Periferia nord-est milanese, inizi di settembre. Precisamente 30 anni fa mi presentavo per il mio primo giorno di scuola davanti a un edificio grigiastro, che dista non più di 200 metri dal luogo in cui mi trovo oggi. Sono allo studio Hukapan di Elio e le Storie Tese, storica band tra le poche glorie rimasta della mia città. Da poco hanno pubblicato un nuovo singolo e si intitola proprio così: Il primo giorno di scuola.
Il testo racconta quella sensazione di abbandono, illusioni perdute, disagio fisico e rimescolamento generale che accompagna il bambino al suo ingresso nella scuola dell’obbligo. Non ho bisogno di sforzarmi per ricordare che è stato così anche per me, e forse non è mai passato del tutto: come canta Elio, “Maledetto primo giorno di scuola / la mia vita per sempre sarà / segnata da te”. La palazzina sembra una stazione ferroviaria di provincia, di quelle che l’alta velocità ha spazzato via. Entro. Cesareo, Faso ed Elio arrivano nel giro di qualche minuto, puntuali. Rocco Tanica ha un impegno, non può essere qui. Dopo una veloce premessa, in cui liquidiamo come sciocchezze le recenti voci sullo scioglimento della band, decidiamo di parlare soltanto di musica. Distribuisco il penultimo numero di Rolling, con il cantante dei Kolors in copertina. È l’occasione per parlare di quanto sia difficile cercare di fare sempre cose nuove, senza scontentare nessuno.
Parliamo del nuovo singolo, Il primo giorno di scuola. Sembra molto classico, quasi lineare rispetto ai vostri standard.
Elio: Infatti i nostri fan duri e puri non l’hanno accolto benissimo. Musicalmente è più classico del solito. È una cosa che non abbiamo mai fatto prima, e adesso ci vogliamo togliere degli sfizi. (Pronunciato alla napoletana).
Faso: È un rock finto-semplice.
Elio: Abbiamo usato pochi strumenti. Fino a oggi, abbiamo sempre inciso canzoni che avevano 2mila tracce, aggiungendo un sacco di cose che piacevano a me, a lui e così via, e quindi non si potevano più togliere. Si è sempre cercato di far convivere le esigenze di tutti, con il risultato di canzoni molto ricche – ripiene, quasi – che poi si sono trasformate nel nostro stile. Che però noi siamo liberi di abbandonare quando vogliamo!
Cesareo: La nuova vita di Eelst sarà il power trio, vista la crisi musicale noi andremo in giro sempre meno, probabilmente Elio andrà al basso…
Faso: Io alla batteria eccetera, così risparmiamo un sacco di soldi… (Ridono).
Elio: Erano molti anni che volevo fare una canzone del genere, così scarna. Se vogliamo fare un discorso più ampio, io ammiro tantissimo gli artisti che nella storia hanno tolto, invece che aggiungere – per esempio Kurt Weill…
Kurt Vile?! Lo abbiamo intervistato proprio l’altro giorno, per il suo nuovo disco…
Elio: Avete intervistato Kurt Weill? Ma è morto nel 1950…
Faso: A Rolling avete degli agganci incredibili!
Elio:È quello che ha scritto le musiche per L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht.
Faso: Siete dei medium.
Ah, ok, quel Weill. Sapete, c’è anche un cantautore indie americano, si pronuncia allo stesso modo… (Cerco di tramutare il passo falso in gap generazionale, e dissimulo sangue freddo).
Elio:Weill ha scritto dei capolavori, tra cui La ballata di Mackie Messer. Ma se vai a leggere la sua musica, tutto è sempre composto di tre sole parti. Poi, all’ascolto sembra tutto molto più ricco, ma solo perché è scritto così bene. Ammiro molto quelli che riescono a creare belle cose usando pochi ingredienti.
