È stato definito «il Jimi Hendrix della voce» per il suo canto capace di passare dal sussurro alla potenza più devastante. Peter Hammill, storico vocalist dei Van Der Graaf Generator, con una carriera solista che conta quasi 50 album, pubblicherà il 7 maggio un lavoro sorprendente. Costretto al fermo concertistico in tempi di pandemia e lockdown, ha deciso di misurarsi con brani non suoi per offrirne una personale visione.
La scelta delle cover lascia stupiti. Insieme a pezzi tratti da musical, ripresi da compositori classici o da maestri come Astor Piazzolla, Hammill ha rifatto brani di Fabrizio De André, Luigi Tenco e Piero Ciampi. Li ha tradotti in inglese e ha presentato versioni intimamente sue. Del resto la copertina del disco, intitolato In Translation, parla chiaro: Peter è ritratto con una felpa inneggiante il nostro Paese, testimonianza di un amore che risale alle prime sortite dei Van Der Graaf, quando il gruppo era praticamente sconosciuto in Inghilterra e da noi arrivava primo in classifica con capolavori oscuri e introspettivi come Pawn Hearts. A distanza di anni Peter paga il pegno definitivo al luogo che più di ogni altro ha accolto la sua poetica in un disco intenso.
Sin dal primo brano (la ripresa del traditional americano The Folks Who Live on the Hill, del 1937) si avverte un senso di incertezza nei confronti del futuro. Era questo il tuo stato d’animo nel momento in cui ti accingevi ad affrontare queste canzoni?
Sì, in quei giorni ero incerto sul futuro. In un certo senso lavorare su questi brani è stato il mio modo di affrontare il presente. The Folks Who Live on the Hill ha qualcosa che attraversa molte di queste canzoni: la sensazione che un futuro immaginato, sperato o atteso possa non giungere mai.
Ho sentito tanti artisti che durante il primo lockdown si sono come bloccati, sembrava che la loro creatività fosse venuta meno, che sentissero che non aveva più senso comporre nuovo materiale. Secondo te perché è successo?
Il terreno sotto i nostri piedi sembrava improvvisamente instabile, credo. Nessuno sapeva cosa sarebbe successo. In quelle circostanze non mi sembrava giusto fare dichiarazioni autorevoli in forma di nuove canzoni.
In che modo hai conosciuto cantautori italiani come De André, Tenco e Ciampi?
Qualche anno fa ho ricevuto il Premio Tenco a Sanremo. Sapevo delle vicende di questo cantautore in maniera vaga, ma quando ho dato vita al progetto In Translation ho deciso di indagare più approfonditamente. E naturalmente ho scoperto che Ciao amore ciao era uno scrigno che avrei dovuto aprire. Da lì mi sono spinto a cercare altri protagonisti della tradizione cantautorale italiana, come Piero Ciampi – ho ricevuto un altro premio a suo nome. De André invece lo conoscevo, pur sommariamente, fin dal principio degli anni ’70.
Sapevi del rapimento di Fabrizio De André e Dori Ghezzi prima di misurarti con la sua Hotel Supramonte?
Sì, certamente. Questa vicenda è di vitale importanza nella canzone, ovviamente. Tuttavia so per esperienza personale che non tutte le canzoni che sembrano essere autobiografiche lo sono realmente.
Hai ripreso Ciao amore ciao di Luigi Tenco, il brano che presentò al Festival di Sanremo del 1967 e la cui esclusione decretò il suicidio del cantante. Come giudichi questo gesto?
Non credo valga la pena morire per la musica. Piuttosto penso valga la pena di vivere per essa. Ma immagino che Tenco in quel momento non la pensasse così.
Mi è piaciuta molto l’idea di lasciare in italiano il ritornello di Ciao amore ciao, come mai questa scelta?
Non puoi tradurre “ciao”, in nessun’altra lingua c’è una parola col significato combinato di hello e goodbye.
Oblivion di Astor Piazzolla evoca il vuoto della pampa, durante l’esplosione del Covid ti sei sentito così? Svuotato?
Non dentro di me, ma certamente nel brano c’è la sensazione di guardare verso un orizzonte lontano senza nulla di interessante in vista.
Come giudichi l’operato del governo inglese durante l’emergenza?
Disperato e caotico.
Nella cartella stampa che accompagna In Translation dici che il tango ti ha influenzato parecchio, ci sono altri brani del tuo repertorio nei quali si può riscontrare questo tipo di approccio?
