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E se gli Overmono fossero i nuovi Chemical Brothers?

Hanno portato il loro UK sound a Glastonbury, Primavera Sound, Coachella. Dopo una serie di fortunati EP sono arrivati al primo album, ‘Good Lies’, e dicono: «Nostalgia rave? Meglio guardare al futuro»

Foto: Elliott Morgan

Che a un certo punto qualcosa succeda, nella periferia del Regno Unito, è storia che accompagna la musica elettronica da ormai decenni: i villaggi fuori da Edimburgo dei Boards of Canada, le scogliere nel deserto della Cornovaglia di Aphex Twin, gli spettrali paesaggi post-industriali della Rochdale degli Autechre, nei sobborghi di Manchester. Da quelle parti, sfuggire alla realtà significa spalancare le porte a un suono che cambia le regole.

In quella recente, di storia, a questa mappa si aggiungono le rurali lande del sud del Galles dove i fratelli Ed e Tom Russell crescono: ancora più lontano, se possibile, dai centri di interesse per la musica club. In mezzo a un gruppo di persone appassionate di trance, hard house e techno tagliate fuori dalle grandi città, qualsiasi preconcetto svanisce: nel giro di pochi anni, dai party improvvisati nel retro di vecchi pub del posto a rave arrangiati tra boschi e cave dismesse, i due si ritrovano a condividere la passione per la stessa idea di musica, nonostante Ed sia più piccolo di Tom di dieci anni.

Overmono nasce quasi per caso: i due fratelli iniziano la carriera con progetti separati (Tom come Truss, Ed come Tessela), che ad un certo punto fanno incontrare, di nuovo, nello stesso posto. Dal debutto su XL Recordings nel 2016 al riconoscimento come Best Live Act per DJ Mag Best of British nel 2021, la loro traiettoria è diventata presto inarrestabile, trascinando il club sugli enormi stage pop. Il loro primo album arriva dopo una sfilza infinita di EP e collaborazioni prestigiose, si chiama Good Lies e raccoglie tutta la carica generata da un linguaggio che ti trasporta nevroticamente tra pop del futuro, club, garage e two-step, senza mai citare veramente il passato e seducendo un’idea di futuro.

Una ricetta che gli ha permesso di portare il loro live sui palchi più importanti al mondo, e che rende il loro stile qualcosa in più che una promessa dell’elettronica. Ci siamo fatti raccontare come sono andati, questi anni, cosa significa scrivere un album e diventare “maturi” e quanto ancora c’è da aspettarsi, dalla loro musica.

Good Lies è uscito solo una decina di giorni fa ma mentre stiamo parlando ha già raggiunto l’11ª posizione nella Top 100 album in Regno Unito (per capirci, appena dietro Fleetwood Mac, Harry Styles e Taylor Swift). Come vi sentite?
Ed Russell: È una sensazione piuttosto surreale.
Tom Russell: Decisamente surreale. Non ce lo saremmo nemmeno sognato, non era un nostro obiettivo. Quando abbiamo capito che c’erano chance di entrare nella top 40 sembrava già abbastanza assurdo, figuriamoci arrivare appena sotto la top 10. Incredibile.

Arrivate a questo capitolo con un repertorio già importante alle spalle, ma questo è il primo album degli Overmono. Volevo riprendere una frase con cui annunciavate Everything U Need, EP che usciva nel 2020, perché sembra emblematica per descrivere il vostro momento: «Una delle cose migliori del fare musica è la consapevolezza di poter sempre migliorare»: quanta consapevolezza e maturità c’è in questo disco?
Ed: Aldilà del formato album in sé, ci è semplicemente sembrato il modo più adatto poter raccontare tutto quello che abbiamo fatto fino ad oggi. È un po’ come abbracciare nello stesso luogo i mondi sonori che abbiamo incontrato lungo questi anni. Per quanto, sai, la nostra vera motivazione è sempre stata quella di guardare avanti, pensare a ciò che ci sarà dopo.
Tom: Sì, diciamo che unisce i puntini di quanto abbiamo sperimentato fin dagli inizi, già con l’EP Arla nel 2016, che fu la prima vera release come Overmono. Good Lies non vuole necessariamente migliorare qualcosa o raccontare una storia diversa da ciò che siamo stati da quel momento in poi, anzi: mette insieme tutti i momenti del percorso.

