Nel caso abbiate qualche dubbio, Ed Sheeran sa di essere Ed Sheeran. «Mica sono scemo. Quando in redazione dici “vado a intervistare Ed Sheeran”, so che la gente si mette a ridere. È sempre stato così».
È un bel paradosso giacché Sheeran è una delle maggiori popstar viventi. Ed è per questo che si trova oggi a 18 mila chilometri da casa, nel cortile di un bungalow in affitto ad Auckland, Nuova Zelanda, a rilassarsi all’ombra per via della sua carnagione («vivo nell’ombra»). Nel corso della settimana terrà due concerti davanti a 100 mila spettatori complessivi. Il suo tour precedenteha fatto registrare i maggiori incassi di tutti i tempi, almeno finché il suo mentore Elton John non l’ha superato. Il nuovo tour, che a quanto pare durerà cinque anni, potrebbe fargli segnare un nuovo record. È anche uno dei cinque artisti più ascoltati di sempre su Spotify e la statistica non tiene neppure conto del suo “hobby”, vale a dire i successi che scrive per altri, da Justin Bieber ai BTS.
Eppure Sheeran è convinto che in certi ambienti non gli vengano riconosciuti i suoi successi e i suoi talenti (la voce duttile, il repertorio sterminato di hit, la capacità di giostrarsi tra i generi tra cui l’afropop, l’EDM e il reggaeton). Secondo i detrattori, Sheeran sarebbe una specie d’intruso, un tipo dai capelli rossi e dai tratti da hobbit che è asceso al regno divino del pop per via di un qualche errore dell’universo e lì è voluto rimanere. «Un tempo ero quello che prendevano per il culo e ancora lo sono», dice, «non solo per via della musica».
È un pomeriggio di metà febbraio, è fine estate in questo emisfero. La moglie di Sheeran, Cherry Seaborn (sono sposati da quattro anni), e le loro due figlie (Lyra, di due anni, e Jupiter, di otto mesi) sono in casa, nel cuore di un quartiere elegante di periferia. Tutta la famiglia sta trascorrendo un paio di mesi in Nuova Zelanda e Australia, mentre Sheeran si sposta per esibirsi negli stadi. Una volta sceso dal palco, la sua vita è di una normalità sconcertante, come se avesse scambiato la sua esistenza con quella di un ricco dentista neozelandese. «Ieri», dice Sheeran, «abbiamo cucinato, abbiamo guardato un episodio dei Simpson e siamo andati a dormire».
Lyra arriva in cerca di coccole e guarda la piscina di plastica blu sul prato verde. «Appena papà finisce l’intervista, viene a sguazzare con te», le promette.
Sheeran non soffre certo di sindrome dell’impostore. Pensa alle decine di canzoni scartate per ogni hit che ha sfornato, alle centinaia di concerti tenuti prima che qualcuno si ricordasse il suo nome e sa benissimo com’è successo. Eppure, dice, «la gente mi guarda e si chiede: come sei arrivato fin lì?».
Sa bene come girano certe cose. «Sono un nerd», spiega. «Adoro Il signore degli anelli. I Pokemon. Quei cazzo di Lego e Warhammer, e no, non vengo considerato un figo». Ma da tempo ha raggiunto un livello di geekitudine assoluta. Quand’era giovanissimo, ammette, vedeva Pikachu e tutti gli altri Pokemon come suoi amici; ora è il tizio a cui chiedono di scrivere una canzone (l’inno dei Coldplay Celestial) per un nuovo gioco dei Pokemon. Una volta ha assemblato una Morte Nera e un Millennium Falcon di Lego con Harry Styles, ai tempi degli One Direction; ha fatto un cameo in Star Wars – L’ascesa di Skywalker ed è amico del regista de Il signore degli anelli Peter Jackson, da quando ha scritto una canzone per Lo hobbit – La desolazione di Smaug, del 2013. La settimana scorsa, a Wellington, ha guardato Intrigo internazionale nella sala di proiezione della casa di Jackson in compagnia di James Cameron (che ora abita in Nuova Zelanda) e della sua famiglia.
Col nuovo album – (si legge Subtract), in uscita il 5 maggio, Sheeran potrebbe aggiungere un livello di coolness inedita grazie ad alcune fra le sue canzoni più essenziali ed emozionanti, abbinate ai chiaroscuri originali della produzione di Aaron Dessner dei National. Sheeran sa che c’è la possibilità che questo lavoro piaccia davvero alla critica e la cosa lo spaventa un po’: «Mi preoccupa, visto che tutti i miei dischi più importanti li hanno odiati».
Siede a gambe incrociate, senza scarpe, sul cuscino grigio di un divano da giardino. Indossa una maglietta bianca, pantaloncini neri del brand italiano Stone Island e calzini bianchi. Le braccia sono piene di tatuaggi colorati, tra cui scritte in gaelico e nanico. Ha una barba rossiccia e trasandata e lunghi capelli che spuntano da sotto un berrettino da baseball di Lowden Guitars, azienda che produce chitarre acustiche di fascia alta. Da bambino sognava di suonarne una, ora collabora col brand per la realizzazione di un modello signature.