Faso: Un altro esempio sono i Police. Pochi strumenti, di un’efficacia strepitosa. Ma anche i Led Zeppelin… venendo qui mi sono riascoltato Black Dog, e porca vacca! È un pezzo atomico! Solo basso, batteria e chitarra. Vabbè, più uno che canta come un pazzo. È chiaro che chi è abituato al nostro solito pacchettone sonoro tipo saint honoré si trova un po’ spiazzato. Per un tema come il primo giorno di scuola volevamo un pezzo rockettone, che piace un sacco ai giovani.
Cesareo: Abbiamo scelto la semplicità anche per aiutare le nostre cover band, che fanno fatica perché le nostre canzoni sono troppo complicate…
Probabilmente una delle poche cose che potevate ancora fare, dal punto di vista musicale, è decostruire.
Elio: Questo genere di canzoni ci piace anche in prospettiva live. Durante i nostri show manca un momento in cui possiamo suonare roba potente. E vedo che anche il pubblico ha un altro tipo di approccio: quando facciamo i nostri classiconi, ascolta, ride; ma con i pezzi rock che risalgono all’inizio della nostra carriera, balla e si agita. A me piace quando c’è gente che si muove.
Questa volta, però, lo avete fatto in un modo molto sottile: il tema della canzone è un altro vostro classico, simile a quello di Tapparella: il bambino e le sue difficoltà.
Cesareo: Abbiamo sempre parlato di quello che succede intorno a noi, dei momenti di vita “normale”… così come fa il nostro amico e collega Max Pezzali. Da questo punto di vista non è un cambiamento radicale.
Insieme alla ristampa dei vostri primi tre album sembra proprio un ritorno alle origini.
Elio:Esatto, perché i nostri primi erano così. Parlo degli anni ’79-’80-’81. Facevamo questo tipo di musica, anche se ovviamente eravamo molto meno bravi. Oggi abbiamo trent’anni di esperienza.
Cesareo: Che si sentono nelle mani.
Elio: E nella voce. Io devo dire che sono piuttosto esaltato da questa nuova strada… forse non dovrei essere io a dirlo, ma a me piace. (Ride).
Cesareo: L’accoglienza di questo brano è stata strana, i commenti del primo giorno sono stati entusiasti, mentre lo zoccolo duro dei nostri fan è stato a vedere cosa succedeva. Poi c’è stato l’attacco. Ho letto le critiche, vengono da gente che ci segue da sempre e ci adora. Si sentono quasi traditi. Io sinceramente fatico a capire.
Elio: Devono farsene una ragione.
Faso: Abbiamo preso uno dei temi che ci stanno a cuore, quelli di cui non parla nessuno, tipo arrivare a scuola il primo giorno e scoprire durante l’appello che devi passare cinque anni con persone che non ti piacciono, come in una specie di thriller. I fan più affezionati agli Eelst antichi dicono che non siamo più gli stessi? E meno male, dico io!
Elio: Per tornare al discorso di prima, anche i dvd, quindi, sono un vero e proprio ritorno alle origini.
Faso e Cesareo: Ma proprio origini-origini! (In coro).
Elio: E non a caso accompagnano la ristampa dei primi tre album, che abbiamo rimasterizzato, riascoltato, rivissuto. Quegli anni sono stati un’esplosione di creatività. Eravamo pieni non soltanto di energia, ma anche di tempo – e di quanto questo sia importante me ne rendo conto ora: quando non hai moglie e figli, come invece abbiamo noi adesso, hai a disposizione 24 ore al giorno per pensare e fare quello che ti piace. Per questo motivo c’era un sacco di materiale in più rispetto a quello che poi è uscito sui dischi. Poi abbiamo riallacciato i rapporti con il nostro produttore dell’epoca, Claudio Dentes, in arte Otar Bolivecic, con il quale non abbiamo lavorato più per tanti anni. Per noi è una cosa bellissima, è come scrivere a posteriori un diario di quegli anni. Ci sono dentro cose di cui c’eravamo dimenticati e cose che non avevamo mai visto.
chi è abituato al nostro solito pacchettone sonoro tipo saint honoré si trova un po’ spiazzato
Come i video sulla famosa 12ore del Guinness. (In cui gli Eelst hanno suonato sul palco del Teatro dell’Elfo a Milano, nel 1990, in una storica esibizione non stop che continuava anche mentre la band mangiava una pastasciutta).
