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Ehi John Cale, come si dice zen in gallese?

Intervista al maestro: le regole della creatività, il nuovo ‘POPtical Illusion’, l’hip hop che lo ispira più della classica, le radici nel Galles, la lezione di Andy Warhol, il caratteraccio di Lou Reed

Foto press

Per sessant’anni e più John Cale ha fatto musica al confine dell’avanguardia. Prima di fondare i Velvet Underground con Lou Reed, a metà anni ’60 suonava bordoni con la viola per ore intere assieme al compositore minimalista La Monte Young. Coi Velvet, le sue fioriture di viola elettrica e il rifiuto della struttura tradizionale verso-ritornello hanno contribuito a dare al rock un tocco artistico.

Ha continuato i suoi esperimenti da solista combinando musica classica e rock in The Academy in Peril del 1972 e Paris 1919 del 1973. Negli anni ’80 s’è dato alla new wave con Honi Soit, ha scritto le canzoni di Music for a New Society del 1982 seguendo qualcosa di simile al method acting, ha musicato le poesie di Dylan Thomas in Words for the Dying del 1989, ha fuso hip hop e art rock in Shifty Adventures in Nookie Wood del 2012. Nel frattempo, lavorava anche come produttore artistico mettendo le mani su classici di Nico, Stooges, Nick Drake, Patti Smith, Modern Lovers.

A 82 anni, non ha perso la curiosità e la voglia di sperimentare. Lo dimostra il suo ultimo album POPtical Illusion scritto durante il lockdown, un periodo di isolamento che gli ha permesso di immergersi nella composizione e tradurre in musica le sue emozioni, dalla rabbia di I’m Angry all’omaggio alla famiglia della madre e al suo Paese natale Davies and Wales. Ci sono pure un pezzo punkeggiante (Shark Shark), uno che utilizza ritmi trap (Edge of Reason) e un altro che rimanda alla musica orientale (Laughing in My Sleep).

In questa intervista ripercorre la sua carriera e le scelte che gli hanno permesso di rimanere all’avanguardia.

Quali regole segui?
Non riesco a definirle, in parte perché le evito. Mi diverte osservare chi le scansa. Ecco, sono uno scansatore. Ma superati gli 80 anni, te ne dai per forza tante.

E le regole per scrivere canzoni?
Cerco sempre qualcosa di diverso, cose che magari alla fine non funzionano. Ma se trovi un giro di accordi che non funziona, è da lì che devi iniziare.

Calling You Out, da POPtical Illusion, mescola una melodia piacevole con bordoni dissonanti in sottofondo. Perché unire il bello col brutto?
L’ho sempre fatto. Trovo ancora difficile la stranezza della dodecafonia. Quando frequentavo il Goldsmiths College ho passato molto tempo a studiare Anton Webern, ma non mi ha mai soddisfatto quanto l’hip hop di adesso. L’anno che mi ci è voluto per mettere insieme quest’album ha rappresentato una bella lezione, sono rimasto a casa durante il lockdown e ho cercato di trovare qualcosa che non fosse ovvio.

Il lockdown ti ha cambiato?
Le canzoni che ho scritto in quel periodo erano più che altro degli sfoghi. Sono andato avanti, anche se non era quel che volevo fare, non avevo risposte a quel che stava accadendo nel mondo. La parte più soddisfacente della mia giornata è trovare un nuovo groove.

In Edge of Reason c’è un ritmo trap. In che modo l’hip hop ti soddisfa di più delle avanguardie, come hai detto prima?
Quando ero al liceo cercavo di ascoltare quanta più musica classica possibile, mentre ora sento quanto più hip hop possibile. Mi piace il calore di Dilla. E poi Earl Sweatshirt, Vince Staples, Tyler, the Creator. Ecco, loro sì che vanno forte.

Qual è l’avanguardia nella musica moderna?
Ho citato Dilla e Vince Staples, ma è sempre più difficile trovarla. Non è qualcosa che puoi prevedere.

I’m Angry è un pezzo un po’ più leggero. Come mai?
È che alla fine ci si arrende. Inizi con un’idea di canzone e finisci col fare tutt’altro. L’idea è metterci un po’ di aggressività, ma alla fine tornano dolcezza e leggerezza, mai troppe però.

Foto: Madeline McManus

Sei nato nel Galles. Dove esce il tuo lato gallese?
C’è una nuova canzone, Davies and Wales, che parla del fatto di essere cresciuto in un posto e di finire in un altro. Trasmette la sensazione di passare da una parte all’altra, cercando di trovare nuove angolazioni delle cose. Alla fine è nata una canzone con un atteggiamento divertente nei confronti della mia infanzia, di cose che all’epoca detestavo e che ora mi piacciono. Sono contento di essere riuscito a mettere tutto quanto dentro una canzone.

Cinquant’anni fa in Fear Is a Man’s Best Friend cantavi che “la vita e la morte sono solo cose che si fanno quando ci si annoia”. Ci credi davvero?
Pensavo che ad Andy Warhol sarebbe piaciuta quella frase.

