Qualche settimana fa, a mollo in una piscina di Highland Park, parlavo con un amico americano della mia ultima volta a Los Angeles, e gli dicevo che, tra le altre cose, avevo fatto una bella chiacchierata con un cantautore italiano molto famoso e molto amato che ora vive lì, e l’amico allora s’è incuriosito assai, e m’ha chiesto se ora il tipo canta in inglese, e io gli ho detto no, canta ancora in italiano e per il pubblico italiano (e mezzo mondo latino, vabbè), e in Italia resta molto famoso e molto amato, e questa cosa l’ha stupito molto, all’amico americano: com’è possibile che uno arrivi a L.A., da musicista famoso qual è, e non provi a sfondare anche lì? Su questo tema torneremo anche con Tiziano Ferro, che è il cantautore in questione, ma intanto ripartiamo da dove eravamo rimasti, in un dialogo che – con noi, col suo pubblico – pare non essersi interrotto. Nonostante tutto quello che c’è stato in mezzo: un compleanno tondo, un Sanremo da superospite fisso, un tour saltato causa pandemia, un documentario, due figli. Adesso, un nuovo singolo (La vita splendida) che anticipa un nuovo album (Il mondo è nostro, in uscita l’11 novembre) e, finalmente, il tour (partenza 7 giugno 2023).
Dove eravamo rimasti, dicevo. «Sono ancora preso da sentimenti contrastanti», fa subito lui, «scherza scherza non canto dal vivo dal 2017, tornerò a farlo dopo sei anni… Che poi è successo anche per altri motivi: quando tutti spostavano i loro tour al 2022, io non potevo perché sapevo cosa mi stava per accadere: stavano arrivando i miei figli e volevo dedicarmi un anno a loro. Però, ecco, mi fa strano». Poi, per iniziare, un lampo di vita losangelina: «Ieri sera ero all’Hollywood Bowl a vedere Diana Ross. Ci sono andato per caso, non l’ho mai seguita, ho trovato i biglietti e li ho presi. Ed è stato come partecipare a una masterclass. Questa signora di 78 anni, che cantava ovviamente da dio, ha fatto una scaletta da guerra, una hit dopo l’altra. Io la guardavo e dicevo: cazzo, è così che si fa, il concerto è la scaletta. Bisogna essere generosi col pubblico, Diana Ross era lì perché ha fatto Upside Down, e Ain’t No Mountain High Enough, e Endless Love… E io, che proprio ora sto pensando alla scaletta del mio tour, con questa filosofia mi sono sentito forte, e mi è tornata la voglia di cantare dal vivo, anche se a volte mi dico: sarò in grado di fare un concerto adesso? Mi ricorderò come si fa? Non lo so, di sicuro avrò bisogno di calmanti da cavallo».
Con la pandemia, in tanti si sono convinti che la musica comunque c’era, e quella bastava, e invece la musica suonata e ascoltata è andata in pausa come tutto il resto. «Emotivamente non ero pronto, come molti altri, a trovarmi davanti al fatto che non avrei potuto cantare dal vivo per sei anni. Sei anni sono tanti in una carriera, son quelle cose che fanno certi artisti ma perché lo decidono. Oggi forse esagero, ma a volte mi chiedo: si ricorderanno di me, dopo tutto quello che è successo? Quando ho cancellato il tour ho dato il diritto di rimborso, rischiando di perdere tutti i biglietti. Invece oggi mi ritrovo con 330mila biglietti già venduti quando manca ancora un anno: quella è la cosa che mi dà una forza pazzesca. Ora sto a casa, provo le canzoni con le basi e piazzo i bambini davanti a me: state lì così imparate le canzoni di papà e sentite un po’ di italiano (ride, nda). E loro ascoltano: calcolando che sono l’unico a parlare italiano in casa, mi sembra che lo capiscano bene. Il che mi rende orgoglioso per due motivi. Il primo: perché così lo imparano. Il secondo: allora vuol dire che mi stanno a sentire (ride di nuovo, nda)».
