Elisabetta Sgarbi e Franco Battiato sono legati dal lavoro (in larga parte ancora inedito) svolto dal primo sulle colonne sonore dei film realizzati dalla editrice e regista ferrarese, ma ancora di più da un’amicizia. Ed è proprio con in mente questo legame che nasce l’idea di farsi raccontare da Sgarbi (che recentemente è diventata anche editrice musicale con gli Extraliscio) la sua frequentazione con Battiato: come è iniziata e si è sviluppata, quanto questo contatto l’abbia arricchita. Una chiacchierata sull’umanità e lo spessore artistico che caratterizza la figura di Battiato, della quale Elisabetta è da tempo garbata testimone.
Intanto volevo dirti che ho appena visto Lei mi parla ancora (il film di Pupi Avati basato sulla storia del grande amore tra i genitori di Elisabetta e Vittorio, nda) trovandolo un film di grande tenerezza e bellezza. Le vicende della vostra famiglia sono tratteggiate con eleganza e gli attori sono fenomenali. Magari è una mia impressione, ma nella figura di tuo padre ho ritrovato qualcosa di Battiato: la sua raffinatezza e gentilezza, il suo essere colto, ma anche ironico. C’è qualcosa di lui che rivedi in Franco, e viceversa?
È vero, forse una eleganza sobria, la figura snella. Però no, non li ho mai particolarmente associati. Più volte è capitato di vederli insieme, si salutavano con affetto e stima. Ma non ho pensato a questo accostamento. Forse, ora, andando indietro con la memoria, potrebbe accomunarli un certo amore per il silenzio.
Come vi siete conosciuti tu e Franco?
Lo devo a mia madre. Trascorrevamo insieme qualche giorno a Taormina, una estate di tanti anni fa. Forse la fine degli anni ’80, non sono mai stata brava con le date… Mia mamma mi disse, un pomeriggio, con l’immediatezza e l’irruenza che le erano proprie: «Andiamo a trovare Marta Marzotto da Franco Battiato». Lei conosceva la Marzotto per via di mio fratello, credo. Ma era certamente incuriosita da Battiato. Io feci resistenza, mi sembrava una intrusione nella vita di una personalità che mi sembrava così distante da tutto, come Battiato. Comunque era impossibile resistere a mia madre, e andammo da Franco a Milo. Lui fu generoso e affabile come sempre, ma io rimasi in silenzio tutto il tempo, timidissima. Però sentii una irresistibile vicinanza a lui e lui lesse tutto nel mio silenzio. Così iniziò una grande amicizia.
Cosa della sua personalità ti affascina di più?
È una persona capace di pensieri profondi e alti. La sua capacità di studio e meditazione gli permette di concentrarsi sulle cose ultime e sacre dell’esistenza, ma senza che questo svalorizzi le piccole cose del quotidiano. Anzi. La prospettiva da cui guarda le cose, altissima, lo rende prossimo alla vita profonda delle persone che gli sono vicine. È qualcosa di più della generosità, ha più a che fare con la vera comprensione.
Se conosci la sua storia musicale sai che nel 1979 ha compiuto un grande balzo passando dalla sperimentazione più ardita al pop colto e ammaliante di dischi come L’era del cinghiale bianco. Come giudichi un cambiamento così audace?
Io ho scoperto Franco dal Cinghiale bianco, e poi ho scoperto il Franco più sperimentale. Quindi sono andata a ritroso. Però Battiato non ha mai abbandonato la sperimentazione: nei suoi album di maggiore successo amava osare con suoni e testi inauditi, con la presenza di Sgalambro, Fleur Jaeggy, i mistici da lui amati. E non bisogna dimenticare che uno dei suoi ultimi album è Joe Patti’s Experimental Group, con Pino “Pinaxa” Pischetola. È stato sempre uno sperimentatore, lo è nelle profondità dell’animo.
Il prossimo settembre si festeggia il 40ennale de La voce del padrone, un disco che tra il 1981 e il 1982 ha stregato l’Italia intera, arrivando a vendere più di chiunque altro. Ricordi l’effetto che fece su di te?
Che “fa” su di me, vorrei dire. Al presente. Lo ho riascoltato proprio in questi giorni, tutto di seguito. Sette singoli, un album fulminante e fulmineo. Direi un miracolo di unità, sintesi e bellezza. Franco aveva questi parti improvvisi e perfettamente compiuti: un po’ come è accaduto con Apriti Sesamo. Lo si ascolta e sembra naturale che sia così: però è qualcosa che arriva da sfere celesti.
In generale quali sono tuoi dischi preferiti di Franco? E le canzoni?
Sono molto legata ad Apriti Sesamo. Anche per motivi e ricordi biografici. Franco fece una cosa assurda: mi regalò il CD tre mesi prima che fosse pubblicato. In quella estate trascorsi molti giorni con lui, viaggiando spesso in macchina; mi sentiva cantare ripetutamente Passacaglia e gli venne in mente di fare il video di lancio con me e Eugenio Lio in macchina che cantiamo le prime strofe. Si può ancora vedere su YouTube.
