Era il 2002, esattamente vent’anni fa, quando ho incontrato di persona Elvis Costello. L’incontro si è svolto a Milano (bei tempi quando le interviste si facevano face to face) per la promozione del disco appena uscito all’epoca, When I Was Cruel. Un disco molto buono, che pur nella sua produzione per Costello abbastanza innovativa (ad oggi rimane quello che fa maggior uso di elettronica nei suoni) era una sorta di ritorno al classicismo del rock’n’roll, dopo anni in cui Elvis aveva fatto un po’ di tutto, dalla musica da camera col Brodsky Quartet alla collaborazione con Burt Bacharach, dalle tinte jazz sfiorate con Bill Frisell a quelle operistiche nel disco con Anne Sofie Von Otter. Il disco nuovo era invece soprattutto improntato allo stile col quale si era fatto conoscere, un rock classico e sanguigno con testi pungenti e ricchi di sottintesi.
Curiosamente, The Boy Named If, l’album appena pubblicato da Costello, fa un po’ lo stesso effetto. L’eclettismo del suo autore in questi ultimi anni non si è spento e l’ha portato ad attraversare atmosfere da crooner come a comporre per orchestre, a collaborare con Allen Toussaint o con il gruppo hip hop dei Roots, a confrontarsi col classicismo dell’Americana o a esplorare territori sperimentali come in Hey Clockface del 2020. The Boy Named If invece ha di nuovo, essenzialmente, un imprinting rock’n’roll; non che il suo autore lo abbia trascurato negli ultimi 20 anni, ma qui si ha la sensazione che ci sia una sorta di punto d’arrivo, che l’album raccolga idealmente il furore di Armed Forces, le sofisticatezze di Spike, le contraddizioni di Mighty Like a Rose e la vitalità ritrovata di Look Now. La sintesi ideale di 45 anni di carriera? È da lì che partiamo per l’intervista a Elvis, fatta su Zoom.
Elvis, in quale misura si può dire che questo nuovo album sia un ritorno al rock’n’roll?
Ma sai, ogni tanto il rock’n’roll è esattamente la cosa che vuoi fare. È una forma espressiva semplice, non sempre adatta a quel che voglio dire; non a caso negli ultimi vent’anni mi sono confrontato con un mucchio di musiche diverse, e non ne cambierei neanche un po’. Ma in tutti i dischi che ho fatto esiste una componente rock’n’roll, anche in Hey Clockface, quando me ne sono andato a Helsinki per fare un certo tipo di rock a modo mio. Ero tornato da un tour con la maggioranza del disco completata, ci ho lavorato con Sebastian Krys (produttore di fiducia di Costello negli ultimi dischi, questo incluso, nda), poi ci siamo concentrati su Spanish Model, la versione in spagnolo di This Year’s Model uscita lo scorso anno, e immediatamente dopo abbiamo iniziato a lavorare a The Boy Named If. Un ritmo di lavoro serratissimo, che in pochi si sarebbero aspettati, e anche un cambio di registro rispetto alle mie abitudini. Perché in realtà quello che ho fatto essenzialmente negli ultimi 45 anni è stato viaggiare di continuo e suonare dal vivo per il mio pubblico, con i nuovi dischi che annunciavano quello che ci si sarebbe potuto aspettare nei concerti.
In questo caso le canzoni sono arrivate molto in fretta, nell’estate del 2020, le abbiamo registrate al volo, e non volevo che l’inevitabile distanza geografica ci penalizzasse. E sono molto fiero del risultato, gli Imposters hanno fatto tutto quel che serviva, non potevo chiedere di meglio. E l’avevo capito dal primo colpo di batteria della prima canzone.
Ma quindi possiamo pensare che per te il rock’n’roll sia un porto sicuro in cui rifugiarsi?
No, non è così, anche se sarebbe facile crederlo. Proprio perché il rock’n’roll è così facile da capire, è un modo di comunicare molto diretto. Ora, è vero che le nuove canzoni sono effettivamente piuttosto dirette e potrebbero appunto far pensare al rock’n’roll, ma c’è sempre qualcosa in più. Ad esempio, ai tempi dei primi album mi dicevano che ero arrabbiato. Ma una ballata come Little Triggers è arrabbiata? Molte canzoni avevano una componente umoristica, che non sempre era capita. La versione spagnola delle canzoni di This Year’s Model invece evidenzia bene la loro melodia, che molte persone non avevano colto a causa del mio atteggiamento nel cantarle. Se suono rock’n’roll con una band, in particolare con gli Imposters in cui due musicisti su tre sono compagni di lavoro da 45 anni, non c’è nessun effetto nostalgia, è semplicemente quello che facciamo oggi. Se suona come quello che facevamo prima, beh, è perché siamo le stesse persone, per forza che suona simile! Senza contare che Davey (Faragher, il bassista degli Imposters, ndr) ha portato alcune differenze importanti: la sua voce, il suo stile più ritmico e groovy nel suonare il basso… ha un gusto meraviglioso ed è veramente irrispettoso ritenerlo un “sostituto” del bassista degli Attractions. Ormai siamo gli Imposters da vent’anni, la vecchia band ha fatto appena un disco e mezzo negli anni ’90, fa parte del passato.
