Da qualche tempo, pare ci sia una cosa che sta girando parecchio tra quelli, divisi tra artisti, producer, manager e generici addetti ai lavori, che popolano la scena rap italiana. Se la passano di mano in mano, accompagnato da giudizi entusiasti e «vedrai che ti cambia la vita». Ma abbandonate le malizie, perché la cosa in questione è un libro. Nello specifico L’atto creativo: un modo di essere del produttore discografico Rick Rubin, pubblicato nel 2023 in decine di lingue e che oggi sembra diventato un riferimento assoluto particolarmente prezioso in un momento nel quale di salute mentale applicata ad una carriera artistica si sta parlando molto. L’autore, d’altronde, poco dopo l’uscita del saggio ha detto d’aver inizialmente «deciso di scrivere un libro su cosa fare per realizzare una grande opera d’arte. Invece, si è rivelato essere un libro su come essere».
Anche Ele A, classe 2002 (ma per noi anche Classe 2024) con un’attitudine al rap in grado di far risorgere i fasti dell’old school anni ’90, s’è affidata durante la scrittura del nuovo EP Acqua al Rubin-pensiero. Nata a Lugano, ma cresciuta in una porzione più piccola della cittadina svizzera che è il quartiere di Besso, Ele A è una che non segue il sentiero luminoso tracciato dall’industria musicale per attirare e rassicurare chi fa oggi il rap e la trap. Non è interessata alle mode passeggere, non è ossessionata dal pensiero di ottenere il migliore contratto discografico possibile, rimanendo così una creatura un po’ diffidente verso tutto ciò che ha a che fare con il mercato e non con il processo creativo.
Non a caso di lei Neffa (che Ele ha «scoperto tardi, a 14 anni, quando già facevo le mie cose ed è stato assurdo vedere quanto, senza conoscerlo, mi fosse affine musicalmente») ha detto che ha riportato il marxismo nel rap. Perché il rap è un genere rivoluzionario, non reazionario. «Il reazionario dice “dammi i soldi”, il rivoluzionario dice “dammi una domanda”. E Ele vuole domande». E in effetti in Acqua – che palleggia tra hip hop anni ’90 e la ritmica del boom bap con infiltrazioni di elementi della drum and bass e della 2step inglese, ma anche di G-funk e sonorità detroit/electro – non ci sono i cliché del rap. Non c’è l’ossessione per il lusso, per i brand, non c’è l’egomania, e non ci sono quasi mai nemmeno i soldi, se non quelli spesi in psicoanalisi nella traccia di apertura Ko, o quelli di Oblò dove canta, sul suo luogo di nascita, “io non mi lamento / vengo dal paradiso / fiscale”.
Quello che c’è è molta autoanalisi, un po’ di cinismo (“se finisco in coma chissà quanto vendo”), il senso di impotenza che si prova nel vedere una persona vicina autodistruggersi del primo singolo Dafalgan, dove canta “se per darti del sollievo, io mi sto dissolvendo come un effervescente nel bicchiere”, ma anche la rivalsa rispetto alla “noia a cui sarei potuta essere condannata, essendo cresciuta in un posto fatto per ricchi ed anziani”.
Acqua è un disco con tematiche più scure che luminose: lo hai scritto in una fase della tua vita particolarmente complessa?
In realtà no, sto bene. Anche grazie alla filosofia di Rick Rubin. Lui dice che gli artisti, per costruire una carriera in modo sano, soprattutto a livello di benessere mentale, non devono attaccarsi troppo ai progetti; è un pensiero che ho interiorizzato profondamente. Chiaro, non è facile da applicare, perché i nostri lavori sono delle nostre estensioni e, chi più chi meno, noi musicisti siamo tutti iper sensibili ai giudizi. Se qualcuno mi dice «questa song fa cagare», e lì dentro c’è tutto il mio cuore, fa male come una pugnalata. Però sto pian piano imparando, e sono davvero felice di questa cosa di distaccarmi dal risultato. Perché non dipende da me. Io ho fatto il meglio che potevo, e adesso che andrà in pasto al pubblico non posso controllare le reazioni. Se andrà male, pazienza, avrò sbagliato un EP, avrò tempo per farne un altro.