Faso: In quell’epoca pre-YouTube e pre-social c’era ancora la possibilità di sperimentare dal vivo canzoni appena composte, come Servi della gleba e El Pube, sul palco dello Zelig a Milano. Adesso è impossibile. Se tu hai l’abbozzo di un brano e decidi di provarlo in pubblico, la sera stessa è online, e quindi diventa la versione ufficiale del pezzo. Oggi, quando suoni una canzone live, devi essere sicuro che quella canzone ti piaccia un casino. È veramente terribile.
Oggi è ancora possibile fare una gavetta come la vostra, durata dieci anni prima di pubblicare un disco? Io dico di no.
Cesareo: Noi siamo arrivati a fare il primo disco con delle canzoni perfette, perché le abbiamo testate per anni.
Faso: Noi suonavamo alle Scimmie, al Magia, al Tangram, al Riverside. Quando siamo andati al circolo Fratellanza e pace di Legnano è stato come andare all’estero.
Cesareo: Il top è stato Borgomanero.
Faso: Erano anni di auto cariche di amplificatori, sound check interminabili – perché ci tenevamo a farli bene, in un mondo in cui ancora adesso la gente arriva mezz’ora prima e ok, va tutto bene. Noi arrivavamo alle 4 e mezza del pomeriggio.
Elio: Oggi è più difficile fare una carriera del genere, ma il punto è avere l’intelligenza di farlo. Oggi tutto sembra a portata di mano. Scrivi una canzone e la pubblichi online e credi che il più sia fatto. Ma non funziona così. Suonare dal vivo è l’unico modo per imparare cose che non ti insegna nessuna scuola. È come il momento in cui ti buttano in acqua e devi nuotare. Lì capisci se ci sei o non ci sei. Ricorderò per tutta la vita il giorno in cui per la prima volta sono andato a chiedere se potevamo salire su un palco a suonare. Prima di farlo ci ho pensato per giorni. È una scelta di vita. Oggi forse è meno chiaro nella testa di un giovane questo bisogno di fare un percorso, prima di arrivare a raccontare qualcosa. Significa anche fatica fisica: scaricare gli strumenti, fare un viaggio, montare il palco…
Cesareo: Oggi poi manca il coraggio di essere innovativi. Se togli noi, quali sono i nostri eredi? Non ce ne sono.
Elio: Loro, i Kolors… (indica la cover di “Rolling”)… Loro non sono male. Li avevamo visti prima che esplodessero, e avevamo pensato che erano bravi. È gente che ha usato il talent come una scorciatoia, come dico spesso io. Ma solo dopo che si è fatta il culo.
Se all’epoca ci fosse stata una scorciatoia come Amici o X-Factor, voi ci sareste andati?
Elio: Dubito davvero che ci avrebbero preso.
Ci sarebbe stato il problema delle parolacce in tv.
Elio: Quello sì. E poi facevamo un genere così strano… L’importanza di Claudio Dentes è stata proprio quella di credere in noi fin dall’inizio, produrre il disco a proprie spese e andare a venderlo porta a porta nelle case discografiche. Che gli hanno tutte chiuso la porta in faccia: tranne una, che l’ha quasi chiusa, e così alla fine è riuscito a fare il disco.
Cesareo: Se un artista ha dietro di sé la gavetta si vede, anche in un talent. Mengoni è uno di quelli. Non è soltanto uno che canta bene sotto la doccia ed è carino. Ha fatto tanta gavetta e infatti, uscito da X-Factor, ha avuto una carriera. Quella è la vera prova del fuoco, quando devi essere credibile davanti a un pubblico che paga per sentirti cantare. X-Factor ha già il suo pubblico autogasato. E tanti infatti si sono fermati lì.