L’eroe e amico di Sheeran, Eric Clapton, gli ha trasmesso la passione per gli orologi preziosi, così come ha fatto con John Mayer. Oggi al polso ha un Patek Philippe Perpetual Calendar da sei cifre (a proposito, non chiedetegli niente sulla svolta no vax di Clapton: «Adoro Eric e non dirò nulla di male sul suo conto», dice Sheeran, che ha iniziato a suonare la chitarra dopo aver visto una performance di Layla in tv; lui è vaccinato, ma è riuscito a contrarre il Covid almeno sette volte, a causa dei viaggi continui e alle bambine).
In linea coi temi affrontati nell’album, nel corso di una serie di interviste fra le più approfondite che ha rilasciato da almeno cinque anni a questa parte, Sheeran mi ha parlato di argomenti «super pesanti» (morte, malattia, lutto, depressione, dipendenza). Alla fine mi ha detto davvero tutto, forse più di quanto avesse preventivato. Le reazioni, però, lo preoccupano. In primis, teme che la gente possa percepire tutto questo come un tipico caso antipatico di «popstar ricca che si sente triste». E poi c’è il fatto che lui è una popstar peculiare. Ammette di pensare spesso «un sacco di cose tipo: perché alla gente dovrebbe interessare se mi sento in un modo o in un altro?».
Ormai Sheeran si scontra con l’ostilità quasi esclusivamente online, quando ancora gli capita. Ma ai suoi esordi, quand’era adolescente e andava a Londra trascinando di concerto in concerto la chitarra acustica e il pedale per i loop, cercando di ottenere un contratto discografico, se l’è sentito dire in faccia. «Per tanto tempo la gente ha riso di me e della mia musica», racconta. «Mi consideravano tutti una barzelletta, nessuno pensava che potessi farcela». Per come la vede lui, ha distillato quel disprezzo e quello scetticismo trasformandoli in carburante artistico. «È tuttora quel che mi motiva. Ho ancora bisogno di dimostrare quanto valgo. E non vengo ancora preso sul serio. Se parli con un musicista qualunque di quelli che se la tirano tipo “Oh, amo la musica non convenzionale”, io sono la barzelletta che identifica il pop di bassa lega».
A un certo punto, molto tempo fa, ha deciso di non fregarsene. «Quando ho scritto Perfect e Thinking Out Loud ho pensato che fossero pezzi un po’ banali», racconta. «Ma allo stesso tempo mi dicevo: non so se mi interessa. Sono diventate le più grandi ballad del mondo, quell’anno. Così ho cominciato a pensare che forse alla gente piace la roba banale». Sheeran non ha paura di dire le cose in modo semplice, nelle canzoni. È cresciuto ed è diventato papà, e quindi canta: “Sono cresciuto, ora sono padre” (è il primo verso di = del 2021). Usa le metafore con parsimonia. Ama Van Morrison, ma se scrivesse una canzone intitolata Listen to the Lion probabilmente parlerebbe di una gita allo zoo. E sarebbe un successo mondiale.
Recentemente, su Twitter, è stato accusato di scrivere «inni sessuali per gente noiosa», una critica su cui non si sofferma per più di un millisecondo. «Comunque parliamo di 150 milioni di persone noiose», ribatte, riferendosi alle vendite complessive dei suoi album, una cifra che chiaramente ha ben a mente. «Penso di essere abbastanza memabile. Hai visto il meme che mi ritrae mentre sono in un negozio di dischi con una mia maglietta e una borsa con su scritto ÷? Dice: “Perché Ed Sheeran sembra uno in coda per incontrare Ed Sheeran?”. Credo che sia perché ho un aspetto, diciamo così, ordinario. Sembro l’amico del fratello maggiore di qualcuno che è tornato dal college e lavora in pizzeria».
In realtà ora che sta per compiere 32 anni sembra meno ordinario. La barba gli conferisce un certo fascino ed è dimagrito, tanto che gli spuntano gli zigomi affilati: indica un set di manubri sulla veranda e spiega che è merito di un’ora di sollevamento pesi al giorno. I suoi occhi di un blu profondo, recentemente curati dalla miopia con il laser sono espressivi e creano un contrasto sorprendente con tutta quella peluria rossa. «I bambini adorano Ed, perché ha un viso insolito», dice Seaborn. Lei, coi capelli raccolti a coda di cavallo, sprigiona calore e intelligenza, e si dà il caso che sia anche protagonista di Shape of You, una canzone ascoltata miliardi di volte in streaming (racconterà parte della sua storia nella serie Ed Sheeran: The Sum of It All, in streaming su Disney+ dal 3 maggio).
Per quel che vale, e vale molto, l’amica e collaboratrice di Sheeran, Taylor Swift, lo considera fantastico: «È il mio James Taylor e io la sua Carole King», ha detto a Rolling Stone qualche anno fa. È stata lei a metterlo in contatto con Dessner, suo collaboratore per Folklore ed Evermore, per lavorare a Run, un pezzo scritto da Swift e Sheeran per il remake di Red; sempre Swift ha poi suggerito di dedicarsi alla musica di Sheeran. Dessner trova «noioso» che qualcuno pensi che Sheeran o la sua musica possano essere uncool. «È un autore brillante, l’ho visto in prima persona».
