Per la copertina dell’ottavo album Giants of All Sizes, gli Elbow hanno scelto la foto di una piscina in Cina affollata all’inverosimile di persone, gonfiabili di plastica, gesti e volti, una massa di umanità affannata che ricopre tutto, rendendo tutto indistinguibile. Un’immagine inquietante, surreale, claustrofobica ma allo stesso tempo colorata, sublime, in qualche modo consolatoria, come la musica degli Elbow. «Volevo una foto che contenesse il maggior numero di persone possibile, per rappresentare tante emozioni e forme di interazione», dice Guy Garvey, il gigante colto e gentile degli Elbow nel backstage della prima data del tour di Giants of All Sizes.
Gli Elbow hanno scelto Milano (le altre date sono in Germania e Danimarca) prima di partire per quattro concerti in California e chiudere in Inghilterra nella primavera del 2020 con due date sold out nella loro città, Manchester. Il bassista Pete Turner si ricorda di ogni singolo posto in cui hanno suonato nel corso della carriera: «Siamo stati in questo stesso locale nel 2003, eravamo la band di spalla dei Blur nel tour di Think Tank». Erano al secondo album, Cast of Thousands, con quel finale sublime di Grace Under Pressure registrato dal vivo a Glastonbury e cantato dalla folla durante il loro set del 2002, l’inizio di una connessione emotiva con il pubblico che li ha portati fino al ritornello malinconico e sospeso di Magnificent (She Says) dal loro settimo album del 2017 Little Fictions, una sequenza di dischi senza generi definiti e senza neanche l’ombra di una hit che in Inghilterra sono considerati una specie di tesoro nazionale.
Oggi, con Giants of All Sizes che per la terza volta consecutiva li ha portati al numero uno nella Uk Album Chart (dopo Little Fictions e Take Off and Landing of Everything del 2014), per gli Elbow il successo di critica e di pubblico significa solo avere la libertà di scegliere dove andare a scrivere e registrare le canzoni, prima di finire gli album riempiendoli di chitarre, svolte melodiche inaspettate e layer di pop elettronico distorto nel loro studio casalingo Blueprint di Salford, periferia di Manchester. «Gli album precedenti sono nati in mezzo alla natura nella campagna in Scozia o in Francia. Per Giants of All Sizes volevamo provare un’atmosfera urbana, oscura e industriale e abbiamo scelto Amburgo» spiega Guy Garvey «Ha tirato fuori il nostro lato più pesante, più rock. Stavo scrivendo canzoni profonde, rabbiose e avevo bisogno di trovare la giusta ambientazione per un album che ha un grande cuore, anche se è ferito».
Giants of All Sizes è un esercizio di trascendenza ed empatia in musica. Negli ultimi due anni gli Elbow si sono trovati ad affrontare quelle che Guy chiama «Una serie di tragedie personali e nazionali». Prima la scomparsa improvvisa di due amici della scena musicale di Manchester, tra cui Jan Oldenburg proprietario del Night & Day Cafè nella zona di Market Street in cui gli Elbow hanno iniziato a suonare quando non c’era ancora il palco (un locale storico in cui hanno suonato agli esordi anche Kasabian, Arctic Monkeys e Manic Street Preachers), poi quella del padre di Guy. In mezzo c’è stata la Brexit, la tragedia della Grenfell Tower, la sensazione di divisione e indifferenza che attraversa la società contemporanea. Ad ognuno di questi temi Garvey ha dedicato una canzone: Dexter & Sinister parla della frattura sociale tra Leave e Remain, Weightless, come dice Garvey sul palco «è una canzone su mio padre che ho scritto per mio figlio», White Noise White Heat è uno sfogo di rabbia collettiva per l’incendio della Grenfell Tower, «un evento che ha dimostrato che in un Paese come l’Inghilterra le persone possono morire bruciate perché sono povere», ha dichiarato senza troppi giri di parole Garvey ai media.
Poi c’è la sua sensibilità di osservatore, il suo tocco lirico nel descrivere il quotidiano in pezzi come Trouble e On Deronda Road (cronaca di un viaggio in autobus a sud di Londra con suo figlio Jack, avuto nel 2017 dalla moglie, l’attrice Rachel Stirling) in cui la ricerca della bellezza nei rapporti umani sembra l’unica via di uscita da quell’affollamento emotivo rappresentato dalla copertina dell’album e il racconto ricco di umanità di un fatto di cronaca del brano forse più ispirato, The Delayed 3:15.
Guy era in treno da Manchester a Londra quando un uomo si è buttato sotto ai binari: “Ho provato a trovare il tuo nome / Ma non sei finito sui giornali”, scrive Garvey in una strofa commovente. Eppure, anche in un disco così intimo, per gli Elbow c’è una linea da non oltrepassare: «Avevamo altri tre pezzi ma abbiamo deciso di toglierli perché erano troppo tristi» dice Garvey. «Fare questo disco in mezzo a tante vicende drammatiche è stato divertente. È il nostro modo: non ci prendiamo troppo sul serio, mettiamo la testa nel lavoro ma facciamo in modo che sia piacevole per tutti». La musica degli Elbow è trascendenza, non disperazione. «Non ci muoviamo mai oltre il precipizio della tristezza. Fa parte della natura umana essere tristi per quello che succede agli altri, è bello sapere che come specie ne siamo capaci ma penso che ci debba sempre essere una salvezza».
Nella musica degli Elbow non c’è quasi niente di puramente melodico o pop a cui attaccarsi, ma c’è l’ironia e la voce teatrale e delicata del gigante Garvey e l’idea di fare musica per raccontare se stessi e condividere. «Ho sempre ammirato il talento degli scrittori nel riuscire a spezzarti il cuore nello spazio di due parole», dice Garvey. «Comporre canzoni vuole dire interagire con le emozioni delle persone usando tutti gli strumenti a disposizione. È una cosa che ci viene naturale, fa parte della nostra personalità. Quando fai musica ti occupi di cose intangibili, ed è necessario che ogni cosa sia al posto giusto».