Quando ho sentito Elasi ho pensato: finalmente. Finalmente un’artista femminile italiana che, al primo ascolto, mi è sembrata credibile e divertente in un genere facilmente pacco come il pop elettronico. Elasi mi è spuntata su Instagram, in una pubblicità di un lubrificante di un noto store milanese, Wovo, mentre cantava il suo ultimo singolo, dal titolo esplicito Esplodigodi. Quell’energia contagiosa, quell’utilizzo della corporeità, quel fascinoso utilizzo dell’italiano: finalmente.
Incontro Elasi in un parchetto vicino Moscova, a Milano. Sta per piovigginare e il governo è in procinto di annunciare il nuovo DPCM, due prospettive che non piacciono mai ai musicisti che stanno per pubblicare un disco e preparandosi per suonare live. Campi Elasi, il primo lavoro di Elasi, esce oggi per l’etichetta indipendente Neverending Mina ed è uno schiaffo di buon umore colorato dal ritmo esaltante.
Mi sei apparsa dal nulla ed è stato amore a primo ascolto. Prima che il diluvio giunga a noi, ci racconti del tuo percorso fino a oggi? Da dove arriva Elasi?
Partiamo dall’inizio. I miei mi portarono a lezione di pianoforte perché da piccola continuavo ad inventare canzoncine o a far spettacolini in soggiorno. Pensa che da bimba, in età da passeggino intendo, quando le persone mi chiedevano il nome rispondevo Lorella Cuccarini o Raffaella Carrà. Questo ti dice molto di come sono cresciuta. In adolescenza ho studiato chitarra classica al conservatorio, ma ho poi sentito il bisogno di staccarmi da quell’approccio accademico: è qualcosa che difficilmente affascina e attira un bambino o un teenager, non trasuda passione. Così sono andata negli States, a Santa Monica, a fare un’esperienza in uno studio di registrazione. E mentre imparavo a produrre, facevo la dogsitter.
Il suono di Campi Elasi unisce pop ed elettronica in modo fresco, contemporaneo, senza confini. Probabilmente fino a qualche anno fa un lavoro del genere avrebbe avuto un imprinting decisamente più indie, magari verso Florence + The Machine. Qui invece è più facile vederci Dua Lipa. Come nasce il tuo suono e la tua musica?
Dua Lipa? Wow! Il mio suono nasce ascoltando, curiosando, smanettando. Togliendomi filtri e schemi su come scrivere una canzone. Dandomi tempo senza la ricerca forsennata della perfezione tecnica; così ho trovato la mia via. Mi piace quando la musica fa ballare e volevo fare un disco che facesse muovere. Era il mio desiderio.
In Campi Elasi ci sono collaboratori da varie parti del mondo. Come è nata quest’idea e come hai trovato questi musicisti?
Nel 2018 ho scritto un progetto per un bando. L’idea era di preparare un disco a distanza con musicisti sparsi per il mondo. Ho fatto quindi molta ricerca per trovare artisti specifici in determinate musiche o strumenti tradizionali. Ho iniziato a lavorarci a metà/fine 2018 e ho rivisto i brani fin dopo la quarantena di questa primavera. È stato un lungo processo di ricerca, di dialogo, di esecuzione. Un’avventura assurda. Molti di questi artisti nemmeno capivano l’inglese o la mia musica, troppo lontana dalle loro tradizioni. Nel disco hanno collaborato Zam, un griot cantastorie del Mali in Sentimentale anarchia, Kamod Raj, un cantante sufi indiano in Valanghe, Makhak Torosian, un suonatore armeno di duduk su Esplodigodi, Sulwyn Lok, un musicista singaporiano di Zhongruan, e Bela Couy, un gruppo di percussioniste brasiliane, in Voli pindarici.
Hai avuto dei riferimenti e delle ispirazioni precise? O una tecnica di scrittura particolare?
Durante la scrittura del disco ho ascoltato tanta musica dal mondo tipo il funk nigeriano, la bossa nova brasiliana, l’elettronica francese. Ho smontato le grandi hit contemporanee per studiarle, guardato tutorial su come riprodurre certi suoni. Su alcuni pezzi sono partita libero, cazzeggiando, altre volte invece ho cominciato da qualche suono assurdo o da un’idea ritmica o vocale particolare. La scrittura dipende da quanto ti senti libero in quel momento, da quanto sei disposto a giocare.
Quello che mi ha colpito è l’atmosfera positiva del disco. C’è una grande presa bene in un momento così depresso. Tutta questa energia è singolare. Ti colpisce, ti investe.
È vero, suona come un disco super up, ma è stato scritto quando ero molto in down. Questi brani nascono dopo grandi delusioni e per me hanno il sapore di rinascita. Ho chiamato questo disco Campi Elasi perché ho pensato che quando stavo male, per star meglio, mi mettevo a scrivere queste canzoni e suonavano felici. Scrivere mi ha aiutato a farmi star bene di nuovo. Alla fine ballare, muoverti, divertirti ti tira su. Quando sei triste devi toccare il fondo, non puoi circumnavigare il dolore. Il dolore ti parla e tu devi entrarci dentro: solo così scopri un nuovo pezzettino di te. Non c’è antidoto al dolore, se non affrontandolo.
Nei tuoi video e nel tuo approccio sonoro c’è una corporeità molto evidente e presente. E dopo l’aneddoto su Cuccarini e Carrà forse ho capito da dove arriva. Per te, quanto è importante il corpo nella musica? Non pensi che la performance sia qualcosa di estremamente sottovalutata nel pop italiano?
Mi piace quando la musica si mischia ad altre forme d’espressione come le arti visive e performative. La musica è movimento, quindi non può non esserci un movimento del corpo a seguire, anche semplicemente casuale. Perché i big italiani, con quei budget assurdi, non portano ballerini sul palco? Probabilmente non è nella nostra cultura, ma la performance è imprescindibile. Bisogna fare lo show. Per me è colpa di come ci viene insegnata la musica da piccoli. Io mi sono resa conto, guardando indietro a quei tempi, che non ci capivo nulla di quegli insegnamenti tecnici. La musica è molto più semplice: è voce e corpo. Pensa se insegnassero il konnakol indiano, che è solo voce: sapremmo intonare le note, suonare uno strumento a fiato, andare a ritmo, avendo l’orecchio per suonare gli strumenti a corda. La musica è ritmo, voce, movimento, corpo. Però ai nostri bambini insegniamo solo teoria! È per questo che non imparano, c’è bisogno di rivoluzionare la didattica musicale nelle scuole. È anacronistica.