A Sheeran non spiacerebbe farsi dei nuovi fan con Subtract, ma non è certo in cerca della vostra accondiscendenza. «Non ti è mai piaciuta la mia musica? Mi consideri una barzelletta? E all’improvviso dici: “Non sei così una merda come pensavo”? Non significa nulla».
Ed Sheeran sta piangendo di nuovo ed è contento così. È passato quasi un anno, ma non vuole che il dolore svanisca. «Non voglio metterlo alle spalle», dice. «Non potrei sopportare di parlarne senza sentire nulla…». Gli occhi e il viso sono arrossati, non trova le parole.
Il 20 febbraio dello scorso anno, Jamal Edwards, uno dei giovani imprenditori musicali più in vista del Regno Unito, è morto improvvisamente all’età di 31 anni per un’aritmia cardiaca causata dall’uso di cocaina. Era il migliore amico di Sheeran, che pensa di dovergli la carriera. Edwards l’ha ospitato nel suo seguitissimo canale YouTube SBTV quando ancora sgomitava per ottenere un po’ di attenzione da parte degli addetti ai lavori. L’ultimo post di Edwards su Instagram era un omaggio all’amico: «Buon compleanno all’OG, Ed. Sono felice di averti avuto nella mia vita, fratello. Capisci che un’amicizia va avanti da molto tempo quando perdi il conto degli anni! Continua a spaccare e a ispirarci tutti G!».
I due amici avevano un’intesa speciale e la si può percepire in un vecchio video su YouTube in cui Sheeran duetta con Edwards, che tiene la telecamera, sul brano grime Burst Da Pipe. Finisce che entrambi scoppiano a ridere. “La gente pensava che stessimo insieme”, rappa Sheeran nel tributo all’amico F64, “ma siamo fratelli d’armi”. «Era un pettegolezzo che girava fra gli addetti ai lavori», dice Sheeran. «Nessuno pensava che ne fossi al corrente. Ma capisco, siamo stati coinquilini».
A 18 anni non aveva un posto dove stare, a Londra, e s’è fermato a dormire a casa di Edwards per una notte: ha finito per rimanerci «Dio solo sa quanto tempo. Capisco perché la gente pensava quella roba. Andavamo anche in vacanza insieme». La sera prima di ricevere la notizia della morte dell’amico, Sheeran era a cena con Swift e Joe Alwyn e ha scambiato qualche messaggio con Edwards per programmare le riprese di un video per il giorno seguente. «Dodici ore dopo era morto».
Il mese di febbraio dell’anno scorso è stato il peggiore della vita di Sheeran. Poco prima della morte di Edwards, a Seaborn, incinta di sei mesi, è stato diagnosticato un tumore che andava operato, ma l’intervento sarebbe stato possibile solo dopo il parto. Si era parlato di indurle il travaglio in anticipo, ma alla fine Jupiter è nata nei tempi giusti e la donna è stata operata con successo a giugno, la mattina del concerto di Sheeran a Wembley. «Non c’è niente che tu possa fare», ricorda, «e questo ti fa sentire impotente». Nel frattempo, Sheeran si stava difendendo in tribunale per una causa di plagio relativa a Shape of You, in cui lo definivano «ladro e bugiardo» (ha poi vinto la causa).
La scomparsa di Edwards l’ha distrutto, l’ha mandato in tilt. «Il mio migliore amico è morto», dice, piangendo per la prima volta durante la nostra serie di chiacchierate. «Non avrebbe dovuto andare così». Sheeran si è trovato ad affrontare un nuovo attacco di quella che da sempre sapeva essere depressione. «Ho sempre avuto episodi depressivi nella mia vita», dice. «Ma solo l’anno scorso mi sono deciso ad affrontare il problema».
L’aveva sperimentata per la prima volta alle elementari, un periodo che a volte viene raccontato con tinte comiche quando si parla della sua vita e che è stato invece profondamente traumatizzante. «Ho frequentato una scuola elementare molto, molto orientata allo sport», racconta. «Avevo i capelli rossissimi, grandi occhiali blu e la balbuzie. Non potevo fare sport perché avevo un timpano perforato. In una situazione del genere vieni preso di mira perché sei diverso. Ho rimosso molto di quel periodo, ma per me costituisce un problema. Credo che abbia anche a che fare col mio desiderio di salire su un palco, di piacere alla gente e cose del genere».
In seguito alla morte di Edwards (e poi, oltre a tutto il resto, anche alla scomparsa di un altro amico: la stella del cricket australiano Shane Warne, mancato a inizio marzo), Sheeran ha iniziato a provare una sensazione che aveva già affrontato silenziosamente in precedenza. «Non volevi più vivere», dice, con voce ferma. «Mi era già capitato… finisci sotto le onde, stai annegando. Sei intrappolato in questa cosa e non riesci a venirne fuori». Erano pensieri già abbastanza negativi a cui si è aggiunta anche la vergogna. Sembravano «egoisti», dice, «soprattutto se fatti da un padre. Mi imbarazza molto questa cosa».