In che modo lavorare con lui ti ha aiutato a vedere la creatività in modo diverso?
Andy aveva senso dell’umorismo ed era piacevole. Era divertente cercare di ottenere delle risposte da lui. Avevo domande su come fare questo o quello e le risposte che mi dava erano sempre sorprendenti. C’era una sorta di imbarazzo, ma allo stesso tempo era un piacere innocente.

Come ti ha aiutato Andy?
Gli chiesi aiuto per disegnare la copertina dei The Academy in Peril. Avevo una serie di foto, le ha prese e le ha appoggiate delicatamente su un foglio. Non le ha neanche lontanamente messe in ordine o sistemate in qualche maniera, eppure il risultato era affascinante. Una bella lezione sul non essere troppo rigidi.

Recentemente ho letto un libro della sorella di Edie Sedgwick, Alice Sedgwick Wohl. Lou Reed le ha detto che è stato Andy a insegnargli a essere gentile. Che ne pensi?
No, non la farai franca (ride). Voglio dire, tutti cerchiamo di farla franca. E io cerco di essere gentile.

Nel tuo libro di memorie What’s Welsh for Zen, Lou Reed è un tipo difficile. Come si collabora con uno fatto così?
Si approfitta di lui e si prende il più possibile dal lato positivo, ignorando il resto. Non lo devi sminuire, né rispondere a tono. La cosa migliore da fare è portare a termine il proprio lavoro. Se non avessimo fatto pace per l’album tributo a Warhol Songs for Drella non sarebbe successo nulla di tutto questo… Quindi diciamo che le cose belle succedono anche alle persone brutte. Non che io creda che Lou sia sempre stato cattivo…

Nel libro dai l’impressione che fosse sgradevole.
È una buona definizione.

Venivi dalla classica prima di trasferirti a New York e incontrare Lou. Quant’è stato importante il rock nella tua crescita?
Ricordo di essere andato al cinema a vedere Rock Around the Clock, l’ho trovato divertente. Era uno spasso offendere le anziane della valle. Poi però ho scoperto che a loro il film piaceva più che a me e quanto ridevano, ridacchiavano continuamente, che sorpresa. Vengo da una famiglia molto pragmatica: si poteva ascoltare il rock, ma non tenere la musica ad alto volume la domenica mattina mentre la gente andava in chiesa. Per tranquillizzare i tuoi sul tuo futuro fai vedere che stai studiando musica classica. Una volta apprese le tecniche e le pratiche della classica, passi all’avanguardia e improvvisamente ti rendi conto che suoni da sette, otto anni e che non sono bastati, che stai imparando più dal rock che dalla classica. Sei sopraffatto dalla storia.

Hai studiato con compositori come Iannis Xenakis e John Cage. Utilizzi ancora qualche loro insegnamento nella tua musica?
Non tirerei in ballo Xenakis, lui era un architetto. Ha costruito il Philips Pavilion e si è avvicinato alla musica per distruggerla dalle fondamenta. Stockhausen l’ha fatto a modo suo, Xenakis in un altro modo, ma Xenakis era… voglio dire, le lezioni che ho seguito a Tanglewood erano a dir poco austere. Spiegava ad esempio come al Philips Pavilion l’angolazione del tetto influiva sui glissando dei violini in Pithoprakta o in qualche altra sua composizione. Era una specie di «prendimi se ci riesci». Se vuoi la musica d’avanguardia, puoi trovarla, ma tanti auguri, è roba bella strana.

E John Cage?
Aveva un senso dell’umorismo tutto suo negli scritti e nelle composizioni, era uno spasso.

Quali consigli avresti voluto ricevere sul mondo della musica prima di entrarci?
Avevo un’idea piuttosto vaga di cosa fosse il mondo della musica, ma almeno ho avuto grandi maestri. Ho imparato molto quando ho lavorato per la Warner Bros, è stato un vero e proprio corso di specializzazione sul valore della creatività e su come svilupparla. Se lavori nell’A&R, devi saper coltvare e sviluppare le personalità degli artisti.

Hai lavorato con molti talenti, producendo gli album di Patti Smith, dei Modern Lovers, degli Stooges. Cos’è per te il genio musicale?
È la capacità di sorprendere. Non sapere cosa ti aspetta. James, Iggy Pop cioè, entrava in studio e si metteva lì a scrivere i testi, non è quel che ti aspettavi da un musicista rock’n’roll. Era serissimo, non voleva essere frainteso.

Quando ti sei trasferito a New York ti sei messo a suonare bordoni con La Monte Young. Cos’hai imparato da quell’esperienza?
Ha cambiato la mia percezione. Sai, dopo che suoni un bordone per 80 minuti, arrivi a un tale livello di rumore che cambia l’intero paesaggio musicale. È stato molto utile. Ha fatto tutta la differenza del mondo quando ho incontrato Lou e ho iniziato a suonare la viola elettrica. La parte migliore è stata fare The Black Angel’s Death Song e Venus in Furs. Quello è stato il mio contributo. Una volta che hai questi suoni, puoi farci un sacco di cose strane. Ma ci sono persone in tutto il mondo che lo fanno, non è che stessi facendo chissà che.

Credi che si debba soffrire per fare grande arte?
No. Ma non farmi sembrare superficiale, si va incontro a mille difficoltà. Quello che dico è: continuate a lavorare e a godetevela.

Da Rolling Stone US.

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