Canzone preferita?
Impossibile sceglierle. Butto due titoli: E ti vengo a cercare e L’animale “che mi porto dentro, che si prende tutto anche il caffè”. Due esempi di come Franco vedesse nelle cose della quotidianità, nel desiderio degli uomini qualcosa di più profondo, di sacro, di animato da “meccaniche divine”.
Nel tuo cinema ti muovi spesso in atmosfere rarefatte e sospese, non distanti dal mondo di Battiato. Credi ci siano delle assonanze tra il tuo modo di intendere il cinema e la sua musica?
Non penso a assonanze particolari tra il mio cinema e la sua musica, benché abbia utilizzato molte sue canzoni nel mio cinema. Diverso è quando chiedevo a Franco di pensare a una composizione musicale per le mie immagini.
Cosa pensi invece del suo cinema?
Penso che Franco avesse una idea sua di cinema, molto legata a rappresentare una sua idea del mondo e della vita. Un cinema molto di parola, o meglio di pensiero. In questo senso la sua fu una progressione molto netta, chiara, frutto di una progressiva comprensione di quello che voleva fare: dalla autobiografia romanzata di Perduto amor, a Musikanten, a Niente è come sembra, il documentario sul Bardo e quello su Gesualdo Bufalino. Decise di pubblicare Niente è come sembra (che è un manifesto poetico) fuori dalle sale, in DVD, con me alla Bompiani: lo accompagnò e promosse con la dedizione di un esordiente, fu un successo pazzesco.
Franco è stato il consulente musicale e a volte il compositore di molti tuoi film. Come avviene in questo caso il lavoro? Gli dai carta bianca o precise indicazioni?
In questo caso io gli parlavo delle immagini e del film che lui non vedeva assolutamente. Ma Franco ha un tale livello di comprensione immediata, di intuizione che quanto componeva sembrava nato per e con le immagini. Il caso più eclatante fu il mio film dedicato a Luigi Ghirri, Deserto Rosa. Creò suoni e melodie che sembrano nascere dalla vita ritratta nelle fotografie di Ghirri. E sono davvero orgogliosa e grata di avere avuto il privilegio di una colonna sonora scritta da Franco. Sono melodie e suoni e rumori decisivi quanto le fotografie di Ghirri.
Sarebbe bello realizzare un album con i brani composti appositamente per i tuoi lavori. Credi potrà essere possibile?
Se Franco volesse, e il suo manager Cattini lo ritenesse opportuno, possono farlo quando vogliono. Potrebbe essere un’idea.
E a livello editoriale? La Nave di Teseo o Baldini & Castoldi hanno in programma qualche volume su Franco?
Abbiamo pubblicato sulla rivista Linus un estratto da un libro che Franco stava facendo con me e con Eugenio Lio. Abbiamo inoltre pubblicato un documentario realizzato da Giuseppe Pollicelli e Mario Tani: Temporary Road – (Una) Vita di Franco Battiato.
Secondo te oggi c’è spazio, in musica come in letteratura, per artisti che si muovono a esplorare come fa Battiato, non puntando al successo a tutti i costi ma badando più alla propria evoluzione artistica?
Un artista vero crea lo spazio che gli spetta. Non si accomoda in uno spazio già dato. E lo fa, credo, inconsapevolmente. Il suo atto di creazione crea uno spazio e un mondo capaci di contenerlo. Franco non si è credo mai posto il problema se ci fosse spazio per la sua musica: seguiva se stesso. E penso che il suo insegnamento sia proprio questo: “lascia tutto e seguiti”, come canta in una sua nota canzone. Non amava chi indugiava nel vittimismo, semmai era capace di vera indignazione. Ci sono testi di una indignazione politica senza pari.
Hai qualche aneddoto particolare che ti farebbe piacere raccontarci?
La gioia e l’energia che mi comunica quando mi chiama Betty Wrong al telefono. Gli piaceva molto questo nome, suggeritomi da Morgan, artista che Franco stima molto, e anche io. E ora Betty Wrong è anche produttore musicale di un gruppo, gli Extraliscio, che ama come lui sperimentare e che conosce la musica. Valzer d’Africa, contenuta nell’album È bello perdersi ha qualcosa di Battiato. Mirco Mariani infatti lo considera uno dei più grandi maestri.
Quale a tuo avviso è l’insegnamento che ci comunica Franco?
Non so se sia proprio un insegnamento, ma una testimonianza. Ho detto prima che Franco è un grande sperimentatore. Ma questo non basta. Il mondo dell’arte è pieno di sperimentatori irrisolti. Lui raggiunge sempre un punto di equilibrio miracoloso tra sperimentazione e forma compiuta. E non è un punto di compromesso, ma un passo avanti, uno spostare un po’ più in là i limiti del possibile, dell’estetica sia musicale che cinematografica, poetica, in una parola. E ancora un messaggio: che l’assenza è una fortissima presenza. Me lo ha insegnato quando mia madre iniziò un viaggio lontano da noi. E non lo dimentico.