Elio: In Italia l’artista emergente deve preoccuparsi di tutto: trovare il manager che non ruba i soldi, un’etichetta che crede in lui, un ufficio stampa che lavora bene. Non basta essere bravi. Tutti gli artisti che durano si occupano personalmente di tutte queste cose. Sono anche manager e produttori di se stessi.
Faso: E poi c’è il suono! In Italia non è come negli Usa o in Inghilterra dove ogni evento dal vivo ha un audio pazzesco. Quando vedi i live italiani, con i super banchi computerizzati, nove volte su dieci c’è un suono di merda.
I musicisti oggi sono meno esigenti, forse.
Faso: La gente non si preoccupa di quelle cose. Io sì, quando finisco un concerto, la prima cosa che chiedo ai fan è: “Si sentiva bene?”, e se mi dicono di no sono un po’ triste. Odio quelli che organizzano spazi dove si fa musica dal vivo che si sente male. Gli passerei sopra con la trebbiatrice, e poi farei retromarcia.
Cosa mi dite della vostra scelta di Mal come presentatore dei dvd? (Ridono). L’idea del finto documentario mi ha ricordato This Is Spinal Tap.
Elio: Sì, certo. Lì si vede la mano di Rocco Tanica, è in gran parte opera sua e di Claudio Dentes. Perché Mal? E allora perché scrivere un pezzo su un vitello dai piedi di balsa? È la grandissima bellezza dell’improbabile.
E poi Mal è un figo.
Elio: Da sempre amo vedere l’effetto che fa: l’accostamento di cose prese a caso. Una volta abbiamo scritto un pezzo che si chiama Abate cruento esaminatore. Il titolo l’abbiamo scelto aprendo il dizionario a caso tre volte. Poi noi siamo degli arditi della musica, e capita a volte che l’esperimento fallisca. Ma noi ce ne fottiamo. È così bello andare continuamente all’attacco.
Quando siamo andati al circolo Fratellanza e pace di Legnano è stato come andare all’estero
Le vostre canzoni sono piene di riferimenti criptici a scherzi e battute tra di voi, incomprensibili a un esterno. Questo ha contribuito a crearvi un blocco di fan devoti, perché, una volta che scopri il significato di una certa cosa segreta, senti di essere entrato a far parte di una cerchia ristretta.
Cesareo: La nostra produzione è così densa che alcuni vedono messaggi nascosti anche dove non ce ne sono. A volte siamo costretti a dire: “Guarda, mi piace la tua interpretazione, ma davvero lì non volevamo fare niente di strano…”. Sul nostro modo di scrivere i testi esistono almeno una ventina di tesi di laurea, del resto.
Faso: Con analisi a livello semantico molto interessanti, a volte abbiamo fatto scoperte incredibili: “Accidenti, abbiamo pensato questa cosa qua? Chi l’avrebbe mai detto”.
Cesareo: Noi vogliamo sempre fare quello che non ha mai fatto nessuno. Un po’ come quando abbiamo fatto scrivere la nostra autobiografia a qualcun altro (“Vite Bruciacchiate”, Bompiani 2006).
Faso: A proposito di Mal, voglio rivelare una cosa: l’abbiamo scelto per dimostrare che non tutti quelli come lui vengono per nuocere. (Alla freddura di Faso, Elio finge di andarsene. Risate).
Elio: Tutto quello che facciamo, lo abbiamo sempre fatto prima di tutto per noi, con l’idea di andare e divertirci. Non abbiamo mai pensato di fare qualcosa per guadagnare fan.
L’idea di un disco pop non vi attira? Dentro tante vostre canzoni ci sono momenti melodici molto belli.
