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‘Educazione rap’, il libro che porta l’hip hop nelle scuole

Scritto da Amir Issaa, non è «una raccolta di storielle o un manuale», ma un’analisi di cosa succede oggi nella scena e uno strumento per fare dialogare generazioni differenti

Nei primi 2000 ero un ragazzino fomentato con il rap italiano. Mentre crescevo nella provincia torinese, la voce del rap italiano mi apriva a nuovi immaginari fino a quel momento impensabili. Mi faceva sentire rappresentato e capito, come non accadeva negli altri luoghi e nelle altre arti. In quegli stessi anni, a qualche centinaio di chilometro da me, iniziava a farsi notare Amir Issaa, rapper romano d’origine egiziana, parte del celebre collettivo Rome Zoo che redunava la crème della scena romana, nomi celebri del rap underground capitolino come Colle der Fomento, Cor Veleno, Ice One, Piotta.

Da quei primi 2000 Amir Issaa ne ha fatta di strada non solo pubblicando dieci dischi solisti, ma ottenendo una nomination a miglior canzone ai David di Donatello per Scialla, dall’omonimo film di Francesco Bruni, costruendosi un percorso da educatore attraverso il rap che l’ha portato nelle scuole, nelle carceri e nei college americani e, infine, pubblicando due libri, Vivo per questo (Chiarelettere, 2017) e Educazione rap (Add Editore, 2021).

Lo raggiungo a lato de La Grande Invasione, festival culturale di Ivrea, nella provincia dove il rap italiano mi aveva cresciuto e in cui Amir terrà due interventi nelle scuole superiori del territorio. È l’occasione per parlare del suo ultimo libro, dell’educazione attraverso il rap e di come si può invecchiare con dignità nel mondo dell’hip hop.

Come si passa dall’essere un rapper a utilizzare il rap a livello educativo? Come sei arrivato a scrivere Educazione rap?
Quando ero più giovane mi avevano proposto di fare un libro, ma era qualcosa lontano da me. Non ero pronto, volevo solo essere un rapper. Crescendo però ho iniziato a capire che il rap non poteva essere l’unico strumento per comunicare e lavorare. Così ho iniziato a fare didattica con il rap in qualche scuola di Roma, spontaneamente. Spargendo la voce, mi sono poi ritrovato più spesso davanti ai ragazzi. Poi ho fatto “Potere alle parole”, un progetto di Feltrinelli in cui coinvolsi altri rapper, Kiave, Ghemon, Mecna, MadBuddy e Mistaman, e grazie a quell’esperienza iniziai a capire che potevo far questa professione sul serio. Mi sentivo a mio agio con l’età che avevo. Nel 2017 ho poi pubblicato Vivo per questo che alcune scuole hanno utilizzato come strumento didattico per la narrativa, e da lì sono finito anche negli Stati Uniti. Tre anni fa invece, Rizzoli Education ha selezionato il testo di un mio brano per Mondi Narrativi, un’antologia di poesie e teatro per i licei. C’è un bel racconto di com’è nata la cultura rap e un’analisi del testo di un mio brano. Quando ho avuto quel libro in mano ho avuto l’illuminazione di poter scrivere qualcosa in quella direzione, qualcosa pensato per la scuola, utilizzabile da studenti e docenti.

Come possiamo definire Educazione rap?
È un libro-strumento a fine didattico. La scelta di pubblicarlo per una collana come Young Adult di Add Editore è stata decisiva: libri educativi attuali pensati per i ragazzi, dai temi alle grafiche. Non volevo fosse un libro aneddotico o di storielle, né che fosse un manuale su come si fa rap. Volevo fosse un libro-testimonianza su cosa ho capito e imparato dal rap, nonché un’analisi di ciò che succede oggi, cosa fondamentale se vuoi parlare coi ragazzi. Volevo poter parlare di temi urgenti come femminismo, omofobia, discriminazione, razzismo.