E arriva comunque in un periodo che non si può definire normale: prima astri nascenti dell’elettronica underground, poi i palchi di Glastonbury, Primavera Sound e Coachella. Più che degli Overmono, quanto è cambiato di Ed e Tom con esperienze del genere?
Ed: Beh parecchio, sicuramente. Quello che volevamo raggiungere artisticamente durante gli anni è maturato con la musica e progredito con l’esperienza. Per me personalmente è cambiato e migliorato il modo di lavorare su certe cose: come Tessela, il progetto da solista, magari mi fissavo su una scrittura che rendesse le produzioni un po’ strane, elementi che nel club ti fanno fatto dire «che diavolo è questa roba?», e cose del genere. Adesso c’è una visione d’insieme, più profonda.
Tom: Sì, come persone siamo fondamentalmente le stesse, ma credo che musicalmente non si possa ignorare un cambiamento piuttosto netto, da parte di entrambi.
Ed: Credo che il desiderio di fare musica con cui le persone possano avere un legame più emotivo abbia giocato un ruolo importante. Avere uno stile, un suono che agli altri faccia ricordare qualcosa.
Tom: E qualcosa che si connetta con la gente ad un livello diverso, credo.

Parlavate di Arla, il primo EP come Overmono dopo i progetti da solisti. Credo che da allora avete fatto talmente tanta strada che ci si dimentica che il progetto parta — e tuttora esca – su XL Recordings, cioè l’etichetta di Radiohead, Prodigy e Tyler, the Creator, tra gli altri. Mi spiegate com’è che siete arrivati a loro?
Tom: In quel periodo c’eravamo chiusi in studio in un cottage in Galles. I nostri progetti separati non ci davano più il mordente che cercavamo, quindi abbiamo iniziato a lavorare a delle cose nuove insieme, senza troppe pretese, per divertirci. Non avevamo un nome, non sapevamo neanche che stavamo per cominciare un vero progetto da zero. Nello spazio di pochissimo tempo avevamo una quindicina di brani che suonavano del tutto diversi da quanto avevamo fatto da soli: c’era qualcosa (che sì, è diventata poi Overmono) di diverso, migliore. Quindi ci siamo chiesti: adesso che ci facciamo?
Ed: Io avevo dei contatti con William Aspden di XL, ci eravamo incontrati a dei festival in giro. Ma parlavamo di musica, di quello che usciva, non c’era mai stato nient’altro all’epoca. Però sai, si trattava dell’etichetta a cui avevo mandato la mia prima demo, appena quindicenne.

Avevate delle aspettative basse già all’epoca, insomma.
Ed: Sì assolutamente (ride). Era un’occasione che inseguivamo da tempo, quindi una volta tornati dal cottage decidemmo di mandare tutto a loro: era un sacco di musica, avevamo praticamente un album fatto e finito, nello spazio di pochi giorni in studio insieme. Quindi strano a dirsi ma sì, è avvenuto tutto in maniera naturale. Da quel momento è stata l’unica etichetta con cui abbiamo pubblicato.

Cosa che — insieme a una serie di EP di successo e ora anche un album —v i ha permesso di togliervi sfizi normalissimi, tipo chiedere un remix a Thom Yorke, per il brano Not The News dal suo Anima. Com’è andata in quell’occasione?
Tom: Eravamo talmente fomentati che realizzammo quattro diverse versioni di quel remix. Alla fine ne vennero scelti due e Thom fu così gentile da darci l’opportunità di farli uscire in vinile su Poly Kicks, la nostra etichetta. Guarda, è stata un’altra di quelle cose accadute in questi anni che non avremmo immaginato neanche nei nostri sogni più folli.

In questo salto carpiato continuo qualcosa è sicuramente successa con l’uscita di So U Kno, pezzo suonatissimo che ha determinato il sound che vi ha fatto diventare tra i live più attesi al Coachella. Insomma, dopo l’epopea EDM, non è che avete rimesso il Regno Unito al centro della mappa?
Tom: No, credo che per certi versi le sonorità UK non siano mai andate davvero fuori moda o che siano finite “fuori dalla mappa”. È bello notare che magari negli States ci sia un rinnovato interesse per questo tipo di cose dopo l’EDM, si percepisce dalla mole di date che abbiamo fatto e stiamo facendo, ma nella nostra scena, almeno per come la percepiamo noi, credo siano sempre uscite cose che continuavano una certa storia.