Come sei finita a leggere Rubin?
L’anno scorso ero impegnata in un sacco di session, e tutti quelli con cui mi sono trovata a collaborare m’hanno consigliato L’atto creativo: un modo di essere, ma io, purtroppo, non leggo mai. La lettura non ha un ruolo nelle mie giornate, penso sia colpa dei telefoni che ci fanno ammazzare la noia e ci riempiono il tempo che prima uno riusciva a dedicare alla lettura di un libro. Però lì mi sono detta che se tutti, comprese persone che stimo tantissimo, me lo stavano consigliando, dicendomi che ha cambiato la prospettiva con la quale guardano al loro percorso artistico, allora era il caso di provaci. E in effetti ha funzionato, perché Rubin riesce a portarti fuori dalle logiche di mercato che inquinano l’arte, per quanto siano necessarie, ed è riuscito a darmi una prospettiva più distaccata e quindi più serena. E anche se ce lo stiamo passando tra noi che facciamo musica, lo consiglio anche a chi scrive, a chi fa cinema, ma in generale a chiunque faccia un lavoro dove il riscontro è o sembra essere lo scopo ultimo di tutto.
Da un titolo più largo come Globo sei passata a un elemento, Acqua: perché proprio l’acqua?
Era un concetto che mi rigirava in testa da tempo. Essendo nata dove c’è un lago, quello dell’acqua è sempre stato inconsciamente un elemento presente nella mia testa. E poi è un elemento che sono riuscita a inserire in ogni brano, perché l’acqua, in forme diverse, è presente in ogni traccia. A me piace molto partire da un pensiero e poi costruirci attorno il disco. Su questo ho avuto anche un confronto con il mio manager Andrea, che mi ha parlato di Bauman e della società liquida, che poi sono andata ad approfondire, e anche quella è stata una lettura interessante. Oggi la società è totalmente liquida, e mi piace pensare che Acqua si inserisca in questo scenario moderno.
Ho recuperato una tua chiacchierata con Neffa di un anno fa, durante la quale vi siete trovati d’accordo sul fatto che le parole siano secondarie rispetto alla musica: mi spieghi meglio questo pensiero?
Quello che amo alla follia della musica è che riesce a spiegare delle cose senza dire niente, e soprattutto a raccontare cose che a parole sarebbe impossibile descrivere. Provo a farti un esempio: nella tua canzone preferita c’è di sicuro quel preciso momento in cui la melodia si fonde con le note, con la voce, e viene fuori una sensazione che non riesci a trovare da nessun’altra parte. Quindi, per me è quello il potere della musica, che è più potente di quello delle parole. Io ho ‘sto brano, che è il mio preferito, che è in giapponese, del quale non capisco niente, non so neanche come si chiama, perché ovviamente il titolo è in giapponese, lingua che non conosco affatto, e magari chi lo canta dice robe orribili, ma la musica mi prende talmente tanto che non avrebbe comunque importanza il senso del testo. Forse fa ridere, detto da una che fa hip hop e che dà un peso molto, molto importante a ogni parola che sceglie di usare, però se dovessi scegliere tra musica e parole, sceglierei la prima.
In effetti è strano, perché sei una che cura tantissimo la scrittura. I tuoi pezzi vanno riascoltati più volte per riuscire a cogliere tutto, citazioni comprese. Questo tuo stile che cosa comporta in termini pratici? Sei una da tempi lunghissimi o fai tutto velocemente?