È stata Seaborn a capire cosa stava succedendo e a dire a Sheeran che gli serviva aiuto. Per la prima volta in vita sua, ha iniziato a vedere un terapeuta. «Dalle mie parti nessuno parla davvero dei propri sentimenti», racconta. «La gente, in Inghilterra, pensa che sia strano andare in terapia… io credo che sia molto utile poter parlare con qualcuno e sfogarsi liberamente senza poi sentirsi in colpa. Ovviamente ho avuto una vita molto privilegiata. Quindi i miei amici mi guardavano sempre come se dicessero: “Dai, non va poi tanto male”».
La terapia gli è stata di grande aiuto, ma non ha risolto magicamente i problemi. «Non c’è un bottone da premere che ti fa stare automaticamente bene», dice. «Quella roba ci sarà sempre e va gestita».
Mentre parla, Sheeran giocherella con un braccialetto d’argento che porta al polso destro. Per la maggior parte dell’anno scorso ha indossato due braccialetti di gomma. Uno proveniva dal funerale di Edwards, l’altro, con lo slogan “Don’t fuck up”, arrivava da un altro amico che non c’è più, il dirigente d’industria musicale australiano Michael Gudinski, mancato nel 2021. Seaborn, per Natale, ha regalato a Sheeran il gioiello nuovo, con i nomi di Jupiter e Lyra incisi all’interno. Il giorno di Capodanno Sheeran ha fatto il cambio: «Mi è sembrato un gesto simbolico», dice, «togliere quei braccialetti e metterne uno dedicato alla famiglia».
L’altra terapia seguita da Sheeran è la solita: scrivere canzoni. Nel 2011 ha dato il via al suo progetto di una serie di album con titoli basati su simboli matematici e Subtract, l’ultimo in ordine cronologico di questi cinque dischi, era previsto fin dall’inizio. L’idea era quella di un album cantautorale, spoglio, che lo riavvicinasse alle sue radici, su cui ha lavorato più di un decennio, «per cesellare una cosa perfetta». All’inizio dello scorso anno il disco era pronto, ma la versione di Subtract che uscirà a maggio è diversa.
Alla fine del 2021, l’intervento di Swift ha portato Sheeran e Dessner a incontrarsi a New York per una cena a base di sushi. Dessner ricorda di aver detto a Sheeran che gli sarebbe «piaciuto sentirlo più vulnerabile, più minimale». Non molto tempo dopo quella conversazione, Dessner ha fatto la sua mossa, inviando a Sheeran delle basi strumentali completamente arrangiate a cui bisognava aggiungere solo melodie vocali e testi.
Nel bel mezzo del suo febbraio infernale, Sheeran ha iniziato a lavorare su quelle tracce. «Non suonavo la chitarra», racconta, «ma avevo questi brani strumentali e ci scrivevo dei testi, lavorandoci nei sedili posteriori delle macchine o in aereo o altro. Poi ho finito ed è nato il disco. È stato tutto parecchio veloce».
Sheeran è uno dei tanti fan di Folklore ed Evermore. Non ha cercato di copiarli, ma è convinto che Dessner abbia aiutato lui e Swift ad approcciarsi alla stessa modalità di scrittura libera e fluida. Di solito Sheeran si confronta con i suoi collaboratori. Dessner, invece, fornisce un paesaggio musicale finito. «E poi ti fa: “Ora di’ quello che vuoi”», racconta Sheeran. «Non c’è alcun filtro. Non c’è stato alcun ripensamento o controllo sui testi. E credo che questo sia stato l’aspetto più brillante di Folklore ed Evermore: è una scrittura che parte dal cervello e arriva direttamente alla pagina. È da lì che nascono versi come “Quando mi sentivo come un vecchio cardigan sotto il letto di qualcuno, mi hai indossato e hai detto che ero il tuo preferito”. Nessuno ha contestato quella frase. Ed è per questo che è geniale».
Il brano di apertura, Boat, evoca uno dei primi eroi di Sheeran, il cantautore Damien Rice, nella sua crudezza, con il tappeto di accordi di Dessner che prende corpo sotto alle schitarrate acustiche (Sheeran l’ha scritta partendo da una base di pianoforte e batteria creata da Dessner, ma l’ha poi rielaborata nella forma di canzone incentrata su una chitarra grezza). “Dicono che tutte le cicatrici si rimarginano, ma so che forse non guarirò”, canta Sheeran, con un sound più minimale che mai. “Le onde non spezzeranno la mia barca”. In un’altra ballata, Life Goes On, Sheeran canta direttamente di Edwards: “La vita va avanti con te che te ne vai, suppongo / Affondo come una pietra”.