A chi è rivolto?
Da un lato aiuta il docente a capire il mondo di oggi, dall’altro parla ai ragazzi di cosa succede ogni giorno attraverso il rap. È rivolto sia al genitore che ha un figlio che ascolta questa musica quanto al docente di scuola che vede i ragazzini con le cuffiette tutto il santo giorno. Leggendo questo lavoro possono capire qualcosa in più di questi ragazzi, di come funziona il loro mondo e il rap. Non è un libro per esperti del rap, è per chi ne è estraneo.

Stando a contatto con ciò che accade nelle scuole, percepisci uno scollamento tra studenti e corpo docente?
Ho appena finito due incontri in un liceo e in un istituto tecnico qui a Ivrea. Anche qui, come accade spesso, vedo che i ragazzi sanno benissimo di cosa sto parlando, mentre i docenti no. Nessun docente sapeva, ad esempio, il significato del termine “barre”. Questo è interessante perché nei miei interventi viene così a crearsi un cortocircuito in cui sono gli studenti stessi a insegnare qualcosa ai docenti. Il rap diventa un collante a due vie. I ragazzini hanno bisogno di una chiave nuova, di un linguaggio nuovo. In Italia si studia bene, ma la didattica è molto tradizionale. Lavorando negli States ho visto come la creatività veniva utilizzata per insegnare: musica, teatro, cinema. È questo l’obiettivo del mio libro, portare un nuovo metodo necessita di nuovi strumenti contemporanei. Io vorrei portare innovazione attraverso il rap utilizzato come strumento per raccontare.

È cambiato il tuo modo di far musica da quando hai fatto questo passaggio dal palco alle aule?
Diventare padre è stato fondamentale per capire e smussare alcuni miei atteggiamenti. Quando vedo i miei coetanei che rincorrono la moda dei ragazzini sento proprio che non mi riguarda. Ora la mia carriera discografica è diventata un percorso parallelo. Faccio musica diversamente, con un altro target. Ogni canzone che scrivo ora è uno strumento che utilizzo per spiegare qualcosa ai ragazzi. Penso ad esempio a Non respiro, il brano che ho pubblicato con Shorty e David Blank, dopo l’assassinio a George Floyd. Utilizzo il nostro videoclip per raccontare il Black Lives Matter nelle scuole, e vedo che i ragazzini così capiscono al volo.

Per molti educare attraverso il rap potrebbe suonare come un controsenso. Il rap è inevitabilmente legato al suo linguaggio e spesso è proprio questo linguaggio ad aver creato dibattiti accesi tra genitori/docenti e figli/studenti. Parlo naturalmente di sessismo, omofobia, razzismo, come l’utilizzo della n-word. Personalmente non sono un grande fan dei rapper che riducono questo discorso a “quando rappo sono un personaggio”, soprattutto quando, coi social, quel personaggio diventa una rappresentazione 24/7. Credo ci sia bisogno di prendersi delle responsabilità sull’uso delle parole. Qual è il tuo pensiero?
È difficilissimo spiegare come funziona il rap a chi è fuori dal nostro mondo. Noi rapper possiamo creare un personaggio, ma è sempre qualcosa di sottile che è meglio dichiarare. Se faccio storytelling è come se fossi uno sceneggiatore che racconta esplicitamente la storia di qualcuno o di un personaggio d’invenzione. Ma il discorso è molto più complesso di così. Il filo è sempre sottile. Penso sia necessario dichiarare esplicitamente quando si fa storytelling. Nel mio libro c’è un riferimento a un episodio che mi è personalmente successo per una barra che avevo utilizzato all’interno di Questa è Roma in cui avevo utilizzato la parola “troia”. Andando in radio, un giorno, venni fermato dalle ragazze di un collettivo femminista che mi chiesero un confronto e mi diedero la loro visione dell’utilizzo di quella parola. Questo dialogo ha fatto parte di un percorso che mi è servito per sensibilizzarmi ulteriormente sul discorso. Questo, forse per fortuna, è accaduto prima dell’esplosione dei social, quando si poteva ancora parlare di persona, confrontarsi, capirsi. Da quel momento, infatti, non utilizzo più quel termine.

