«Pop-rock, languida lounge, funk, folk. Questo nuovo disco ha un po’ di tutto! Non ci siamo mai fissati su un genere solo, perché cominciare proprio ora?», scriveva qualche giorno fa Edie Brickell sul suo profilo Twitter annunciando il nuovo album con i New Bohemians Hunter and the Dog Star, uscito il 19 febbraio a poco più di due anni di distanza da Rocket. Un disco più rock che cantautorale, a tratti attraversato da sonorità new wave anni ’80 («una passione del nostro produttore Kyle Crusham», spiega Edie), esuberante e mistico, divertente e introspettivo.
Marchiata a vita dallo straordinario successo del singolo What I Am e di Shooting Rubberbands at the Stars, l’album con cui lei e la sua band si fecero conoscere al mondo a fine anni ’80, la moglie di Paul Simon non sembra farsene un cruccio, vivendo con gusto e una bella carica di entusiasmo questo ritorno sulle scene. Ce ne parla dalla residenza di Maui, alle Hawaii, dove si è rifugiata per sfuggire all’ennesima tormenta di neve che si è abbattuta sul Connecticut.
Hunter and the Dog Star è un disco pieno di energia, di ritmo, di divertimento, di ottimismo. È un modo di reagire ai tempi cupi che stiamo vivendo?
Con questo album ci eravamo prefissi di trasmettere un po’ di ottimismo e di buon umore. La gente ne ha abbastanza di cattive notizie e di drammi, anche se da anni il mondo dell’intrattenimento, il cinema e la televisione tendono a rappresentare soprattutto gli aspetti più bui e più tristi della realtà. Non sono mai stata entusiasta di questo approccio, penso sia meglio cercare di ricavare dalle nostre esistenze e dalle nostre esperienze familiari qualcosa che ci sollevi il morale e che ci dia la forza per andare avanti.
Nella copertina dell’album ricorre un segno grafico già utilizzato nel disco precedente, Rocket. C’è un filo che li lega?
Ti riferisci all’immagine del cane? Sì, abbiamo deciso di continuare a utilizzarla come un simbolo di amore e di lealtà, due sentimenti che rappresentano perfettamente lo spirito che caratterizza la nostra band.
È abbastanza raro, nel pop moderno, trovare canzoni come Rough Beginnings in cui si racconta la storia di una donna capace di superare le difficoltà, di trovare un equilibrio familiare e di raggiungere il successo professionale. Una storia a lieto fine.
Ci tenevo particolarmente. Le canzoni ci raccontano spesso di falliti, di gente ai margini della società, di persone che fanno scelte sbagliate. Storie tristi che ci parlano di battaglie e di conflitti interiori. In quel pezzo abbiamo deciso di utilizzare i classici espedienti narrativi del folk, ma abbiamo cercato di capovolgerne la prospettiva per ricordare che in ogni famiglia esiste qualcuno che decide di non essere di peso agli altri, che si incarica di trasmettere gioia e conforto ai suoi cari. Sono argomenti raramente discussi nelle arti.
Perché di solito si pensa che le storie tristi siano più attraenti, emozionanti e coinvolgenti.
Forse è vero, ma ne sono un po’ stufa. Ho voluto raccontare una storia che evitasse le trappole dell’autocommiserazione.
Questo non ti impedisce, in pezzi come Stubborn Love, di cantare di di amori cocciuti, pericolosi, destinati al disastro.
È un’esperienza che riguarda moltissime donne di mia conoscenza e che ho visto ripetersi fin da quando ero adolescente: donne che sanno da subito come andrà a finire ma che, una volta presa una decisione, perseverano con cocciutaggine ribadendo, quando tutto è finito, che comunque non avrebbero potuto fare altrimenti. È una situazione molto comune di cui sono stata spesso testimone.
Altre canzoni del disco, come I Found You e Miracles, sembrano parlare invece di amore divino e nei confronti della natura, non solo tra esseri umani.
