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«Ehi Bimbo, apri, sono De André»: i ricordi di Carlo Marrale dei Matia Bazar

Gli inizi in una Genova piena di musica, i Jet, Antonella Ruggiero reclutata per fare dei vocalizzi alla Pink Floyd, quel grande genio di Faber, il legame fra ‘Vacanze romane’ e Radio Deejay. «Eravamo un Paese esportatore di musica, oggi siamo un Paese esportatore di cazzate»

Foto: Angelo Deligio/Mondadori via Getty Images

Quando gli dico che sono di Genova, Carlo Marrale si illumina. «Anche tu di Genova. Belin, negli anni ’60 e ’70 a Genova, e non solo qui, suonavano tutti. Tu camminavi per strada e ogni 100 metri sentivi venire musica dagli scantinati, dai parchi, dai vicoli. Tutti i ragazzi volevano suonare, non mancavi mai di vedere qualcuno con la chitarra e gli altri intorno a cantare. La musica a quei tempi ricopriva un ruolo centrale nella società, ora è diventata un rumore di fondo».

Marrale è il chitarrista e compositore dei Matia Bazar, quelli storici che tutti ricordano per l’essenziale presenza di Antonella Ruggiero e mega hit come Solo tu, Stasera che sera, Mister Mandarino, Cavallo bianco, Fantasia, Vacanze romane e Ti sento, solo per citarne alcune. Brani dal successo intergenerazionale che hanno marchiato a fuoco il pop italiano di cui Marrale è autore (o co-autore) delle musiche, lasciando che il compianto Aldo Stellita si occupasse dei testi. Ci ha parlato di questo, ma anche e soprattutto del origini della band, delle esperienze col prog, dell’incontro con De André e di molto altro.

Come hai iniziato con la musica?
L’imprinting l’ho avuto all’età di 2 anni. Sembra incredibile, ma lo ricordo  bene. Tenevo mia madre per mano, lei stava parlando con un prete nella sua canonica e c’era una musica bellissima che in seguito ho scoperto essere un’opera di Borodin. Ho avuto i brividi a 2 anni, tu pensa, brividi lungo la schiena, folgorato dalla bellezza di quella melodia. Credo che in quel momento la dea della musica mi abbia baciato. Ero attratto degli strumenti, da ragazzino andavo al cinema, uscivo e ricantavo le colonne sonore. Un vero dono.

E l’adolescenza?
Sempre con la musica, con amici che suonavano. Camminavamo nei vicoli cantando, imparando a fare le voci di contorno. Pensavamo solo alla musica e questa ci ha tenuti lontani da qualsiasi deviazione. La musica ti pone su un livello più alto di spiritualità.

E dire che sei cresciuto in anni nei quali le deviazioni erano all’ordine del giorno.
Come no… Specie i ’70 erano anni tumultuosi, io credo però che i Matia Bazar abbiano avuto successo proprio perché la gente si era rotta i coglioni di quel clima di terrore, rapimenti, bombe, scioperi, occupazioni. In quel contesto ce ne siamo usciti con Stasera che sera, Solo tu, Mister Mandarino, brani che hanno portato un tocco di leggerezza a un periodo che comunque era vitale, c’era una società più attiva, la musica aveva un ruolo centrale. Ascoltare un disco era come leggere un libro, un classico. Poi c’era anche chi faceva musica brutta, per carità, però c’era la tendenza a creare qualcosa di valore, a differenza di oggi in cui si cerca solo il tormentone.

Come mai secondo te?
Boh, so solo che basta guardare Sanremo: tutti cercano il consenso immediato con questo sound sempre facilotto, senza alcuna classe, profondità. Ci siamo attamarrati in una maniera spaventosa (ride). Io ricordo il mio primo Sanremo, parlo del ’73, in sala c’erano editori messicani, peruviani, giapponesi. Perché l’Italia in quegli anni era esportatrice di musica in tutto il mondo. La prima volta che sono stato in Israele era il 1969, sul taxi ascoltavano Mina e Celentano. L’Italia era riconosciuta a livello mondiale come il Paese della canzone. Oggi è cambiata la società, è cambiato il modo di fare musica, è cambiato tutto. Non siamo più un Paese esportatore di musica, siamo un Paese esportatore di cazzate (ride).