Vado molto a mood. Sia da ascoltatrice, con le mie playlist catalogate tra “presa bene” e “presa male”, perché se sono felice non riesco ad ascoltare una canzone triste e se sono in mega depressione ascoltare un pezzo up mi fa venire la nausea, così da musicista mi devo adeguare agli stati d’animo per poter buttar giù dei testi. Questo è il mio limite più grande. Anche quando lavoro con Disse, che è il mio produttore da sempre, dal giorno zero, capita che se si deve fare una sessione in studio, ma io non ho la stessa vibe della traccia, mi devo fermare. Quando invece i pianeti si allineano e c’è quella scintilla lì che fa combaciare tutto, vado molto veloce, in un quarto d’ora il pezzo c’è. La roba che mi porta via più tempo sono i ritornelli, perché di solito io canto la topline improvvisata al microfono, e poi costruisco intorno il testo. Ma dato che sono così legata al significato che deve avere una mia canzone, a differenza di un cantante pop che può dire sole-cuore-amore e farà comunque una hit, io voglio che anche il ritornello abbia un senso, un peso. Solo così per me una canzone funziona.
Ti eri presa una pausa dai social, mentre oggi li hai riattivati e in termini puramente numerici sei cresciuta tantissimo: c’è qualcosa che ti spaventa della tua nuova popolarità?
Sì e no. Come dice Marra: è come mettere un bicchiere di cristallo sopra una formica. Cioè, evidenzia i difetti, e se uno già ha delle fragilità non è semplicissimo gestire chi ti vuole pugnalare con una frase scritta sotto a un post. Bisogna essere consapevoli di questa roba. Però non me la sto gestendo male, anche perché i numeri sui social non li sento, sono una roba piatta, non mi arriva. Certo, sono molto felice perché mi sembra ieri che avevo 12 like sotto a un post, ma non percepisco il pubblico da Instagram perché lì non riesco a sentire il calore, e credo sarebbe così anche se avessi un milione di follower. Ecco, invece ieri, che ho fatto lo showcase e sono venute un po’ di persone, alcune delle quali m’hanno detto di essere arrivate da Cagliari per ascoltarmi, allora penso che cazzo, sì, c’è davvero qualcuno che mi ascolta, e le cose stanno davvero andando bene.
Ci sono tanti segnali, in effetti, che le cose stiano andando bene. C’è, per esempio, anche Mace che ti ha voluta in Māyā per Mentre il mondo esplode. Com’è andata tra di voi?
Quando ci siamo iniziati a sentire ero davvero incredula, perché OBE è stato il disco che ho ascoltato di più l’anno in cui è uscito, lo ritengo un capolavoro con dentro dei dettagli pazzeschi, fuori di testa. Poi o visto su YouTube una performance di Mace vicino a piazza del Duomo e mi ha folgorata. Da lì ho recuperato qualunque cosa abbia fatto e quindi quando mi ha cercata è stato incredibile. Così com’è stato incredibile lavorarci assieme, perché anche se non abbiamo fatto chissà quante session, è riuscito comunque a insegnarmi tanto. Simone è decisissimo su quello che vuole e fa qualsiasi cosa per ottenerlo. Cura i dettagli in maniera assurda, con un focus che è rarissimo trovare, e poi la cosa bella è che finché non è totalmente soddisfatto, non si arrende. Io la mia strofa ho dovuto rifarla parecchie volte, e per fortuna, perché nemmeno a me convinceva. E lui mi ripeteva: secondo me puoi fare di più, puoi fare meglio. E alla fine ci siamo arrivati in fondo entrambi molto soddisfatti. Mace ha annientato la mia parte più pigra, quella che si accontenta e dice «okay, ho fatto questa cosa, a posto così». Lui vuole l’eccellenza e spero di essermi portata a casa un pezzetto di questa ambizione.
In Acqua c’è un solo feat con Nerissima Serpe: cosa ti piace di lui?