Gli anni senza musica live non sono stati, si capisce, anni persi. «Per niente. C’è stato lo choc iniziale, ovvio, ma io mi sono sentito subito in diritto di trasformare questo momento di impasse in un momento di creatività. Questo mestiere inizi a farlo per esigenza, perché non sai come dire delle cose. Poi cominci a fare i dischi. Il primo lo fai senza sapere che sarà un disco. Le prime canzoni le ho scritte a 17, 18 anni, c’era Rosso relativo e sarebbe rimasta lì anche se non me l’avessero pubblicata. Anche il secondo è nato così, l’ho scritto a prescindere. Poi continui a scrivere, ma sei consapevole del fatto che quelle canzoni finiranno in un disco. E quella consapevolezza è sempre un po’ castrante, ti fa stare comodo. Invece la pandemia – e so che è controverso parlarne come di qualcosa che ti ispira, con tutto il dolore che ha provocato – ecco, a me ha quasi liberato: erano anni che non scrivevo da solo musica e testi di un disco intero. Questo mestiere, mi sono detto, è importante come quello del dottore: il dottore ti cura da malattie molto gravi, l’artista ti cura dai dolori, può prendere il tormento e trasformarlo in qualcosa di costruttivo. L’ho sentito come un obbligo: devi fare così, perché se no sei un fake. Questo disco l’ho scritto tutto da solo – ci sono pochissime eccezioni, tra cui il primo singolo – e sono orgoglioso di me. Perché, e non ho vergogna a dirlo, ho vissuto uno dei periodi più creativi della mia vita, dopo momenti di grande tormento. Nel 2019 ho iniziato un lungo percorso per avere questi figli, non ti spiego per quale strada, ma la verità è che qualunque strada è faticosa. E poi è arrivata la pandemia e l’ha resa ancora più difficile, ti trovi di fronte a centomila ostacoli e centomila occasioni per cambiare idea, e noi non abbiamo mollato, abbiamo lottato per avere questi bimbi (si commuove, nda)… E poi niente, è arrivata la bimba nel 2021, e poi il secondo nel 2022, di colpo ti guardi allo specchio e dici: ho scritto un disco, c’ho due figli… È tanta roba».
Ed è anche splendido, si direbbe, a giustificare il titolo del primo singolo. Che quasi vien da dire: oh, finalmente quest’aggettivo così bello, pieno, felice. Finora le sere erano state nere. L’amore, quando andava bene, semplice. Ora, evviva, la vita è splendida. «È un aggettivo quasi obbligatorio. La canzone termina dicendo: io la voglio cantare questa vita, anche quando l’orchestra scompare. Vengo, dicevo, da anni di cose una più intensa dell’altra, ed è venuto fuori un disco brutalmente sincero. Ti ricordi quel discorso di Meryl Streep ai Golden Globe, quando dice “Prendete il vostro cuore infranto e fatene arte”? Ecco, io l’ho presa proprio sul serio, a ’sta stronza… La vita splendida esiste per quello, oltre che per le disfunzioni della pandemia». E quelle che potrebbero sembrare altre disfunzioni, almeno sulla carta. Tiziano l’ha scritta con Brunori (quel Brunori) e Dimartino (quel Dimartino), e per un attimo pensi cosa mai c’azzeccano questi tre insieme? Poi capisci che tutti e tre fanno una cosa che non fa praticamente più nessuno: le canzoni classiche, le canzoni-canzoni. La vita splendida lo è, una ballatona tizianesca in purezza e in bellezza, molto aperta, molto nuda. «Ci siamo messi lì a scrivere una canzone come avrebbe fatto negli anni ’70, che so, Fossati. Io non conoscevo Dario (Brunori, nda), cioè lo conoscevo come artista, ma non ci eravamo mai incontrati. Esce il suo disco Cip e lo adoro, come già adoravo i precedenti. Allora vado su Instagram e vedo che, non so perché, non lo seguivo, mentre lui seguiva me». [Questo è il classico momento in cui Tiziano Ferro si stupisce – e lo fa senza posa alcuna, sia detto – del fatto che gente nota lo segue sui social.] «Vabbè inizio a seguirlo anch’io, e poi gli scrivo – lui te lo potrà confermare – “Se non collaboriamo almeno una volta, giuro che ti meno”. Mi risponde “Facciamolo” e niente, dopo pochissimo eravamo a fare sessioni su Zoom, cominciavamo e dopo due ore stavamo ancora lì, il che ti dice tutto. A parte essere simpaticissimo, Dario è un autore come mi vedo io. E poi è successa una cosa molto tenera. Mentre scrivevamo questa canzone, io ho saputo che sarebbe arrivato il mio primo figlio, e dopo due settimane anche Dario ha scoperto che aspettava un figlio… Più avanti ancora, ci hanno comunicato a pochi giorni di distanza che sarebbero state due bambine».