Sì, è cosi. L’idea che volevo esprimere è che ognuno di noi può scorgere manifestazioni d’amore in qualsiasi forma vivente del pianeta, e in questo modo trovare una sua spiritualità. Esiste un’intima connessione tra noi e il creato, e trovo appropriato aver usato sullo sfondo di I Found You il gracidio delle rane e quei suoni naturali. Servono a trasmettere il senso di appartenenza e di meraviglia che proviamo nei confronti del mondo in cui viviamo. Ogni elemento dell’universo comunica con noi, e noi dobbiamo ascoltare. Ci comunica l’esistenza di una forza vitale che ci permette di stabilire una connessione. Nel testo di Miracles, a essere sincera, non credo di essere stata capace di esprimere perfettamente il senso del brano, trovando le parole giuste da affiancare alla meravigliosa, emozionante parte strumentale suonata da Kenny, il nostro chitarrista. Ho cercato, temo senza riuscirci, di trasmettere una sensazione che ho provato fin da quando ero bambina: la presenza di un elemento misterioso, la coincidenza di eventi che ci appaiono come miracoli. Sono cose che ho sempre notato, vissuto, osservato. Volevo descrivere quel tipo di sensibilità, ma si tratta di cose molto difficili da esprimere a parole.
Quando in My Power parli della volontà di riprendere in mano la propria vita e il controllo della situazione ti riferisci a esperienze personali?
Sì, e anche a quelle di altre persone di mia conoscenza. Quella è una canzone che ha preso forma nel mio subconscio come una specie di flusso di coscienza. È venuta fuori da sé, sorprendendomi, ma ho capito subito che parlava di qualcosa a cui potevo relazionarmi. Si tratta di tornare ad avere coscienza di sé dopo avere fatto esperienze che ti hanno ferito o trasformato. Cercando di capire perché hai perso la direzione, provando a reagire a ciò che la vita e gli altri esseri umani ti hanno imposto.
Un pezzo come Sleeve, che ha come argomento i tatuaggi, ha un tono decisamente più leggero. O nasconde qualcosa di più profondo?
È un brano piuttosto giocoso, in cui mi chiedo cosa rappresentino questi simboli per le persone che se li fanno tatuare sulla pelle. Quale identità la gente voglia assumere portando sul corpo questa sorta di messaggi segreti. Quando vedo qualcuno che sfoggia una tigre sulla coscia mi chiedo che storia ci sia dietro, il senso del tenersi quell’immagine addosso per tutta la vita. L’idea della canzone è che questi simboli rivelino molto delle persone che li scelgono ma che allo stesso tempo rappresentino un mistero.
Sono nate tutte da un sforzo collaborativo tra te e gli altri musicisti, le canzoni dell’album?
Sì. In pezzi come Sleeve si percepisce al primo ascolto un’energia che è il frutto delle improvvisazioni di studio dei New Bohemians. È stato molto importante catturare su nastro le loro intuizioni, una cosa che in passato avevamo fatto raramente: è stata una loro scelta quella di mettere in apertura un brano che rivela un nuovo lato del gruppo, un aspetto che il pubblico ha avuto modo di apprezzare dal vivo ma poche volte su disco. Sono tante, stavolta, le conversazioni musicali spontanee che si sono trasformate in canzoni. I New Bohemians amano tanti generi di musica, è molto difficile etichettarli e ingabbiarli in un solo stile. È come se ogni giorno indossassero un abito diverso.
E siete sempre gli stessi, le stesse persone che a metà anni ’80 si incontrarono al liceo e cominciarono a suonare insieme. Cos’è cambiato nel frattempo?
Siamo più sereni e ci apprezziamo più di quanto facessimo allora. Dei tempi della nostra adolescenza abbiamo conservato un senso dell’umorismo molto particolare che le persone estranee al gruppo possono far fatica a comprendere. Con noi, in studio, a volte è come assistere a una scenetta comica o a un episodio dei Looney Tunes. Siamo persone mature, ovviamente, ma avere mantenuto il modo di scherzare che avevamo a 18 anni è divertente e ci rende complici.
Perché è passato tutto questo tempo, prima che vi rimetteste insieme con Rocket?
Nel 2006 avevamo fatto un disco intitolato Stranger Things. Da quel momento ho sempre cercato di registrare, o almeno di suonare, con loro ogni volta che mi fosse possibile farlo. La distanza geografica non ci ha aiutato, dal momento che io vivo nel Nord Est degli Stati Uniti e loro sono rimasti in Texas. Quando i miei figli hanno cominciato ad andare a scuola ho avuto molto meno tempo da dedicare alla band, ma ora che sono cresciuti ho potuto coronare uno dei nostri sogni più grandi. In Texas abbiamo un fienile convertito in sala di registrazione in cui possiamo ritrovarci a suonare.