Quindi pensi che chi fa rap abbia una responsabilità vero le proprie parole?
Far musica è una responsabilità perché le parole rimangono, anche dieci anni dopo, come abbiamo visto con Fedez che ultimamente è stato accusato per dei versi omofobi scritti tanto tempo fa. È un gioco pericoloso. Ti faccio un altro esempio, molto differente. Dopo aver pubblicato un brano a tema ius soli, Magdi Cristiano Allam, un giornalista d’origine egiziana convertito al cristianesimo, la cui battaglia è contro l’Islam, prese delle rime di un mio vecchio brano La tregua è finita, in cui rappo “lotto con me stesso evitando una strage / sta vita che trasforma un uomo in un kamikaze”, le mise sul suo Facebook scrivendo che incitavo al terrorismo e così per giorni fui sommerso da minacce di morte. Questo ti fa capire quanto è facile strumentalizzare una frase o estrapolarla da un contesto, da una narrazione, da uno storytelling. Per noi che siamo dentro, è chiaro quando qualcuno sta facendo un personaggio. Per chi sta fuori, no. Penso a Metal Carter e al suo immaginario gore-splatter, non è che poi lui va in giro a tagliar teste.

Pensi che i rapper più maturi dovrebbe fare uno sforzo linguistico per essere degli esempi per le nuove generazioni musicali?
Dovremmo essere dei buoni esempi, non competere con le nuove generazioni. Noi siamo visti come padri e nessun figlio rispetta un padre che si comporta come un ragazzino. Aver 45 anni e competere coi sedicenni mi sembrava una forzatura. La scena cambia, il gusto degli ascoltatori cambia; cambia la società. Allora o stai sul pezzo sempre e riesci ad evolverti insieme – gli esempi credibili in Italia sono pochissimi – o rischi di diventare una persona frustrata che insegue. Quando mi sono spostato dal palco alle aule ho visto che raccontare la mia esperienza aveva un valore. Bisogna essere in pace con la propria età e con il proprio ruolo.

Hai viaggiato con il rap nelle scuole italiane, ma anche all’interno delle università americane. Come è cambiata la tua comprensione dell’hip hop dopo queste esperienze negli States?
Ho potuto veder chiaramente come la cultura hip hop sia radicata nella società americana. Così ho capito che il mondo del rap italiano era stretto tra limitazioni e copie. Il rap è un contenitore dove tu ci metti la tua lingua, ma devi comunque portare rispetto alla cultura afroamericana da cui nasce. Se sei italiano e bianco certe cose non le puoi fare, devi avere rispetto. Non è un gioco. Se tu fai rap non puoi far finta di niente, non puoi far finta che Black Lives Matter non esista. Se col rap ti sei comprato una casa o una macchina, devi ringraziare chi ha creato questa cosa. Negli States i rapper non hanno paura di esporsi politicamente o di aiutare la propria comunità. Il rap lì è radicato nella comunità di appartenenza. Qui invece l’abbiamo preso e reinterpretato: per questo le cose che escono dalle periferie italiane sono le più vere. La cosa più hip hop di tutte è il ragazzino di periferia con la storia difficile che riesce a raccontarla, a riscattarsi e a farci pure i soldi. Questo non vuol dire che per fare rap devi essere povero, ma significa che se sei ricco, se hai dei privilegi, ecco, non puoi fingere di non avere tutto quello. La verità esce sempre fuori.

Qual è il tuo parere sulla trap italiana?
È un bel momento per l’Italia: le nuove generazioni stanno spingendo e a spaccare sono quelli che vengono dal basso, dalle periferie, le seconde generazioni. Questa è la musica rap italiana di oggi.

Pensi che la trap e il rap contemporaneo abbiano perso la loro valenza politica e politicizzata?
Secondo me oggi si fa politica in un altro modo. Le nostre erano canzoni-slogan. Il tema spesso lo ritrovavi già nel titolo e i brani erano monotematici. Nelle trap invece c’è sempre qualcosa di melodico, catchy, e ogni tanto, nelle barre, c’è qualche frase forte, politica. Ghali ne è l’esempio. È cambiata la tecnica; ora un brano parla di mille cose, anche di politica. È cambiata la società e quindi anche il modo di far musica. Il rap interpreta i cambiamenti sociali e la trap rappresenta il vuoto che c’è stato e che si sta riempiendo di altro.

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