La storia di M.e.r.l.o.t – cioè Manuel Schiavone, classe ’98 – è quella del cantautore fuorisede che ha iniziato a casa, in Basilicata, e poi è sbocciato, trovando la propria identità, nella sua stanza a Bologna. Da là, nella città in cui il pop incontra i cantautori (Dalla, Carboni, Morandi, Cremonini), è venuta fuori Ventitre, la canzone che lo scorso gennaio l’ha lanciato in cima alla playlist Indie Italia di Spotify e che oggi segna tre milioni di ascolti: un misto equilibrato e notturno fra it pop, tradizione e rap, che l’ha reso e uno di quelli da tenere d’occhio per il 2020. A conferma di ciò, lo scorso 3 luglio ha pubblicato Sparami nel petto, una ballatona malinconica fra Cremonini e Bersani, che prova il raddoppio, ancora con echi hip hop nelle strofe. «Visti i numeri, ci credo un po’ di più: la musica può diventare il mio mestiere», mi dice. Intanto ci va cauto: procede per singoli e rimane in Emilia a studiare ingegneria ambientale, pure perché sta «un po’ indietro con gli esami». Senza fretta, su tutto.
«Il fatto è che vengo da un posto dove chi ci crede viene preso in giro. Il cantante non è neanche percepito come un lavoro. E ho sempre avuto paura del giudizio degli altri», riflette a posteriori. «Certo, mio padre è musicista e sono cresciuto circondato da strumenti: suono chitarra, tromba, basso; ma per esibirmi la prima volta in Basilicata, al Wood Sound Festival, mi sono caricato di birre. E me ne sono fregato, del parere degli altri». Quindi Bologna, dove ha capito che un lavoro, il cantante, poteva esserlo eccome. E dove ha scritto Ventitre: «Quando uscì, un amico ascoltandola mi disse: “Fra’, tra due mesi cambia tutto”. Io mi misi a ridere, ma dopo qualche settimana ero in copertina su Indie Italia. E pensare che è nata in cameretta, con un microfono usb da 30 euro. Però mi ha fatto capire che, grazie a Spotify, oggi nella musica c’è democrazia: se un brano vale, non interessa come e chi lo registra; anche da una cameretta con un PC mezzo rotto si possono raggiungere certe vette».
In ogni caso, penso, la chiave del successo è soprattutto l’unione – già collaudata, certo, ma qui portata avanti da una capacità di scrittura notevole – di linguaggi. Sparami nel petto, per dire, ha il taglio del cantautore, ma nelle strofe – di fatto – è rappata con un lessico persino street, mentre poi nei ritornelli è pura tradizione pop, per di più robusta a livello melodico. Oltre a racchiudere una certa ambizione nazionalpopolare: «Utilizzo parole, diciamo, moderne perché le canzoni devono sembrare miei pensieri: è inutile usare paroloni, bisogna essere più semplici possibile; chi è che, quando pensa ai problemi, utilizza un italiano forbito?». Poi certo, i riferimenti – almeno in superficie – sono quelli: «Con l’indie ho capito che si poteva fare musica in italiano. Calcutta mi ha aperto le porte: è stato lui a farmi capire che il cantautorato italiano è figo. Gazzelle, invece, mi ha reso il sottone che sono». Eppure, assicura, «del rap mi piace molto Ernia: ciò che scrive, come scrive».
Per il resto, è come se Bologna lo avesse adottato nella sua scuola: se è vero che un arredamento, col piano e la chitarra in evidenza («un suono eterno») e l’elettronica sulla sfondo, insieme a un immaginario a tratti tristissimo («è più potente di quello allegro: ti fa provare più emozioni») potrebbero renderlo figlio dell’it pop (uno dei tanti), seguire questa traccia è raccontare solo una parte di verità. La stessa Sparami nel petto – dicevamo – risente di Cremonini e Bersani: «A esserlo, un loro erede! Penso sia ciclico: il cantautorato doveva tornare, e l’ha riportato in auge la mia generazione. Con loro come riferimenti perché, alla fine, erano i più popolari quando i bambini eravamo noi».
Va detto, comunque, che M.e.r.l.o.t rischia sempre in quanto a riferimenti: un altro suo pezzo, Bar Mitzvah, al di là delle incursioni rap si muove su quell’immaginario di marche, simboli, situazioni (bar, bevande, primi appuntamenti, notturni metropolitani) tipici del nuovo cantautorato italiano – e la questione può estendersi ad altri suoi testi. Mi dice che ha iniziato comunque da poco a «trovare» la sua voce, ma la paura del cliché? «È tanta, sì. Però non penso a nulla quando scrivo: lo faccio e basta, senza considerare eventuali etichette. Anche perché mi sento nell’età giusta: sono invaso dalle emozioni, inizio a capire cosa vuol dire la parola delusione, mi innamoro, sono smarrito, non so cosa farò tra qualche anno». I 20 anni, insomma, come «una seconda adolescenza». E, con queste basi, la città emiliana può essere il posto giusto per trasformarli in un pop bolognese che tenga dentro quello dei ’90, i cantautori, gli sfondi elettronici, l’Italia. E anche Ernia, finalmente, perché no,