Dimartino rischia di finire come il terzo incomodo di Ed io tra di voi. «Ma no, lui anzi è stato molto importante. È molto bravo sulla parte armonica, è un pianista classico. Io sono un topliner, sono bravo nelle melodie… Suono il piano da quando avevo 6 anni ma ho un grande problema di deficit di attenzione e iperattività, alcune cose viaggiano velocissime, altre siedono su neuroni danneggiati e le dimentico. Esempio: inizio a studiare lo spagnolo a 22 anni e dopo due anni lo parlo come manco l’italiano; studio pianoforte da sempre, ho scritto al piano un sacco di canzoni, e continuo a dimenticarmi le successioni di accordi, quindi vado ancora a lezione, e puntualmente mi scordo tutto. Non so suonare le mie canzoni che ho scritto io con gli accordi che ho scelto io. Lavorare con artisti come Dimartino mi aiuta a evolvere, ad aprire le melodie. Sono autori giovani ma “alla vecchia”. Adesso il produttore ti fa una base, l’autore ci scrive sopra e il pezzo è fatto, non è che ti siedi al piano, non lo fa più nessuno. Questa canzone invece è nata proprio così, poi sul testo sono rimbalzate un po’ di idee. A un certo punto, quando io e Dario abbiamo saputo che saremmo diventati papà, abbiamo pensato: forse invece che all’amica dovremmo parlare a una figlia. E subito dopo: no, non facciamo ’sta cazzata, lasciamo stare… Anche perché è un dialogo concreto, reale, con questa donna che per me sono tre, quattro amiche tutte insieme».
Tiziano la definisce «una canzone da quarantenne»: quello era il compleanno tondo, nel 2020. «C’è quest’amica che non s’è sposata, non ha figli, si preoccupa delle prime rughe, e sente che il mondo la guarda, tutti le vogliono trovare un fidanzato o una fidanzata… È una sorta di autoanalisi, io le dico non vergognarti di ballare, di metterti il vestito che ti piace. Mi sembra la versione dei quarant’anni di Alla mia età, un’altra canzone che parlava dei terremoti generazionali in cui tutto crolla, lì era dai 20 ai 30, qua dai 30 ai 40. Sono momenti di dolore, di fragilità, da usare però in maniera costruttiva, come spunto di riflessione per un miglioramento. Io non ho mai detto: va di merda, fine. Mi piace usare il dolore come provocazione per il cambiamento, non solo per le lacrime». Eccola, l’autoanalisi: Tiziano parla all’amica (non tanto) immaginaria, ma soprattutto a sé stesso. «Anch’io mi dico: aspetta, non sei più un ragazzino, non vai più di moda, il mondo intorno a te è cambiato. A un certo punto mi sono girato e non ero più un esordiente: da una parte è bello, dall’altra ti manda in paranoia. Perché non ero più un esordiente, ma non ero nemmeno più trendy».