Il bel pezzo midtempo Dusty, sostenuto da un charleston elettronico, è più leggero e rievoca un’epifania che Sheeran ha avuto durante il suo rituale mattutino di ascolto di vinili con Lyra: nella fattispecie, si trattava di Dusty in Memphis di Dusty Springfield. «Sto passando un periodo agitato, con grandi momenti bui», dice Sheeran, «ma poi mi sveglio e so che mi attende una mattinata gioiosa con una bellissima ragazza. È una cosa davvero strana andare a letto piangendo e svegliarti sorridendo con tua figlia».
Eyes Closed, il primo singolo, è costruito su un riff pizzicato e tintinnante che sfocia in un ritornello che sale di ottava: “Sto ballando con gli occhi chiusi / Perché ovunque io guardi ti vedo ancora”. È la riscrittura di una canzone pop più semplice che Sheeran già aveva sottomano e che trattava in modo generico di una rottura. Ora parla direttamente dei suoi traumi e delle loro conseguenze: “Mi ero immaginato questo mese un po’ diverso / Nessuno è mai pronto”.
L’album contiene 14 brani, ma la collaborazione tra Sheeran e Dessner non finisce qui. Sheeran ha eliminato dall’album tre pezzi che gli sembravano troppo allegri e costituivano l’inizio di qualcosa d’altro. «Ben presto ci siamo resi conto che stavamo facendo due cose differenti», dice Sheeran. E così ha continuato a scrivere un altro album, completamente diverso, sempre con Dessner. Lo sta già mixando, anche se non sa quando uscirà: vuole dargli respiro. «Non mi sono prefissato degli obiettivi per quest’altro disco», dice. «Voglio solo pubblicarlo».
Sheeran ha in mente altri cinque album che saranno legati a un’altra serie di simboli, ma non vuole parlarne, almeno ufficialmente. E l’ultimo disco di questa serie è un progetto che si protrarrà per anni, con un colpo di scena finale. «Voglio lavorare lentamente all’ultimo album diciamo così “perfetto” per il resto della mia vita, aggiungendo canzoni ogni tanto», dice. «Nel mio testamento ci sarà scritto che dovrà uscire dopo la mia morte».
Cosa fa Ed Sheeran prima di salire sul palco di fronte a 50 mila persone? Nulla, in pratica. Toglie la solita maglietta e pantaloncini, l’orologio e le scarpe da ginnastica per mettersi abiti di scena leggermente più eleganti. Si avvia poi verso il palco senza nemmeno darsi un’ultima occhiata allo specchio o pettinarsi. Non riscalda nemmeno la voce. Nei giorni in cui deve esibirsi si sveglia senza sentirsi diverso dagli altri giorni e parla alle grandi folle di fan nello stesso modo in cui parla quand’è lontano dal palco. Il suo personaggio non è un personaggio. A proposito della famigerata foto in cui Beyoncé in gran spolvero duetta con Ed vestito in modo del tutto informale, lui dice: «Ci vedo due persone che sono sé stesse. Lei è la migliore interprete del mondo e io sono un tizio in maglietta».
Alle 17 del giorno successivo al nostro primo incontro, a tre ore appena dall’inizio dello spettacolo allo stadio Eden Park di Auckland, Sheeran è di nuovo a casa, con le bambine che cenano su un tavolo circolare. «Prima io e Cherry stavamo parlando di quanto sia bello», dice Sheeran. «Abbiamo avuto un’intera giornata per noi. Abbiamo fatto solo questo. È bello avere la famiglia in tour. È sano. Nell’ultimo tour, facevo festa fino alle 7 del mattino, dormivo fino alle 4 del pomeriggio, poi mi alzavo e facevo un concerto. Ma avevo 26 anni, era diverso».
Il viaggio in suv verso la location di stasera dura solo 20 minuti, durante i quali incrociamo decine di fan di Sheeran che fanno il percorso a piedi. Ci capita di sentire alla radio Love Yourself, la hit che ha dato a Justin Bieber (la registrazione, spiega, è semplicemente la sua versione, ma con la voce di Bieber). Superiamo varie transenne. Il camerino di Sheeran è grande e arioso, delimitato da tende bianche, con un divano color crema al centro e una bella area giochi in un angolo, nel caso in cui arrivino le bambine. Per Sheeran viene portata una cena a base di noodles e verdure giapponesi in contenitori coperti di stagnola. Come per ogni pasto consumato da lui durante il tempo che abbiamo trascorso insieme, ha fatto in modo che mi venisse servito lo stesso: un gesto a cui la maggior parte delle celebrità neppure pensa.
In un angolo, dentro a una cassa, c’è un impianto audio wireless e prima del concerto Sheeran mi fa ascoltare un po’ di musica inedita. Una quantità vertiginosa e incredibile di pezzi ancora da pubblicare, in così tanti stili che sembra quasi uno scherzo. «Ho un sacco, ma davvero un sacco di roba», dice. Ha deciso di non star lì ad aspettare l’ispirazione. «La settimana in cui ho scritto Shape of You ho composto 25 canzoni», dice. Ma prima d’ora non aveva mai accumulato tanta musica e per lui tanto entusiasmante. Secondo i suoi calcoli, ha materiale per anni e anni di dischi. «Chi lo sa quando la creatività si esaurirà e non riuscirò più a scrivere canzoni? Almeno così ne ho da parte a sufficienza».