Perché si parla molto di revival rave ultimamente, di come dalla scena UK stiano rifiorendo improvvisamente quel tipo di sonorità. Penso a Fred Again.., al nuovo disco di James Holden o allo stesso Burial (che in questi discorsi è sempre lì, sullo sfondo). Secondo voi gli Overmono sono parte integrante di questa “rinascita rave”?
Tom: No, non credo. È una definizione che ci viene spesso affibbiata, il che ok: non dipende da noi ma da chi ne scrive. Però per quanto questo possa risultare affascinante la nostra idea è sempre stata in realtà quella di guardare avanti. Certo, le nostre influenze provengono da un sacco di cose che rappresentano il suono UK di un certo periodo, dall’hardcore alla jungle, dalla dubstep al garage fino alla techno, ma davvero: per noi è importante considerare il futuro, non credo vorremo mai essere considerati come paladini di qualche revivalismo o nostalgia.
Ed: Sono d’accordo, e poi non avrebbe senso fare musica che suona come qualcosa uscita a metà anni Novanta o ancora prima. Non ne capirei il potenziale: è già stato fatto.

Ci sta. Il rovescio della medaglia è che comunque c’è anche una grande fetta di stampa e di pubblico che vi associa invece al pop, e in fondo se si tratta di elettronica che può fare soldout al Fabric e il giorno dopo avere un disco quasi in top 10 nelle classifiche di vendita forse è anche giusto così. Nella recensione di Resident Advisor del vostro album, la parola “pop” compare ben nove volte. Chi è che ha ragione, insomma?
Ed: Penso che la musica più interessante sia capace di rimanere in quella linea di confine per cui si fa fatica a definirla a tutti i costi, dentro un genere. E va anche bene così. Se pensi ad artisti come Jai Paul o Tirzah, ad esempio, dici: sono pop ma forse non davvero pop. Ma non ha troppa importanza, se la musica è forte. E questo sì, anche per quanto riguarda noi, in fondo.

È una cosa che vi infastidisce o no?
Ed: No, per carità, credo anzi sia un fattore positivo.
Tom: Mi tengo stretta la definizione “pop” piuttosto che revivalista del rave, o qualsiasi cosa di quel genere.
Ed: 100%! (ride, ndr). Credo che a prescindere dai nostri background per noi non esistano grandi barriere, capita anche ascoltando cose appartenenti a mondi lontanissimi da quello che facciamo: se un pezzo di Taylor Swift è bello per me non diventa un guilty pleasure giusto perché è un pezzo di Taylor Swift. Sarà semplicemente un bel pezzo, che importa?
Tom: Esatto, su questo siamo mai stati snob, la buona musica è buona musica, a prescindere dalle definizioni.

Tornando all’album: Slowthai, Smerz, Tirzah sono alcuni dei nomi che compaiono sotto forma di sample vocali in Good Lies, ormai un marchio di fabbrica Overmono. Dobbiamo aspettarci un’evoluzione di questo aspetto, in futuro? State pensando a collaborazioni per brani cantati, ad esempio?
Tom: Al momento stiamo un po’ esplorando la cosa.
Ed: No, abbiamo già registrato dei cantati, non ricordi?
Tom: Ah, già! (ride, ndr). Sì avevamo provato un po’ di tempo fa, in effetti, ne abbiamo parlato solo recentemente. Non abbiamo riprovato seriamente perché credo che la libertà che ci offre lavorare principalmente con i sample sia un fattore intrinseco alla nostra musica. E non perché non vorremmo collaborare con qualcuno su questo aspetto, anzi, ma l’approccio sarebbe completamente diverso. Finché non saremo pronti ci sembrerebbe un’occasione sprecata, una mancanza di rispetto per chi collaborerebbe su quel piano. Quindi aspetteremo arrivi il momento giusto.