Come sei arrivato alla chitarra?
Un dono di mio zio che ne aveva una e mi mise alla prova per vedere se la mia passione era reale. Mi disse che se fossi andato a prendermela a casa sua me l’avrebbe regalata. Ci sono andato di corsa, anche se non abitava dietro l’angolo. Al ritorno si è pure messo a piovere e io non sapevo se riparare la chitarra o me stesso. Avevo 14 anni e non dimenticherò mai la gioia che provavo quando sentivo il suono delle corde.

Sei andato a lezione?
No, ho imparato a orecchio, nei Matia Bazar eravamo tutti autodidatti.

Sul serio?
Pensa che quando siamo nati ho buttato giù 50 canzoni in due mesi, tutte a orecchio, senza studi musicali. E te ne racconto un’altra: tempo fa ho fatto un piccolo tour con un gruppo di jazzisti, tutti insegnanti di conservatorio. Quando ho visto che scrivevano le note ho detto «Piacerebbe anche a me saperlo fare». Il capo orchestra mi guarda e mi dice: «Cazzo, io vorrei avere scritto quello che hai scritto tu senza sapere nulla di teoria» (ride).

Prima dei Matia Bazar sei stato nei Jet. Come vi siete formati?
In realtà a Genova esistevano già i Jets, che vedevano tra le loro fila Angelo Sotgiu e Franco Gatti, che avrebbero formato i Ricchi e Poveri, e Gianni Belleno, poi nei New Trolls. Dopo tutta una serie di cambi si finì ai Jet, con Aldo Stellita e Piero Cassano. Mi ricordo il primo concerto, all’inaugurazione di un supermercato, Franco Gatti mi aveva prestato una Stratocaster che all’epoca costava 200 mila lire, si parla della fine degli anni ’60. Avevo 16 anni. Prima avevo fatto anche l’assistente fotografo.

Così giovane?
Sì, avevo voglia di vedere il mondo, ho avuto l’occasione di andare in Brasile, in nave. Avevo già un discreto pelo sullo stomaco. Mi sono trovato sulla Enrico Costa con gli ultimi emigrati che andavano in Sud America, il viaggio è durato tipo 15 giorni e per fare quel lavoro mi davano 1000 lire al giorno, una bella sommetta. Poi però la musica ha preso il sopravvento, a ritorno mi sono unito ai Jet che rientravano dalla Danimarca dove erano stati a fare un piccolo tour nelle università. Seppi che cercavano un chitarrista e mi presentai. Ci incontrammo in un locale, un provino al volo e nacque subito un feeling musicale, soprattutto con Aldo Stellita che ho sempre considerato un fratello maggiore.

Che ricordo hai di lui?
Era una persona splendida, saggio, colto, bello, tranquillo, molto profondo. Uno che sapeva vedere oltre, un vero leader. Aldo è quello che ha tenuto insieme i Matia Bazar. Poi scriveva dei testi della madonna. Mi manca tanto, sotto l’aspetto umano e professionale. Chissà quante altre belle canzoni avremmo potuto scrivere ancora. È doloroso ricordarlo.

Fede speranza carità dei Jet è considerato uno dei must del prog italiano, venerato in Giappone.
In Giappone c’è da sempre una grande passione per il progressive italiano. Una copia originale di quel disco vale più di 2000 dollari.

Dentro c’è anche Antonella Ruggiero ai cori. Dimmi del vostro primo incontro.
Con i Jet suonavamo in un locale che si chiamava Peppermint 2000, una discoteca molto grande nella quale noi eravamo il gruppo residente. Una sera venne a suonare la PFM. Finito il concerto vedo una ragazza carinissima che parla con il nostro produttore. Questo mi dice che la tipa è una cantante che ci vorrebbe conoscere. Io le dico che l’indomani saremmo stati sulle alture di Bolzaneto (località nella periferia di Genova che divengterà tristemente famosa per i fatti del G8, ndr) a fare le prove, se ci avesse raggiunto l’avremmo aspettata. L’ho fatto anche per metterla alla prova, un po’ come mio zio con me. Lei abitava a Pegli ed era senza macchina, fino a Bolzaneto sarebbe stato un viaggione. Il giorno dopo ce la ritroviamo puntualissima in sala prove che si lancia in una versione accappella di You’ve Got a Friend che ci lasciò sbalorditi. Da lì a farla partecipare al nostro disco il passo è stato breve, la utilizzammo per dei vocalizzi un po’ sulla falsariga dei Pink Floyd.