Qualche tempo fa ho scritto una canzone chiamata Tango for One, ma direi che lo spirito del tango emerge soprattutto nell’esecuzione, e in modo particolare negli assoli. È una questione di portare la schiena eretta, lo sguardo fiero, l’intensità dell’essere nel momento. E come fece Piazzolla, continuare a suonare fino a un’età piuttosto avanzata.
Definisci tutto il progetto molto italiano, cosa ti attira della nostra cultura?
Beh, ho passato veramente molto tempo in Italia, ovviamente, e da voi mi sento davvero a casa. Ma penso anche al fatto che dopo la Brexit non lo sarò più…
Tu omaggi la cultura italiana ma noi italiani abbiamo da sempre un senso di inferiorità rispetto alla musica inglese, al rock inglese. Gli italiani che hanno sfondato nei Paesi anglosassoni si rifanno per lo più al patrimonio operistico. Come te lo spieghi?
Quasi nessun artista di un Paese non anglofono ha avuto successo qui. Ci interessano principalmente cose che vengono dagli Stati Uniti. Non c’è spiegazione, ma è veramente un peccato.
Da bambino grazie ai tuoi genitori sei venuto a contatto con mondo del musical, pensi abbia influenzato la tua carriera di compositore? Quale è il tuo preferito?
Sì, sicuramente mi ha influenzato. Il migliore? È una gara fra South Pacific e West Side Story.
Nella ripresa di After a Dream del compositore classico Gabriel Fauré ti auguri di non risvegliarti nella realtà che stiamo vivendo, la pandemia, ma anche la Brexit…
Purtroppo è così. La Brexit è stato un qualcosa al limite del criminale.
Ne Il vino di Piero Ciampi la tua vocalità si avvicina a quella di Tom Waits, ti piace?
Tom è sicuramente una persona dalla parte giusta delle cose. L’ho incontrato una volta, molte lune fa, e siamo andati d’accordo.
Sempre ne Il vino c’è una parte di organo che mi ha riportato alle atmosfere di un tuo vecchio brano: The Lie (Bernini’s Saint Theresa), anche quello fu un omaggio alla cultura italiana…
Sì, è un modo particolarmente “traballante” di suonare l’organo… L’ultima volta che sono stato a Roma, una vita fa, ho avuto il tempo e la possibilità finalmente di vedere Santa Teresa.
Hai omaggiato i cantautori italiani degli anni ’60, conosci qualcuno della generazione successiva come Franco Battiato, Lucio Dalla, Francesco De Gregori?
Conosco qualcosa di Battiato, ma ad essere onesto non sono un grande ascoltatore di musica, al di fuori della classica. Sia italiana o di qualsiasi altro tipo.
Lo scorso anno hai partecipato a uno dei miei top album del 2020, We Persuade Ourselves We Are Immortal con gli Amorphous Androgynous. Come sei stato coinvolto nel progetto?
Ho incontrato Garry Cobain degli Amorphous Androgynous alcuni anni fa, poi siamo tornati in contatto tramite una conoscenza reciproca. Da lì è iniziata la nostra collaborazione. Mi ha inviato le tracce e io ho detto che avrei provato a creare alcune linee melodiche. Eravamo consapevoli che se non avesse funzionato sarebbe stato ok lo stesso, nessuna colpa. Evidentemente ha funzionato. Sono contento che ti piaccia.
Gli scorsi mesi è saltato il tour dei Van Der Graaf Generator che si spera possiate recuperare a settembre…
Sì, non vediamo l’ora di suonare, ogni volta che sarà possibile. Appena prima della pandemia avevamo finito di provare per questi concerti e durante le prove non smettevamo di guardare le notizie che arrivavano dall’Italia con crescente e giustificata preoccupazione…
Nel 2016 Do Not Disturb sembrava dovesse mettere la parola fine alla parabola della band. C’è in programma un nuovo album?
Al momento non abbiamo pianificato nulla, ma ovviamente non vediamo l’ora di suonare alcune delle canzoni di Do Not Disturb quando saliremo di nuovo sul palco.
Visto che con In Translation hai omaggiato il lavoro altrui mi piacerebbe conoscere il libro, il film e il disco della tua vita.
È sempre una scelta difficile, vediamo: per la musica direi le Messe a 3 e 5 voci di William Byrd, per il film forse Rashomon di Akira Kurosawa, per il libro Carne zen ossa zen.