Inizia facendomi sentire una ballata ariosa, Magical, tratta dal secondo album con Dessner. “È così che ci si sente a essere innamorati”, canta. “È magico”. Un’altra canzone di Dessner, un probabile singolo, ha un’atmosfera luminosa alla Solsbury Hill: “Il sabato sera mi sta dando un motivo per affidarmi a una luce stroboscopica”, canta, fra altre riflessioni sul tema del dolore. Un’altra produzione di Dessner è un brano alla Bruce Springsteen intitolato England.
A quanto pare, ha anche un altro album completo in attesa di uscire: una collaborazione con la superstar del reggaeton J Balvin. Ci hanno lavorato l’anno passato, dopo che Sheeran ha incontrato per caso Balvin (José, come lo chiama lui) nella palestra di un hotel, un paio di anni prima. Il disco è finito, con tanto di video già girati, ma ancora una volta non c’è una data d’uscita in vista. Mi fa sentire un pezzo che unisce afropop e reggaeton, con la partecipazione di Burna Boy e Balvin. Un’altra traccia prodotta da Balvin è una collaborazione con Daddy Yankee, con Sheeran che canta una melodia tra alcuni versi rappati; un’altra ancora è una canzone reggaeton più lenta in cui Sheeran si misura con lo spagnolo. «Ho scritto il testo in inglese e loro l’hanno tradotto in studio». Ci sono anche delle collaborazioni con Pharrell Williams e Shakira (pare che Sheeran abbia scritto anche per il suo prossimo album).
Sheeran mi fa sentire un brano grime in cui si scatena in un rap velocissimo, sfidando il rapper britannico Devlin, un altro amico di Edwards. “Come Kendrick Lamar, questa roba non è gratis”, rappa Sheeran. C’è un pezzo drum and bass «per i raver» che lui vorrebbe pubblicare come doppio lato A insieme a un brano prodotto da David Guetta in cui Sheeran elogia la “vibrazione dell’estate”. Un altro pezzo di Guetta è ancora più sfacciato nella sua atmosfera Vegas-EDM, ma non è specificamente per Sheeran: stanno ancora cercando di capire chi lo canterà.
C’è una bella canzone in stile doo-wop con tocchi alla Paul McCartney che si chiama Amazing Daughter, la prima che Sheeran ha scritto nel breve periodo in cui pensava di mollare la musica per fare il papà casalingo, dopo la nascita di Lyra. È un brano che è rimasto fuori dal suo ultimo album: a lui piace molto, ma non ha idea di dove collocarlo.
Mi fa sentire un pezzo risalente al periodo trascorso a Nashville, una canzone in stile bro-country, quasi una parodia scritta con i Florida Georgia Line e che lui presume abbiano scartato perché un po’ troppo diretta: “Il mio collo è ancora rosso, il cielo è ancora blu, il mio furgone è ancora grande, la mia ragazza sei ancora tu… viviamo dove viviamo perché amiamo vivere nella Middle America”.
Poi c’è una collaborazione con Benny Blanco e una power ballad da accendini in cui Sheeran e Bieber duettano: Sheeran ci ha lavorato con il superproduttore Andrew Watt e sarà nel prossimo album di Bieber. A tutto questo si aggiunge la grande canzone che Sheeran ha scritto per il finale di serie Ted Lasso, in onda in primavera. «Vuoi sentirla?», chiede. «Perché è bellissima, cazzo». “Risorgeremo dalle ceneri e scriveremo i nostri nomi sulle stelle”, canta in un ritornello che farà invidia a Chris Martin, con tanto di “oh-oh-oh”. «Scusami», dice Sheeran alla fine, anche se non serve. «In pratica ti ho appena vomitato addosso un fiotto di canzoni».
Il chitarrista degli Snow Patrol, Johnny McDaid, uno dei collaboratori più assidui di Sheeran, ormai è abituato a questo continuo saltare da un genere all’altro. «Un autore di canzoni è una specie di antenna», dice. «Capta le cose e, a seconda di quanto è ampia la banda di frequenza della sua antenna, tende a legarsi a un genere. La banda di frequenza di Ed è così larga che può captare qualunque cosa da qualsiasi luogo».
È quasi l’ora del concerto e Sheeran si toglie i vestiti di oggi (quasi identici a quelli di ieri, eccezion fatta per delle rarissime Nike modello Marty McFly), resta in boxer neri e indossa gli abiti di scena. Ha un metodo segreto per passare attraverso la folla e mi chiede di non rivelarlo. Una volta giunti alla fine di questo viaggio misterioso, ci troviamo sotto il suo palco rotante grande come uno yacht, che ora è coperto da una specie di gabbia metallica che si alzerà per svelare Sheeran dopo un conto alla rovescia sugli schermi video. Mancano circa tre minuti, lui è ancora incredibilmente calmo e promette a un tecnico del suono (lo chiamano tutti Normal Dave, per distinguerlo da un altro Dave che lavora per lui) che presto andranno a farsi un drink per festeggiare. Quando il conto alla rovescia raggiunge i 90 secondi, Sheeran insiste perché mi precipiti sul palco, alla sua postazione, dove sta il microfono. Attraverso la gabbia si vede la folla. Quando sei lì, la affronti da solo, con il tuo pedale per i loop e la tua chitarra. Non sembra che ci sia molto da stare tranquilli.
