Nell’ormai lontano 2015 il crowdfunding era ancora una scommessa per buona parte dei musicisti italiani; figuriamoci per i rapper, che in generale hanno un’utenza molto giovane, legata allo streaming e alla gratuità della musica. Egreen, al secolo Nicholas Fantini, all’epoca aveva alle spalle undici anni di carriera ed era diventato uno dei più stimati artisti hip hop italiani – anche se la definizione è riduttiva, visto che ha origini colombiane, è nato a Bogotà ed è cresciuto tra gli Stati Uniti e la Svizzera, prima di trasferirsi definitivamente a Busto Arsizio a 15 anni. Impermeabile alle mode e fieramente legato al suo background, per rimanere completamente indipendente aveva lanciato un appello ai suoi fan, uno di quelli che ancora pochi osavano fare: gli servivano 20.000 euro per riuscire a finanziare il suo successivo album. L’obbiettivo a molti sembrava fin troppo ambizioso, ma in soli tre mesi ne ha raccolti 69.000, stabilendo il record (ancora imbattuto) per il crowdfunding più riuscito della storia della discografia italiana. Il messaggio di questa piccola parabola, insomma, è chiarissimo: per la scena underground italiana è un rapper talmente integerrimo, credibile e di solidi princìpi che gli si dà credito sulla fiducia, in senso letterale e non solo metaforico.
Considerando questi trascorsi, qualche settimana fa la notizia che Egreen metteva fine alla sua indipendenza discografica firmando un contratto con Sony Music ha fatto parecchio scalpore tra i suoi fan. Molti l’hanno presa quasi sul personale, come se si trattasse di una specie di voltafaccia da parte sua (vedi numerosi commenti talebani sui social). Il diretto interessato era ben consapevole di ciò a cui andava incontro, conferma in un bar di Milano sud, tra una tazza di tè, una mail per controllare che tutto sia in bolla per l’imminente lancio dell’album e una sigaretta. «Sia chiaro, però: ho la coscienza pulita, e trovo molto ipocrita relegare il concetto di coerenza semplicemente alla modalità di pubblicazione dei miei lavori», sottolinea. «Se il mio obbiettivo fosse stato da sempre entrare a far parte di una major, dopo il successo di quel crowdfunding non avrei avuto problemi a trovarne una che mi accogliesse: invece ho continuato per anni a fare dischi nell’underground, autoproducendoli. Se ho fatto questo passo solo ora è perché il mio percorso di vita e artistico mi ha portato fin qui». Un percorso che a un certo punto è stato segnato da una sorta di “crisi della fede” che gli ha fatto rimettere in discussione ogni cosa: lo spiega bene nel primo singolo uscito dopo l’annuncio, che non a caso si intitola Ho sbagliato e in cui non va certo per il sottile. Un estratto dal testo: “Ho creduto nell’hip hop italiano, seh, l’hip hop italiano / Bella sòla, bella presa per il culo, giuro, frate’, che se vuoi ne parliamo / Ho spinto per i props, la gloria e per fare la storia / Mi son svegliato il giorno dopo con un cesso a letto tipo dopo sbornia”. Per i puristi del genere (quelli anti-trap e anti-swag, per intenderci), che si sono sempre sentiti pienamente rappresentati da Egreen, è stata una vera mazzata sentire queste barre.
«La sera prima di uscire con quel singolo ero tesissimo», confessa ridendo. «Sapevo quello che stava per scatenare, ma non potevo più far finta di niente. Questa presa di coscienza mi stava logorando da mesi». In effetti, ad ascoltare l’album (che non a caso si intitola Fine primo tempo, come a sottolineare una nuova fase della sua vita) sembra che le parole gli siano uscite come un fiume in piena. «A questo genere musicale e a questa scena ho dato tutto, e ho sempre detto quello che pensavo, facendomi ettari di terra bruciata intorno e pagandone le conseguenze. Ma con il tempo ho maturato del disgusto nei confronti di certi meccanismi», racconta. «C’è qualcosa di morboso e malsano in un certo tipo di mentalità, che criminalizza le nuove generazioni semplicemente perché hanno un sound diverso. Perché accanirsi? La musica di merda c’è sempre stata, così come i prodotti validi, in qualsiasi ambito e momento storico. Tante cose non mi piacciono e non le capisco, ma la nuova wave non è tutta da buttare via o da condannare senza appello». Anzi, per Egreen ha molti pregi: «Sono ragazzi davvero uniti, hanno fatto gruppo e creato un movimento che ha stravolto le tendenze di questo Paese, motivando tutti noi a rimetterci in gioco e a rimanere sul pezzo». Cosa che ha fatto anche lui stesso, includendo nel disco sonorità molto innovative come lo UK drill, che partendo da Londra in questo momento sta dettando le tendenze mondiali, ma senza per questo snaturare il suo approccio e i suoi contenuti.
L’album inizialmente doveva uscire in maniera indipendente, come tutti i suoi lavori precedenti, ed era già pronto da mesi; ma in considerazione di tutto questo, Egreen ha deciso di non precludersi l’opportunità di bussare alla porta di una major, che gliel’ha aperta più che volentieri, nonostante non sia certo un lavoro che strizza l’occhio alle radio. «Per fortuna oggi la musica è cambiata, in tutti i sensi», sorride. «Fine primo tempo è un disco molto hardcore, influenzato dai miei ascolti del momento. Devo ringraziare soprattutto due produttori, non a caso anche loro fuori dal circuito mainstream: Garelli, un amico le cui produzioni sono state il perno di questo progetto, e HLMNSRA, che vive a Londra, frequenta molto la scena elettronica e ha una freschezza pazzesca». I featuring spaziano dalle giovani promesse del rap (il genovese Vaz Té, «a cui ho letteralmente fatto la corte: adoro la scena ligure, la trovo matta e geniale», e il milanese Axos, «una delle penne più interessanti e originali in questo momento») alle solide certezze dell’underground (Dium, membro del collettivo Adria Costa, «l’unico della crew con cui non avevo ancora collaborato»), fino ad arrivare a Highsnob, ex pupillo di Fedez («ci siamo conosciuti scambiandoci messaggi su Instagram: lui ora fa roba molto più pop, ma quando rappa spacca, e ha cacciato una strofa pazzesca»).
I tempi di “Fare rap non è obbligatorio” – il motto che anni fa Egreen aveva coniato per invitare i rapper scarsi a mollare il colpo, diventato uno slogan stampato su t-shirt e ripetuto a gran voce da migliaia di persone – ad alcuni sembreranno lontanissimi, ma in realtà sono più vicini che mai: è solo cambiata un po’ la prospettiva. «Penso ancora che fare rap non sia obbligatorio», conferma. «Ma in un certo senso ben vengano gli incompetenti e gli incapaci, perché più ce ne sono, più vuol dire che il rap sta avendo successo, e più spicca la gente che sa scrivere davvero: come Rancore, che a Sanremo ha vinto il premio per il miglior testo, un fatto importantissimo per tutti noi». E mentre già pensa alle sue prossime strofe, da fissare nero su bianco per poter tornare in studio al più presto, si prepara a risalire sul palco. «Il tour sarà una specie di best of, riprendendo il concetto di Fine primo tempo», racconta. «Porterò sul palco pezzi che ho fatto rarissimamente dal vivo: se avete voglia di sentirli, probabilmente l’ultima occasione sarà questa. D’ora in poi voglio sperimentare di più: vale anche per i miei concerti». Il secondo tempo sta per iniziare, e la partita è ancora tutta da giocare, sia in campo che sugli spalti.