È il vantaggio e insieme lo svantaggio di uno che, nel Paese in cui i giovani hanno quarant’anni, a quarant’anni può già considerarsi – per carriera, status, classicità di cui sopra – vecchio. «Vecchio, sì. L’hai detto proprio come mi trattano i miei discografici, ma è vero. Questa cosa me l’hanno generata perché viviamo in un’industria nella quale ti dicono: ah, non fai cento milioni di streaming. Ma ovvio che non li faccio: o meglio, per avere quarant’anni ne faccio pure parecchi… Se quando avevo vent’anni avessero contato tutte le volte che la gente ha fatto play su Xdono o Rosso relativo, o quando registravano i miei video da TRL, altro che streaming (ride, nda). Ti vedi ormai uscito da quel campionato, non sei né una cosa né l’altra. Mi diede una bellissima lettura Lorenzo (Jovanotti, nda) quando abbiamo fatto insieme la canzone nel disco precedente (Balla per me, nda). Lui mi guardò e mi disse: “Tu devi capire che ormai sei un classico. Quando hai almeno 20 canzoni che tutti conoscono, ti devi percepire così”. Io non lo so se c’ha ragione, però mi ha fatto sentire bene. “Se pensi alla musica italiana”, continuava Lorenzo, “prima c’erano Baglioni, De Gregori, e ci sono ancora eh… Adesso ci sono io, e ci sei anche tu, domani potresti pure smettere di fare questo mestiere ma resteresti un capitolo importante”. E allora ho voluto fidarmi, ho abbracciato questa realtà e non l’ho più combattuta. La verità è che ho un grande senso di protezione nei confronti dei giovani cantautori, sono amico di molti di loro – più che altro lo zio, ormai. Li sento, loro si fidano di me. Sento Ultimo molto spesso, e thasup che mi ricorda i Sottotono degli anni ’90 per produzione e scrittura, e anche Rovazzi, che vabbè è più un regista, ma è un ragazzo molto intelligente, era qui la settimana scorsa… Sono tutti giovanissimi, il mese scorso ho incontrato i Måneskin che hanno 23 anni, sono felice per il loro successo. Con Madame ci siamo scritti spesso, anche lei è tenerissima con me. Era da un po’ che mancava questa scuola di giovani, gli anni 2000 sono stati forti, siamo usciti in tanti, io, Cremonini, i Negramaro, poi – e adesso dico una cosa un po’ controversa – gli anni ’10 sono stati un po’ carenti di giovani che hanno messo le basi». Lo dico io, assumendomene la piena responsabilità: gli anni ’10 sono stati gli anni cruciali dei talent musicali. «È vero, e la gente venuta fuori da lì sicuramente ha venduto dischi, ma è come se quella vena creativa si fosse fermata. Ora è ricominciata, ed è provocata da giovani che stanno vendendo biglietti, che fanno gli stadi. Mi gasa perché, in alcuni di loro, sento delle cose che ho fatto io, insieme a tante cose nuove. Ho abbracciato questo ruolo da zio, da classico. Ieri, ti dicevo, guardavo Diana Ross e pensavo: questo devo fare io, il mio campionato è un altro adesso. L’ho accettato, però ammetto che per farlo un po’ di crisi l’ho dovuta passare».
Mi chiede quali dischi ho ascoltato quest’anno, gli chiedo i suoi. «Passano gli anni ma continuo ad amare r’n’b e hip hop, la trap non mi piace tanto, anche se ci sono derive carine. La numero 1 al momento è Lizzo, ma ci sono tantissime altre cose, mi piace molto Jazmine Sullivan… Il disco più bello dell’anno però l’ha fatto Rosalía, la amo… e anche lei mi segue su Instagram (ride, nda). Fa paura, canta da dio, ha fatto questo disco che è insieme paraculo e coraggioso, strizza l’occhio al reggaeton ma ci mette sotto suoni elettronici molto più di classe. E poi è proprio una che se ne frega, solo se sei vera puoi dire certe cose. Tra gli italiani senza dubbio Marracash, è il prodotto di un uomo che si è messo in gioco, che sta provando a uscire dalla scatola del rap, l’aveva già fatto con Persona ma qui (Noi, loro, gli altri, nda) ancora di più… Marra è come Jay-Z, sta evolvendo con gli anni ed è difficile per un rapper. E mi piace il fatto che si stia rendendo vulnerabile, che si stia guardando dentro, che abbia iniziato a scrivere di sé stesso: anche lui ha fatto un disco dei quarant’anni. Gli voglio molto bene, sono contento di aver fatto quella cosa con i Sottotono e con lui e Gué: tu dici che io mi sottovaluto, ma ti giuro, il fatto che mi abbiano chiamato per fare quella roba (Solo lei ha quel che voglio, nda) mi ha fatto sentire speciale. Quella canzone dei Sottotono l’ho cantata mille volte in tour da corista, ma rifarla con Marra e Gué… pensavo: ma siete sicuri che mi volete? Proprio a me, che mi sento sempre uncool».