Mi piace tantissimo lui, in generale. Il suo disco, Identità, me lo sarò ascoltato un centinaio di volte, è uno dei miei preferiti. Ha un immaginario super solido, molto stiloso, molto preciso. Quando mi sono bloccata con Oceano, il pezzo in cui c’è lui, perché non mi piaceva la mia strofa, Disse e il mio manager mi hanno suggerito di pensare di chiedere a qualcuno di entrare nel brano, e io ho pensato subito a lui. Sentivo che poteva starci molto bene, anche se Oceano è una roba completamente diversa da quella che fa di solito. Ma a me piace tantissimo quando un artista che fa roba più cattiva, che fa rap peso, si presta a stare su una traccia più conscious. Non è scontato accettare di fare un passaggio del genere, soprattutto ora che nel rap è tanto tornata l’autocelebrazione. Il fatto di riuscire a mostrarsi più sensibili è un dono.
Prima raccontavi delle tue origini svizzere, lagunari. So che il paesino in cui hai abitato è un posto molto piccolo. Nascere e crescere lì che cosa pensi ti abbia dato come artista?
Come dico sempre, io ringrazio la noia. La noia è una motrice importantissima perché quando ti annoi nella tua realtà, ne crei un’altra, ti vengono delle idee, ti dà fame di evadere da lì, e credo che avere meno input ti possa regalare paradossalmente più ispirazione. E poi un posto del genere ti permette di non dare per scontate determinate cose. Se nasci in una metropoli, ti sembrerà normale cominciare a esibirti nei locali, fare i primi concerti, fare la gavetta, mentre per me era inconcepibile, perché non c’era nulla, nemmeno un supermercato. Nulla, davvero nulla.
E in questo scenario dove non c’era nulla, chi ti ha supportata fin dall’inizio?
Mio fratello, che è quattro anni più piccolo di me, mi ha sempre supportata. Poi i miei amici, anzi credo che se loro non mi avessero supportata non avrei mai iniziato a fare musica perché sono sempre stata intimorita dal giudizio altrui. Disse è sempre stato un riferimento assoluto e ha sempre creduto nel progetto ed è una cosa di cui gli sarò grata per sempre, così come a Samuel Mersi, il mio videomaker. E il mio manager Andrea, che mi ha presa quando avevo solo un freestyle su Instagram, e mi ha fatta suonare al Mi Ami quando avevo un repertorio di massimo 10 minuti.
Un bel gruppo di gente.
Sì, mi sento molto fortunata.
E con i colleghi come va? Hai degli amici? Patisci la competizione?
No, la competizione non è la mia cosa, ma quando ascolto un pezzo che mi piace mi parte il «madonna che hit, vorrei saper scrivere così, vorrei superare quella persona nella scrittura». Però la gara no, non la sento, non ci penso.
E quand’è stata l’ultima volta che hai pensato: madonna che hit, avrei voluto scriverla io?
Col disco di Kid Yugi. Non dico niente di nuovo, ma lui ha un modo di scrivere complesso e semplice allo stesso tempo che è pazzesco. Un talento molto raro. Poi mi piace come scrive Madame. E aspetto il nuovo progetto di Izi, che amo molto.
Sono uscite le date del tour, ci sono già dei sold out: come sarà questo live?
Non sarà ancora con la band, ma è qualcosa a cui ambisco, avendo una formazione da musicista classica con un bel po’ di anni di violoncello alle spalle. Però per costruire quel tipo di live sento di avere bisogno di più tempo. Nel momento in cui ci sarà la band avrò bisogno di creare arrangiamenti che siano affini al progetto, che non vadano a snaturare le produzioni che per me sono fondamentali. Ci lavorerò in futuro, perché amo l’idea degli strumenti sul palco. Per questa volta saremo io e Disse, che mi fa anche da dj, e per la prima volta davanti a un pubblico tutto mio, e non in apertura a qualcuno. Come dicevo, i concerti sono l’unico mezzo, a differenza dei social e di uno schermo piatto, per avere una reazione tridimensionale alla mia musica. Sono sempre molto autocritica, ho pensieri tipo «ok, questa persona mi sta cantando tutta la canzone davanti, ma se la sarà appena imparata», ma stavolta spero di lasciarli a casa. E di riuscire ad essere più liquida.