«Quaranta secondi!», avverte uno stage manager. Lascio il palco mentre Sheeran si piazza al suo posto. Il concerto procede come previsto, con cori e telefoni tenuti in alto durante i lenti e Sheeran che spiega il funzionamento del suo pedale per i loop, come fa ogni sera da anni. In questo periodo, per alcune canzoni lo accompagna anche una band completa, che resta in un palco laterale. Poi arriva Bloodstream, una confessione folle del 2014 che parla di un’esperienza sotto MDMA. Lo stadio s’illumina di rosso sangue mentre l’artista crea il loop che sorregge la canzone: un pulsare grave della chitarra, un arpeggio. Ma, dopo tre minuti, una marea crescente di elettricità statica sovrasta la musica. Sheeran si ferma e scompare sotto il palco. Riemerge e ricomincia. Dopo un minuto, le scariche ritornano. Ripete il processo. Altre scariche, lui sparisce nuovamente. Il team di produzione inizia a sudare.
Alla fine, Sheeran informa la folla che il rumore proviene dal suo pedale loop, che non funzionerà per il resto del concerto. Termina lo show suonando sette canzoni, molte delle quali non previste in scaletta, tutte solo con voce e chitarra. È costretto a riarrangiare i suoi successi come se li stesse strimpellando in una caffetteria, così gli effetti pirotecnici durante Bad Habits diventano quasi comici. I fuochi d’artificio che esplodono dal palco, alla fine del concerto, sono così fuori luogo che Sheeran stesso non può fare a meno di ridere.
Per il pubblico è una rivelazione e ad Auckland, per strada, la gente ne parla per giorni. Quanti altri artisti della generazione di Sheeran o di quelle più giovani saprebbero cavarsela in quel modo?
Nel backstage, Sheeran è scosso. «Cazzo», dice, sospirando. Non riesce a considerare la serata come il trionfo che invece è stata; tutto quello che vede è solo una folla che non ha avuto lo spettacolo per cui ha pagato. Mette in chiaro che il suo team dovrà risolvere il problema, ma non accenna mai a intemperanze, né sul palco né fuori. «Che ci guadagni a urlare con chi lavora con te? Se non lo fai, le persone si impegnano di più, credo. Se qualcuno ti urla addosso, ti viene da rispondere: “Ma vaffanculo!”».
Avremmo dovuto fare un’altra intervista stasera, ma Sheeran la rimanda a domani: mi dice di averlo deciso mentre era sul palco. Invece mangia una bistecca (di nuovo, ne arriva una anche per me) e inizia a bere vino rosso. Alcuni dei suoi vecchi compagni di scuola che ora lavorano per lui arrivano nella stanza e si riempiono i bicchieri. Le luci si abbassano, la tensione si allenta. «Dimentichiamo questa serata», dice Sheeran alzando il bicchiere. «Dimentichiamo che ci sia mai stata».
E invece Sheeran non dimentica. E non dorme neppure molto. Una delle figlie ha la tonsillite, quindi passa quasi tutta la notte in bianco e, quando si sveglia, il suo primo pensiero è rivolto ai problemi della sera prima. «È andata bene», ammette, «ma non era quello per cui la gente aveva pagato. Sarebbe come se andassimo a vedere Avatar, il film si fermasse a metà e arrivasse James Cameron a raccontarci come va a finire. Sarebbe un’esperienza nuova, ma non quello per cui abbiamo pagato».
Quando ci rivediamo il giorno dopo, ancora nella medesima area del backstage, indossa gli stessi pantaloncini e una felpa col cappuccio color pastello ed è un po’ più nervoso. Il suo staff ha lavorato molte ore nel tentativo di individuare la fonte di quelle scariche che hanno causato l’interruzione del concerto: si è scoperto che le vibrazioni dei subwoofer hanno danneggiato un chip nella scheda del pedale del loop e sono stati ordinati dei ricambi.
Ci sediamo sul divano del camerino e iniziamo a parlare di Bad Habits, il suo grande successo del 2021. In passato ha accennato al fatto che la canzone parla di «problemi di dipendenza», ma sembra che la cosa non sia mai stata davvero recepita. «Se la canti al pianoforte, molto lentamente», dice, «suona come una confessione sulla dipendenza».
Prima mi ha detto di essere stato «un tipo festaiolo, a 20 anni». Ma poi la situazione gli è sfuggita di mano. «Sono sempre stato un gran bevitore», dice. «Non ho toccato alcun tipo di droga fino ai 24 anni». Oltre all’erba, ha fatto uso di «alcune» sostanze che preferisce non nominare, perché non vuole che le sue figlie lo leggano, un giorno.