Non si porta via l’Italia da Tiziano, e viceversa. Ed è qui che gli racconto dell’amico americano, della sua curiosità per il cantautore che vive in California ma canta per il suo pubblico di sempre. «Quello che ha fatto il tuo amico lo fanno tutti quelli che mi conoscono qui, i miei vicini hanno sempre quell’aria del tipo: “Oddio, non abbiamo mai sentito le tue canzoni”. Pensano che io sto qui e voglio fare la star, invece ci sono venuto per il contrario. Per loro è strano pensare che fai questo mestiere, vieni a L.A., e non te ne frega niente di fare il salto: io non voglio neanche provarci. Il bello è che entro negli studi quasi da spia, incontro i musicisti senza secondi fini e loro ti rispettano, ci diventi amico. Forse il fatto di capire che non stai tentando di entrare nel loro campionato li rende ancora più aperti a fare cose con te. Mi è successo con Ryan Tedder, quando abbiamo fatto il pezzo con i OneRepublic (No Vacancy, nda). Sono andato a casa sua tante volte, mi ha fatto sentire i pezzi del nuovo disco dei Jonas Brothers, così solo per un parere, e questa cosa che si fidava di me era bella… Forse pensava: tanto lui non è pericoloso (ride, nda). Mi fa piacere, è pur sempre quello che ha scritto pezzi per Adele, ha scritto Halo di Beyoncé, si è fatto da solo venendo dal Michigan e strappando un contratto con Timbaland per fare il songwriter: ora fanno la fila per un suo pezzo».
L’impressione è che, ogni anno di più, Tiziano si prenda il meglio dell’Italia e si risparmi il peggio. Tre le altre cose che sono cambiate, dal momento in cui ci siamo lasciati sulle hills, un governo, anzi due. «Voto, ho sempre votato, anche cose discretamente diverse. Solo che sento, da artista, di non dovermi schierare. Salvo che sui diritti, perché sono una questione civile, non di partito. Oggi, se voglio far entrare i miei figli in Italia, so che avrebbero diritto a metà del presidio genitoriale anche se ci sono due persone che possono prendersi cura di loro. Se stanno male, solo io posso andare al pronto soccorso perché Victor (suo marito, nda) non risulta sul passaporto, il che è una cosa aberrante. Al di là dell’essere d’accordo o meno, della morale, di un senso di colpa costruito a tavolino, ho sempre pensato che i miei diritti non tolgono nulla a quelli degli altri. Quando poi questa cosa prende una faccia, che è quella dei tuoi bimbi, è allora che ti ferisce. Per questo non gli ho ancora fatto il passaporto italiano anche se ne hanno diritto, forse lo farò più avanti, o lo faranno loro. Tanto a farli entrare col passaporto italiano avrebbero solo svantaggi, mentre da americani son tranquillo, so che se vengo in tour Victor può prendersi cura di loro… È una cosa che può sembrare stupida, e invece mi fa soffrire da morire».
Il che riporta a uno dei primi versi della Vita splendida: “Lascia stare chi ti punta sempre il dito”. «Lo dico a me stesso, in tanti mi hanno ferito e mi feriscono, non posso fare quello che dice “Certe cose non mi toccano”: mi toccano eccome, e mi fanno male. Però sono stato abbastanza bravo, in vent’anni, a non alzare mai le polemiche. Se mi puntano il dito contro, io non lo ripunto, non mi metto nella stessa lega. Non c’entra, ma c’entra: l’anno scorso sono stato molto male quando è mancata Raffaella (Carrà, nda), ho scritto solo “Sono offeso con te perché non me l’hai detto, che te ne stavi andando”. Mi sono incazzato, ma era solo dolore. Raffaella anche con la morte ci ha dato una lezione: in un mondo in cui tutti capitalizzano su qualunque cosa – la vita, la morte, i bambini – lei è sparita, se n’è andata come la diva che era, senza entrare in quel girone infernale che è la comunicazione oggi. “Lascia stare chi ti punta il dito” vale in ogni accezione: se gli altri fanno tutti lo stesso errore, tu non lo fare. Pulisci casa tua, dove c’è un sacco di polvere, non guardare le case degli altri».
I dolori, i tormenti, ma poi, alla vita splendida, “ancora ci credi”, canta Tiziano nel nuovo singolo. «Io sono sempre stato uno di fede, nel senso che proprio ci credo: nelle cose, nelle persone, e magari mi sbaglio pure. Ma mi sbaglio davvero solo quando non mi fido del mio istinto. Una cosa posso farla pure male, ma devo sentire di averla fatta come volevo io. Sono uno di fede perché sono convinto che, alla fine, un cambiamento ci sarà, tutto andrà bene. C’è un senso di autoconservazione in me che non muore mai, lo vedi? Non mi fermo mai, mi concedo un po’ di più anche quando è difficile. Io voglio che la mia vita sia la versione migliore della vita che posso avere».