Elio: Lo faremo nel momento in cui non ci annoierà. Come il nuovo singolo, appunto: quando lo sento, io mi gaso. Era un suono che cercavo da anni, loro lo sanno.
Quindi la direzione del prossimo disco è quella?
Elio: Non è solo quella, ma qualcosa di simile senz’altro. Un’altra cosa che mi manca e vorrei fare è tornare a scrivere con Rocco Tanica, che è una cosa che non succede da tantissimi anni per tutta una serie di motivi su cui si potrebbe scrivere un libro. Anzi, ognuno di noi dovrebbe scrivere il proprio libro, perché siamo passati attraverso i nostri inferni e ne siamo usciti sempre vivi. Se ne avremo voglia, e a me piacerebbe, potremmo scrivere qualcosa nello stile dei primi dischi, con tutta quella ricchezza… abbiamo anche un potenziale che non usiamo: una sezione ritmica che è la migliore in Europa, una delle migliori al mondo, e l’abbiamo sempre sfruttata poco. Abbiamo un chitarrista che è uno dei più grandi rocker italiani, potremmo fare un intero disco rock. Io ho fatto esperienze in campo classico e lirico, potremmo scrivere cose classiche come aveva fatto Zappa – e non escludo di farlo! Abbiamo davvero l’imbarazzo della scelta.
Cesareo: La nostra fortuna è non avere un metodo.
Faso: E nemmeno un genere. Ricordo la genesi di Tapparella, un brano che per noi ha un certo significato. Avevano iniziato a lavorarci Cesareo e Rocco Tanica, ed era in 12/8, tipo Only You. Siamo arrivati noi ed Elio fa: “Ragazzi, ma non possiamo evitare questo ritmo che mi fa cagare”?
Elio: Ho detto così?
faso: Una cosa del genere. Le vie della sperimentazione sono superiori alle combinazioni degli accordi: tra un po’ queste finiscono. Anzi, quando accendo la radio, mi sembra che siano già finite: gli stessi tre-quattro accordi su cui la gente canta gli stessi tre-quattro argomenti. L’Italia sforna un sacco di cantanti, che sono quelli che nel tempo resistono, ma ha un grosso problema con i gruppi. In Inghilterra è diverso.
Anche produttivamente, lì la voce non è preponderante come in Italia.
Faso: Lì la voce è uno strumento, da noi si mette la voce a manetta su una base insignificante, tipo karaoke. Perché la cosa importante è capire le parole. La metà delle persone che incontriamo ci dice: “Voi che siete dei cantanti…”. Io veramente suono il basso, ogni tanto al massimo faccio dei corettini. Negli anni scorsi, i gruppi che andavano ai talent diventavano immancabilmente dei Beach Boys: dovevano cantare tutti anche se non erano in grado. La cosa bella di una band è il suo suono complessivo: tutte le grandi band del passato, come i Police, i Chicago, i Led Zeppelin, sono riconoscibili anche se togli la voce. Ma l’Italia vuole i cantanti. Che palle!
Guardate i Negramaro: sono in sei sul palco, ma è come se esistesse solo Sangiorgi.
Faso: Il problema è che, e lo dico col rischio di offendere qualcuno, l’80% dei registi di video musicali italiani non ha alcuna idea di come si riprende una band. È una cosa penosa. L’inquadratura è sempre sul cantante, e quando parte l’assolo di chitarra inquadrano il bassista.
Cesareo: Quando Ben Harper ha suonato con Jovanotti, al regista non avevano spiegato chi fosse Ben Harper. Era come se non esistesse, lì sul palco.
Faso: Invece un programma come il David Letterman, che non era prettamente musicale, aveva riprese audio e video che facevano il culo agli show musicali italiani.
Cesareo: Da noi il regista che di sera fa i programmi musicali è lo stesso che al mattino riprende il risotto coi funghi. (Risate).
Elio: Il risotto lo riprende bene, però.
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