Resta sul vago a proposito di come e quando si sia liberato da queste sostanze, ma dice chiaramente che la cosa più difficile è stata smettere di bere superalcolici. «Due mesi prima della nascita di Lyra, Cherry mi ha detto: “Se mi si rompono le acque, vuoi che all’ospedale mi accompagni qualcun altro?”», ricorda. «Stavo bevendo molto. Ed è stato allora che è scattata la molla. Ho risposto: “No, non lo voglio”. Mica voglio essere ubriaco quando tengo in braccio mia figlia. Mai, mai. Farsi un paio di birre è una cosa, bersi una bottiglia di vodka è tutt’altra cosa. È stata una presa di coscienza: “Stai entrando nei tuoi 30 anni: cresci! Hai fatto festa, hai fatto esperienza, fattelo bastare e finiscila”. Amo il vino rosso e la birra. Non conosco nessun vecchio rocker che non sia alcolizzato o totalmente sobrio, e io non volevo essere nessuna delle due cose».
La morte di Edwards a causa della cocaina ha solo esacerbato i suoi sentimenti nei confronti di certe sostanze. «Non toccherò mai, mai, mai più nulla, perché è così che Jamal è morto. Anche solo avvicinarsi a quella roba sarebbe irrispettoso nei confronti della sua memoria».
Smettere di bere superalcolici l’ha aiutato a moderarsi anche col cibo e la nuova abitudine di fare esercizio fisico ha cambiato il suo corpo. Anche il cibo ha costituito un problema. «È imbarazzante, ma entri in un’industria in cui vieni paragonato a tutte le altre popstar», dice. «Sono arrivato in piena ondata One Direction e mi sono chiesto: “Com’è che non ho anch’io gli addominali scolpiti?”. La risposta era: “Perché mangio kebab e bevo birra”. Ho fatto canzoni con Justin Bieber e Shawn Mendes. Tutta gente con un fisico fantastico. E pensavo: “Com’è che sono così grasso?”».
Ridacchia, ma senza gioia. «Mi sono ritrovato a fare quello di cui parla Elton [John] nel suo libro: abbuffarmi. E il problema si ripresentava» (Elton John la mette così: «Avevo sviluppato la bulimia»). «Certe cose mi fanno sentire a enormemente disagio, se ne parlo. So che la gente si farà le proprie idee, ma è bene essere onesti. Perché molte persone fanno la stessa cosa e la nascondono».
Sono battaglie che non finiscono mai. «Soffro di un disturbo dell’alimentazione», dice. «Tendo ad abbuffarmi di cibo. Mi abbuffo di tutto. Ma ora, più che altro, sono diventato uno che si abbuffa di esercizio fisico e di cose da papà. E di lavoro, ovviamente».
È quasi arrivato di nuovo il momento di andare in scena, ma Sheeran è felice di continuare a parlare e avanza una mezza richiesta scherzosa: «Vorrei riuscire a non piangere nei prossimi 40 minuti». Questa volta, lo spettacolo è impeccabile e i singoli di successo esplodono in tutta la loro gloria, con i fuochi d’artificio finali totalmente meritati. Dal palco, l’artista si premura di esprimere la sua gratitudine per il suo team.
«Cazzo», dice nel backstage, con un tono completamente diverso e un asciugamano bianco attorno al collo. «Uno spettacolo perfetto! È stato bellissimo. Dovremmo cannare più spesso». È così entusiasta e pronto a festeggiare che si potrebbe quasi pensare che questo sia stato il suo primo grande concerto. Sheeran è «molto grato per quello che fa», dice McDaid, «un sacco di persone nella sua stessa posizione non sono così. Entra in una stanza per scrivere un pezzo e mi dice quanto sia grato per ciò che fa».
Di recente ha trovato motivi ancora più profondi per cui essere grato. All’inizio della settimana, lui e Seaborn hanno fatto un viaggio di due ore da Auckland alla zona rurale di Waikato, dove si trova ancora Hobbiton – il set costruito per Il signore degli anelli – nel bel mezzo delle praterie verdi della Nuova Zelanda. La bellezza del panorama è incredibile. Un anno dopo che tutto è sembrato crollare, si sono seduti su una panchina, hanno sorseggiato del vino rosso e hanno guardato il tramonto parlando delle figlie e della fortuna che hanno. «Siamo davvero grati» dice Sheeran «di essere vivi».
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Producer: Heather Robbins e Mary Goughnour at CLM
Photography direction: Emma Reeves
Fashion direction: Alex Badia
Market editor: Emily Mercer
Fashion market assistance: Ari Stark
Styling e grooming: Liberty Shaw e Hilary Owen
Tailoring: Alberto Rivera at Lars Bord Studio
Set design: Bette Adams at MHS Artists
Digital technician: Creigh Lyndon
Photography assistance: Kyrre Kristoffersen e Nick Grennon
Set design assistance: Kaeten Bonli e Bell Francis-Bell
Da Rolling Stone US.