Certamente però la batteria di Pete Thomas e le tastiere di Steve Nieve sono molto riconoscibili anche in questo disco, ormai sono una specie di marchio di fabbrica del suono di Elvis Costello.
Steve Nieve è un musicista col quale puoi affrontare la partitura più ambiziosa, o viceversa la musica più stupida che ti immagini, sapendo che lui è la persona giusta per suonarla. Ha senso dell’umorismo e fantasia, e la fantasia è importantissima nell’approccio a canzoni come The Man You Love to Hate, o nell’arrangiamento dettagliato di Trick Out the Truth che rispecchia il senso del testo. Sono molto contento che in questo album siamo riusciti a bilanciare la tenerezza di pezzi come Paint the Red Rose Blue, dove io suono un piano molto semplice, con episodi molto più energici e rock’n’roll come Mistook Me For a Friend o Farewell, OK. Questa band sa affrontare con efficacia entrambi i registri, e siccome ormai ci conosciamo bene è una questione di fiducia che ci ha anche consentito di ovviare ai problemi di distanza. Con Pete ormai non ho neanche bisogno di chiamarlo o di vederlo in video per chiedergli cosa suonare, in genere fa quello che più gli piace e nel pezzo funziona.
Nelle note del disco peraltro si vede che ogni musicista ha registrato in un luogo diverso…
Non avevamo scelta, ognuno di noi ha dovuto ritagliarsi uno spazio in casa per poter registrare: Pete era in cantina, Davey in una stanza inutilizzata di casa sua, Steve in un cottage in campagna… bisogna riconoscere a Krys che mixare elementi di così diversa provenienza non è stato facile. Poi in realtà, se pensi a come si organizzano le registrazioni in studio… i tecnici vogliono sempre tenere i suoni separati: una cabina per il batterista, una cabina per il cantante, è molto raro che le band vogliano suonare insieme in presa diretta, salvo eccezioni illustri come abbiamo visto fare ai Beatles in Get Back. I dischi sono un accumulo di momenti separati, ognuno a sé stante.
Le canzoni di questo disco sono presentate come “fiabe per bambini”. In realtà mi sembrano episodi abbastanza drammatici, ricchi di emozioni violente.
Il punto è che troppa gente non smette di essere un bambino! No, in realtà non ci sono praticamente storie per i più piccoli, le canzoni descrivono soprattutto il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, la condizione di un uomo giovane ma immaturo, quella di un anziano che contempla il passato. Poi ci sono storie collocate in un punto intermedio, come la coppia di Paint the Red Rose Blue, o la donna in The Difference, che si mostra più saggia del suo spasimante: tutti episodi che so essere veri, anche se non sempre posso dire di averli vissuti di persona.
È curioso poi di come ogni canzone sia percepita diversamente. Ad esempio molti vedono in What If I Can’t Give You Anything But Love? una storia di infedeltà. Per me racconta la minaccia alla tua mortalità, una cosa ben diversa. Ma ogni persona darà la sua interpretazione, e questo mi rende felice: è bello che ci sia spazio per l’immaginazione dell’ascoltatore, e non che debba trovare la morale della favola nell’ultima riga. La vita è così: non sappiamo mai dove ci troviamo esattamente.
Abbiamo già citato diverse canzoni ma non The Death of Magic Thinking, che mi sembra uno dei pezzi chiave dell’album.
È un pezzo che descrive l’esatto momento in cui una persona capisce il significato del desiderio, del desiderio sessuale. Ma nel pezzo non parlo della normale esperienza di un adolescente, ma di una ragazza che invece di sedurre un giovane innocente lo vuole umiliare, giocando crudelmente con lui. Perdere il pensiero magico vuol dire passare dal mondo della gioventù, in cui tutto è ancora possibile, a quando la tua esperienza si riduce a pochi temi essenziali, su cui ti focalizzi. Io ad esempio non ho mai capito a cosa mi sarebbe servita l’algebra nella vita reale, in particolare nel momento in cui la tua mente è piena di desiderio e sei stregato da una persona e non riesci a pensare ad altro. A 8 anni credi che tutto sia ancora possibile, ti travesti e immagini qualsiasi cosa; a 14 se ti travesti è perché vuoi nascondere la tua personalità, a ventidue magari cominci a conoscerti meglio e a disconoscere gli errori passati, ma se continui a cercare alibi a 37 anni, beh, ti stai comportando come un ragazzino. Non intendevo scrivere un trattato esaustivo sul tema in questo pezzo, ma indubbiamente The Death of Magic Thinking ha un peso importante nell’economia dell’album.