Poi i Jet diventano Matia Bazar, come accadde?
Anzitutto avevamo un progetto: lanciare Antonella come cantante solista. Il suo disco d’esordio sarebbe dovuto essere Cavallo bianco. In quel periodo Oscar Prudente ci disse di andarlo a trovare all’Ariston Records, noi prendemmo la palla al balzo e andammo. La sede era in centro a Milano e quando mettemmo su il nastro con la canzone ci fu una scena pazzesca, come nei film. Si sono aperte tutte le porte degli uffici, una dopo l’altra. Da quella della dattilografa, fino all’ultima, quella di Alfredo Rossi, il presidente, che disse: «Ma che musica è? Chi sono? Cos’è questa meraviglia?». E Oscar a dire «Sono dei miei amici di Genova». Gli spiegammo del progetto su Antonella ma lui non volle sentire ragioni: «Voi dovete fare un gruppo». Chiaramente seguimmo il suo consiglio.

E il nome?
Lo decidemmo al volo. Matia Bazar è uscito fuori così, per magia. Provavamo tutti i giorni, eravamo sempre sul pezzo. Anche quando non suonavo e magari camminavo per strada, pensavo sempre a nuove melodie.

Era appunto la melodia ciò che vi contraddistingueva, qualcosa di molto diverso dal progressive dei Jet.
Siamo finiti a suonare progressive perché era la musica del momento, ci piaceva e io mi divertivo a fare il virtuoso con la chitarra, ma la nostra vera anima era melodica, pop. Specie la mia e quella di Cassano che eravamo i due melodisti, anche se non abbiamo mai composto insieme. Mi capitava magari di avere una canzone incompleta e lui metteva ciò che mancava. Poi tra noi c’era la regola che le canzoni le firmavamo tutti per evitare sperequazioni. Dentro un gruppo il culo se lo fanno tutti uguale, i chilometri sono tutti uguali. Abbiamo sempre diviso tutto.

Con voi c’era un altro reduce del prog: Giancarlo Golzi.
Sì, lui veniva dal Museo Rosenbach, anche loro famosissimi in Giappone. Ricordo che andammo a Bordighera a trovarlo perché sapevamo che sarebbe andato bene per noi. Quel giorno ne venivamo da Montecarlo, dove facevamo i jingle per la radio. La sede era in un edificio liberty, meraviglioso, gigantesco. All’ultimo piano c’era un salone enorme dove c’erano gli strumenti dei Jethro Tull che si erano esibiti alla radio.

Parlando con Giorgio Usai de la Nuova Idea…
Il baffone! Un caro amico.

Usai mi raccontava che loro facevano le prove per il tour con De André nella sala prove dei Matia Bazar.
Ti svelo un segreto: anch’io avrei dovuto far parte della band che accompagnava De André. Lui e il resto del gruppo venivano tutti i pomeriggi nella nostra sala. Lì ho conosciuto De André, una persona veramente fuori da qualsiasi immaginazione, un gran signore. Il progetto iniziale era quello di fare una data unica alla Bussola di Viareggio. Io ero sempre lì a saldare cavi perché tutto funzionasse bene, a un certo punto gli altri mi dissero: «Cosa stai sempre a saldare? Vieni a suonare con noi!».

Come eri finito a gestire quella sala?
Era un vecchio magazzino che avevo rilevato da una signora anziana. Ho tirato dentro tutti ed è diventata il nostro quartiere generale, ma spesso la affittavamo anche ad altri gruppi. In quel periodo al pomeriggio c’era De André e la sera noi.

Come è andato il tuo ingaggio nella sua band?
Non è andato (ride), nel senso che quando ho scoperto che c’era da fare un tour di due mesi, e non una data unica, mi sono tirato indietro. Gli ho detto: «Fabrizio scusami, se era una data la facevo senza problemi, però sai, noi abbiamo il nostro progetto su cui lavorare». In quel momento stava nascendo Stasera che sera, per dirti. Lui mi ha detto: «Tranquillo, è giusto che tu coltivi i tuoi sogni, poi voi siete bravi, avrete successo».

È stato preveggente.
Credo che Fabrizio mi volesse bene, lui era già molto noto ma io lo trattavo come una persona normale, con educazione ma senza troppa deferenza. È capitato a volte che magari mi fermassi nella sala fino a tarda sera, se lui vedeva la luce accesa suonava il campanello, diceva: «Ehi Bimbo, apri, sono Fabrizio!».