Hai raccolto 11 nuove canzoni in un album: è ancora questo il tuo formato preferito per presentare la tua musica al pubblico? E che ne pensi di chi, come Daniel Ek di Spotify, invita gli artisti a rendere disponibili canzoni a getto continuo uscendo dagli schemi della discografia classica?
Abbiamo sempre fatto del nostro meglio per realizzare degli album che avessero un valore, dischi in cui tutte le canzoni rivestono un significato speciale. Ma chissà, non è detto che la prossima volta che la band si ritroverà a suonare insieme non si decida di registrare e pubblicare un singolo dopo l’altro. È un cambiamento di prospettiva di cui potremmo anche avvantaggiarci.
Cosa significa oggi, per te, scrivere canzoni? Si tratta di catturare una scintilla? O è un lavoro che richiede impegno e attenzione costante?
Un po’ entrambe le cose. Ho sempre creduto nell’importanza dell’ispirazione momentanea, ma qualche anno fa ho fatto un esperimento: ho deciso di mettermi a scrivere e registrare una canzone al giorno, postando i risultati sul mio sito web. L’ho fatto per due anni, e ho scoperto che essere così costante nella scrittura è una cosa che ti fa star bene. Che ti nutre l’anima, il cuore e lo spirito. Non ne potrei più fare a meno, e così ho capito che le canzoni sono come spiriti che fluttuano nell’aria. Entità che ci circondano, che vogliono vivere e trovare una forma di espressione. Hanno solo bisogno di uno sbocco, e io sono lieta di fornirglielo. Oggi scrivo in qualunque momento della giornata, quando esco a fare una camminata mi ritrovo a cantare e a registrare idee sul mio telefonino. Don’t Get in the Bed Dirty è nata così, continuando a cantare quel ritornello che mi piaceva. L’ho registrato sullo smartphone e sei mesi dopo, mentre ascoltavo John e Bradley dei New Bohemians suonare una fantastica base ritmica, ho pensato che era arrivata l’occasione di portare alla luce la mia canzone.
Ti capita di ascoltare una canzone e di trovarla perfetta?
Una canzone assolve il suo compito quando fa sentire bene te e chi la ascolta. Quando è interessante e colorata, quando possiede una forte personalità. La prima volta che abbiamo registrato My Power aveva un bridge molto diverso ma c’era qualcosa che non andava. Sapevo che andava cambiato, ne ho scritto un altro e tutto è andato a posto. Come in ogni altro aspetto della vita, si tratta di capire se una cosa funziona oppure no. E se non funziona, ci devi lavorare parecchio oppure disfartene. Mi capita, certo, di ascoltare canzoni che ritengo perfette. Per esempio Rivers of Babylon dei Melodians. È una piccola gemma, amo in particolare la strofa che dice “Siano gradite le parole della mia bocca e la meditazione del mio cuore in tua presenza”. Non sapevo che quei versi provenissero dalla Bibbia, e mi sembrano parole da far proprie: esprimono bene la volontà di non farsi abbattere dalle circostanze, l’impegno a lottare per non venire meno alla propria natura. Un’altra canzone che trovo straordinaria è Hyperballad: penso che Björk sia un’artista di fenomenale immaginazione, capace di articolare esperienze molto personali ma a cui tutti possiamo relazionarci cogliendo esattamente che cosa ci vuole comunicare. E tutto quell’album, Post, è meraviglioso. Bjork ha una voce di grande personalità, è un’artista davvero completa.
Dal momento che vivi con uno dei più grandi autori di canzoni del secolo, mi chiedo se ti ha mai dato dei consigli, riguardo alla scrittura…
La gente spesso immagina che succeda in considerazione della nostra differenza di età, della sua grande esperienza, del successo che ha avuto nella sua professione. Ma nessun artista, nessun autore desidera mettere la sua penna nelle mani di qualcun altro. Nessuno vuole rinunciare alla sua identità. Riconosco ovviamente la sua statura di artista e lo ammiro per questo; ma ogni forma di espressione artistica proviene dal tuo cuore, è quello il punto di partenza irrinunciabile. Il miglior consiglio che puoi ricevere è quello di seguire ciò che il tuo cuore ti dice di fare. È una cosa che ho imparato a fare quand’ero molto giovane.
