinato spazio. Come si intuisce, è un modo di racchiudere pensieri disordinati e soprattutto come quei pensieri anarchici finiscano per trasformarsi in musica».
Le manie di controllo sono anche comprensibili per un’artista che ha debuttato appena maggiorenne, che si è trovata immersa in quello schiacciasassi che può essere l’industria musicale, ma «è un’attitudine che ho abbandonato. Essere capaci di aprirsi secondo me poi è in realtà la vera chiave per far emergere la propria personalità. Più credi di poter controllare tutto, meno ti fidi del team con cui lavori e diventi rigido». Prendersi la libertà di cambiare il proprio approccio strada facendo è perfettamente naturale. «Oggi è tutto più veloce, hai la possibilità di scoprire cosa ti piace e cosa non ti piace più in fretta rispetto al passato. Io invece credo di essere maturata nel tempo, un tempo ero sicuramente meno inquadrata artisticamente. Il fatto che in questi anni abbia iniziato a studiare sempre più la produzione musicale dei brani ha avuto una grandissima influenza. A 19 anni oltre a suonare la chitarra e avere un gusto musicale non avevo quasi consapevolezza sul processo più ampio».
Questo approccio quasi cantautorale vestito di un abito pop moderno, raffinato e colto è proprio una delle forze della musica di Joan Thiele. Un’intimità da performance chitarra e voce («l’organicità dello strumento dà delle vibrazioni speciali, mi fa scrivere in modo diverso») che è una caratteristica spiccata del nuovo corso intrapreso con Operazione Oro, in qualche modo più blues e meno funk. «Sì è vero è emersa una vena un po’ più malinconica. Sai cosa, mi sono resa conto che ho iniziato a scrivere le canzoni che ascolterei io in primis. Non che prima non lo facessi, però ho cercato di essere più fedele a ciò che volevo essere io e ciò che mi sentivo. Anche a livello di scrittura mi sono lasciata andare e sono tornata un po’ più ragazzina. Ho ricordato quello che mi faceva vibrare da piccola che secondo me inconsciamente avevo perso. Quando ti ci ritrovi dentro, l’industria musicale può essere un tritacarne, può farti dimenticare che sei la stessa che è megafan di Anderson .Paak, ma anche dei Led Zeppelin».
Lasciarsi andare, fidarsi di chi si ha intorno, crescere come persona e come musicista vuol dire anche acquisire abbastanza sicurezza in se stessi da procedere per sottrazione invece che per addizione. «Ho iniziato a togliere: ho capito che non c’è bisogno di sovraccaricare, di mettere troppo, spesso perché magari pensi che così facendo stai nascondendo quello che non funziona. Penso sia questa la chiave, sono in un momento della mia vita in cui non sento la necessità di “over produrre” le cose». E anche di far confluire con delicata autorità i diversi retaggi culturali di cui è composta l’artista di base a Milano. Giocando con gli stereotipi, nella musica di Joan Thiele possiamo rintracciare il gusto per la melodia napoletano, le intuizioni ritmiche sudamericane («sono due anni che non riesco a tornare in Sud America, è una roba che mi fa ammattire»), l’apertura internazionale milanese perfettamente al passo con ciò che sta succedendo nel resto del mondo.
Anche questo è un tema di questa nuova scena milanese: l’emergere di diversi talenti con un retaggio culturale misto. A partire dai più in vista come Mahmood e Ghali per arrivare ad un sottobosco di talenti in rapida ascesa come Yendry, Laila Al Habash, Darius, LaHasna, la scena afrobeats. «I miei artisti preferiti sono proprio di origini mixed. Che so, Anderson .Paak, Lianne La Havas, FKA twigs hanno tutti origini a cavallo tra diverse culture. Quando ti formi in questo modo sicuramente va a influire a livello melodico, sonoro. Anche se è un percorso inconscio, non è che lo dichiari, sono sfumature che uno ha dentro».