Come mai ti chiamavano Bimbo?
Perché ero il più giovane della combriccola. Già dal viaggio in Brasile, io a 14 anni circondato da 50-60enni.

Dimmi delle serate con Fabrizio.
Ce ne stavamo un paio d’ore a chiacchierare, fino alle 2 o alle 3 di notte. Quello era il periodo che si stava separando dalla moglie, quindi immagino non avesse voglia di rientrare presto, cercava di procrastinare e ogni scusa andava bene. In quelle serate lui mi faceva sentire dei suoi brani e io i nostri. E sai qualche canzone gli piaceva di più tra quelle che avevamo in cantiere?

Quale?
Mister mandarino.

Ma va?
Sì, la adorava. Era veramente una persona che sapeva stupirti sempre. Ogni volta che apriva bocca rimanevo incantato. Una volta ci siamo incontrati a Sanremo, erano tipo le 5 del mattino; c’era lui, noi, Gianni Minà e Mario Luzzatto Fegiz. Fabrizio era bello concio, pieno di alcol, però ogni volta che apriva bocca era un oracolo, quando parlava rimanevi affascinato, incantato. Per lui bere una bottiglia di whisky era come farsi un grappino, rimaneva lucidissimo, sempre.

Mi incuriosiva una cosa: nel vostro processo creativo Antonella semplicemente prestava la voce o partecipava in qualche modo?
In genere le facevamo sentire le canzoni complete e lei si “limitava” a cantare. Ma cazzo come cantava! La cosa pazzesca era che lei ascoltava una volta il brano e già lo sapeva a memoria, andava in studio e alla prima, massimo alla seconda take era perfetta. I nostri dischi sono nati tutti così.

A un certo punto cambiate le carte in tavola e rivestite la vostra musica di elettronica e new wave. Come accadde?
Sentivamo che c’era aria di cambiamento nel panorama musicale. Complice anche la rottura con Piero Cassano, che avrebbe voluto continuare su una strada artisticamente più rassicurante, abbiamo deciso di lanciarci, con grande timore da parte della casa discografica. Pensavano: «Questi han venduto milioni di dischi e magari adesso si mettono a fare delle cose che non piacciono alla gente»

Non è stato così.
Certo, già nel nostro primo disco di musica contaminata dall’elettronica c’è Fantasia, che tira ancora adesso come un carretto (ride). E poi l’album dopo, Tango, che è considerato dalla stampa specializzata uno dei 100 dischi più belli fatti in Italia. Questo mi riempie di gioia.

Un pezzo-simbolo tra i tanti vostri del quale mi piacerebbe mi raccontassi la storia: Vacanze romane.
La storia parte da lontano: la prima cellula melodica (il frammento che in futuro ospiterà le parole “Roma dove sei, eri con me”, nda) mi venne in mente nel 1970, poteva essere il mese di luglio o di agosto. Queste note hanno toccato qualcosa perché mi sono rimaste nel cervello per più di dieci anni. Un giorno eravamo ad Asiago, all’Hotel Cristallo. Io aspettavo che i ragazzi scendessero, c’era un pianoforte e mi sono messo a strimpellare. Magicamente sono venute di nuovo a galla quelle note. Forte, ho pensato ricordandomi che erano quelle di dieci anni prima. Da lì ho cominciato a lavorarci. In quel periodo collaboravo anche con Claudio Cecchetto per dei jingle per la radio che stava aprendo, Radio Deejay. Tra questi, ce n’era uno che aveva un altro frammento melodico della futura Vacanze romane (“Va, corre il cielo sulla città”, nda). Claudio l’ha sentita e a detto che era bellissima. Così ci ho lavorato ancora, fino al giorno in cui sono entrato in studio e l’ho fatta sentire ai ragazzi dei Matia. Ho visto cinque bellissimi sorrisi. Aldo Stellita, grandissimo, si è messo in un angolo e in mezz’ora ha scritto il testo. Questo accadeva alle 3 del pomeriggio, alle 20 il disco era finito, Antonella l’ha cantato alla prima. Intonatissima, perfetta. Fai conto che ce la siamo ascoltati ininterrottamente per tutta la notte, commossi, sapevamo di avere tirato fuori qualcosa di importante, di magico.

Se dovessi tirare le somme del tuo lavoro come ti definiresti?
Un autore di canzoni sincere, totalmente sincere, scritte col cuore, e di questo ne vado orgoglioso. Non ho mai scritto da mestierante, saprei come farlo ma non mi interessa, non sarei io.

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