Forse è questo il motivo per cui, pur avendo collaborato anche di recente con artisti diversi come Steve Gadd, Steve Martin o Willie Nelson, raramente hai lavorato con Paul Simon?
In realtà cantiamo spesso insieme, scriviamo canzoni a quattro mani per i compleanni degli amici e gliele mandiamo con il cellulare…Tanto tempo fa avevamo iniziato a lavorare su un album. Cimentandomi con la chitarra in fingerstyle, avevo composto molte canzoni ed eravamo anche andati a Nashville per registrarne qualcuna. A quel punto Paul mi chiese di sospendere i lavori per lasciargli il tempo di scrivere qualche brano per il disco… di lì a un mese, Steve Martin cominciò a mandarmi i pezzi che aveva inciso con il banjo, iniziai a lavorare su quelle basi strumentali, il progetto decollò e per i tre anni successivi sono stata impegnata con lui, realizzando un musical e due album. Di conseguenza io e Paul non siamo mai riusciti a finire il nostro disco, anche perché nel frattempo lui si era messo a fare altre cose e io avevo ripreso a collaborare con i New Bohemians. Ma non è un’idea che abbiamo accantonato. Sarebbe bellissimo realizzarla, per noi e per i nostri figli. Quando canti con lui, la tua voce raggiunge un’espressività impensabile. Ed è merito suo, possiede una delle voci più ricche di anima e di sentimento che abbia mai sentito.
Di recente molti grandi autori, da Bob Dylan a Neil Young, hanno deciso di cedere in tutto o in parte i loro copyright musicali. È una opzione a cui hai pensato anche tu?
Non ci ho proprio pensato, no. E, onestamente, prima di farlo io e la mia band dovremmo badare a sviluppare un catalogo di valore. È questo a cui puntiamo, vogliamo recuperare il tempo perduto e produrre musica di qualità.
La comunità artistica e musicale americana si è stretta intorno al neo presidente degli Stati Uniti Joe Biden celebrandone l’insediamento. Condividi l’entusiasmo e le speranze dei tuoi colleghi?
Oh, certo. È stato come tirare tutti insieme un gran sospiro di sollievo. È una bella sensazione avere di nuovo un gentiluomo alla Casa Bianca. E sono stata felicissima di vedere Kamala Harris assumere il ruolo di vicepresidente. È una persona per cui nutro grande rispetto e ammirazione, mi piace il senso di multiculturalismo che trasmette. Con le sue ascendenze indiane, è l’incarnazione del sogno americano: attraverso i suoi occhi scorre una meravigliosa storia di integrazione.
Lei, la giovane poetessa Amanda Gorman, Lady Gaga e Jennifer Lopez sono state le grandi protagoniste della cerimonia di insediamento. È un buon segnale, mi sembra, per le donne americane e non solo per loro.
Mi fa pensare che si stia finalmente verificando un riequilibrio di potere tra i sessi. Una maggiore presenza femminile è vitale, in una grande famiglia che voglia trasmettere al meglio i nostri valori culturali. Non sono a favore di una società matriarcale, uomini e donne meritano uguale rispetto così come lo meritano tutte le razze. Chi lotta per la prevalenza di un gruppo su un altro mi è sempre sembrato miope, portatore di un punto di vista pericoloso. Sono per una cultura inclusiva, e mi sembra che siamo sulla buona strada.
C’è qualcosa, nella tua vita o nella tua carriera, di cui ti sei pentita? Qualche errore da cui hai tratto un insegnamento importante?
Ho imparato che non bisogna avere timore di esprimere la propria creatività. È un dono prezioso di cui bisogna approfittare. A inizio carriera avevo paura anche dei giornalisti… Sono stata un’adolescente introversa, sempre innamorata di qualcuno e mai corrisposta, finché non sono entrata in una band e qualcuno ha cominciato a notarmi per i motivi sbagliati. La mia vita era cambiata, ma ne rimasi spaventata, mi feci distrarre e persi per strada la creatività. Potessi tornare indietro, non lo rifarei. Ho capito che bisogna tirare dritto. Essere un’artista è un privilegio.