Nella tua lunga carriera, riesci a individuare un momento in cui, artisticamente parlando, hai perso il tuo magic thinking e sei diventato adulto? Oppure ce l’hai ancora?
Non credo di avere ancora un bambino dentro di me, ma credo di avere un idiota. Ed è quella la parte che mi serve per suonare il rock’n’roll, e compensa le abilità che ho acquisito in altri ambiti. Ho imparato a scrivere la musica e a orchestrare a 40 anni; questo mi ha consentito di comunicare con un insieme più vasto di musicisti e mi ha dato grandi soddisfazioni. Ma al contrario non ho mai studiato musica formalmente, e suono la chitarra da autodidatta, per cui lo faccio con una certa dose di mistero, commettendo errori interessanti che mi portano in posti inesplorati. A parte ciò, è successo diverse volte che volessi smettere di fare musica e dedicarmi ad altro. La prima volta fu nel 1979, e poi è successo regolarmente negli anni successivi. Ma poi arrivavano nuovi inviti che mi consentivano di rientrare in un diverso contesto, e ripartivo con un nuovo entusiasmo. Senza mai pensare di dedicarmi a un diverso genere; la cosa importante è la ricerca delle emozioni, usando idee originali di volta in volta. Per questo ogni tanto ascolto canzoni in una lingua che non capisco, per cogliere la sensazione di quello che l’autore vuole trasmettere senza farmi condizionare dal significato dei testi; stessa cosa per la musica strumentale.
Nel corso di tutti questi anni, qual è stato il momento più eccitante, musicalmente ma non solo, che hai vissuto?
Ti direi alla fine degli anni ’70. Lavoravo in un ufficio quando uscì il primo disco punk; mi incuriosiva tantissimo, anche se non mi sentivo parte di quella scena. Molti giornalisti mi ci misero, o meglio mi incasellarono in quella che chiamarono new wave. In realtà io pensavo a tutt’altro, cose del tipo: qualcuno registrerà le mie canzoni? Qualcuno le ascolterà? Mi immaginavo soprattutto di scrivere brani per altri artisti, non di essere un performer io stesso. E quando a sorpresa sono diventato una pop star in Inghilterra, tra il ’77 e il ’78, sapevo che non sarebbe durato a lungo; ma sapevo anche che io non avevo nessuna intenzione di fermarmi dopo 18 mesi. Già pensavo che sarebbe stato quello che avrei fatto per il resto della mia vita; in quale modo, quello è un altro discorso. In ogni caso, non sarei mai stato di moda: nascevo troppo tardi per il glam, e troppo presto per il new romantic…
Ma avresti immaginato a quei tempi di avere una carriera così lunga?
Mi sono sempre chiesto quando mi avrebbero fermato. Beh, ai tempi degli Attractions, eravamo convinti di essere un’ottima band. E in realtà lo siamo stati, per almeno tre o quattro anni, prima che il conflitto delle varie personalità ci creasse difficoltà. Abbiamo fatto dischi eccellenti fino alla metà degli anni ’80. Brutal Youth, del ’94, non lo considero un disco della band, avrebbe potuto suonarlo chiunque.
Che ne pensi della scena musicale odierna? C’è qualcosa che ritieni particolarmente interessante?
Ricordo che all’inizio del millennio ero interessato a hip hop ed elettronica, cercavo di incorporare alcuni di quei suoni nella mia musica. Ma se ci pensi, già all’epoca l’hip hop era un genere che aveva vent’anni; adesso ne ha oltre quaranta, è vecchio quasi quanto il rock’n’roll. E ogni stile musicale si evolve per una decina d’anni, in seguito fondamentalmente si ripete. O all’opposto gioca a sovvertire i suoi codici, a mischiare le carte in tavola. Non credo valga la pena di guardare le classifiche: lì ci trovi pezzi concepiti per avere successo e piacere a quanta più gente possibile, raramente sono anche affascinanti. Certo, ce n’è qualcuno, e quando succede si stacca nettamente dal resto. È sempre stato così: i dischi belli sono quelli che scoprivi quando andavi in un particolare negozio e qualcuno ti diceva «devi ascoltare questo». Ti sentivi speciale perché era qualcosa che ti apparteneva, qualcosa in cui per un certo tempo ritrovavi parte di te stesso in una melodia o in un testo o in un ritmo. Qualcosa che ti risvegliava un sentimento.
Ora, io di natura non sono affatto sentimentale, e tanto meno nostalgico; rispetto molto il passato e non ho mai avuto l’arroganza di dire che avrei fatto una cosa nuova facendo tabula rasa di quel che c’era stato prima. Quindi, se senti che uso un ritmo o un inserto strumentale che avevi già sentito, non è perché ho intenzione di farti ricordare nostalgicamente quel pezzo: semplicemente, è ancora una buona idea. Se l’idea funzionava bene 45 anni fa, magari funziona ancor oggi. Solo che la canzone è diversa: non avrei potuto farla prima.