Oltretutto se prendiamo So U Kno parliamo di un sample vocale di una manciata di secondi trasformato in una traccia in grado di polverizzare ogni dancefloor, dai boschi di Amsterdamse Bos al Dekmantel al Colorado Desert in California. Che storia ha quel pezzo?
Tom: Stavamo per registrare un mix per la serie Fabric presents del Fabric e volevamo inserire qualcosa di nuovo oltre alle demo su cui stavamo già lavorando. Ed mi manda questo campione vocale su cui aveva già giocato un po’, si trattava davvero di una frase di pochissimi secondi, contenuta in uno di quei sample pack in cui dentro trovi centinaia di voci e suoni di ogni tipo, nulla di sofisticato.
Ed: Siamo andati in studio subito dopo, e quando Tom si è messo a lavorare sulla linea di basso la traccia era praticamente pronta. Così gli ho detto: «Hai fatto centro, lasciamola pure così».
Tom: Sì, la cosa buffa è che abbiamo poi scelto di inserirla come b-side di BMW Track, l’EP che uscì un mese dopo. Ci siam detti: «È un buon pezzo club, semplice e diretto, lasciamolo pure come lato B del vinile, poi vediamo». Di lì a poco esplose.

Il concetto “less is more” applicato al massimo.
Tom: Nella nostra musica essere diretti è sempre stato un fattore, credo che con meno elementi trovi più spesso la chiave giusta.
Ed: Sì, poi in realtà lavoriamo molto sulle linee melodiche, su un certo tipo di arrangiamento e tutto il resto, ma aggiungendo troppa roba non è detto che il risultato sia migliore. Il più delle volte è il contrario, specie se vuoi arrivare a portare un sound riconoscibile nella tua musica.

Torniamo ad oggi: com’è stato portare il vostro live al Coachella?
Ed: Incredibile, ovviamente, anche se abbiamo avuto un grosso problema tecnico che non lo ha reso il più facile della vita, ma abbiamo già lavorato a delle novità che in futuro lo miglioreranno ancora.

E come sta crescendo la vostra idea di live in generale, durante il tour?
Ed: Direi gradualmente e con le idee giuste. Dopo ogni show cerchiamo di perfezionare la performance ed il racconto sonoro che c’è dietro. Stiamo pensando a come potrebbe evolvere, alla base del nostro linguaggio c’è sempre un occhio alla progressione, come dicevamo in altri discorsi prima. Credo sia un processo che debba continuare sempre.

Più o meno negli stessi giorni avete anche incrociato i Chemical Brothers, che vi hanno invitato ad aprire il loro show con un dj set al Santa Barbara Bowl. Com’è stato?
Tom: Avevamo una schedule serrata per via dei voli prima e dopo il live, non potevamo rimanere molto, ma siamo riusciti a goderci l’ultima ora del loro, prima di correre a prendere un aereo subito dopo. Appena in tempo per capire che si tratta di qualcosa di livello diverso, una produzione incredibile, un vero show.

Credete ci siano analogie tra la loro e la vostra storia? In un certo senso, origini a parte, dire che a livello sonoro gli Overmono sono i Chemical Brothers di questi anni non credo sia spararla così grossa. O no?
Tom: Wow, non so se mi spingerei così lontano (ride, ndr).
Ed: Per me va benissimo!
Tom: Va bene, dai, lo prendo per buono!

Un (altro) po’ di futuro, per concludere: come vi sentite riguardo all’evoluzione della scena elettronica negli ultimi anni? Cosa dobbiamo aspettarci da qui in avanti, secondo voi?
Tom: Ah, con le previsioni personalmente ho smesso, raramente ci prendo. Diciamo anche che durante il processo di scrittura di Good Lies siamo stati così dentro il nostro mondo che non ho abbastanza elementi per capirlo. In ogni caso credo che per noi cambierà poco, davvero: cercheremo di fare il nostro senza troppe influenze.
Ed: Penso sia interessante il ritorno alle venue più piccole, specie appunto per il mondo club e dintorni. È un settore che ha avuto parecchie difficoltà a contrastare grandi locali, festival e palchi giganti, adesso vedo che è tornato un sincero interesse. Un po’ come succedeva a noi durante l’adolescenza, si passava il weekend in posti sempre diversi, non in un solo evento enorme al mese. E spesso ci si dimentica anche che sono i posti in cui succedono le cose più interessanti, quelle da dove saltano fuori scene ed evoluzioni, perché preservano l’intimità e la passione per la musica.

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