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Emma Nolde e Motta: gli interrogativi, i tramezzini, la musica assieme

I due ci raccontano la genesi di 'Dormi', il disco della cantautrice che hanno prodotto assieme. Lei: «Francesco è uno che fa domande e ti spinge a trovare le risposte». Lui: «Ho cercato di difendere le canzoni di Emma»

Foto: Marco Previdi

“Avrete i miei 20 anni, non avrete i miei ricordi”, canta Emma Nolde all’inizio del suo nuovo album Dormi, in uscita domani. Era un altro settembre, quello “pandemico” del 2020, quando la giovane songwriter toscana esordiva con Toccaterra, ottimo debutto arrivato pian piano alle orecchie di un numero crescente di persone, e non solo addetti ai lavori.

«La mia paura più grande rispetto al futuro è di farmi condizionare da fattori esterni e di non riuscire a essere più me stessa», confidava Emma all’epoca, e dai versi citati sopra si evince che quel timore l’ha fronteggiato a testa alta, determinata a proteggere la propria identità, pur senza chiudersi a riccio e chiamando accanto a sé Motta per la produzione artistica. Il risultato sono 10 tracce in cui dell’autrice classe 2000 affiorano un lato più intimo e romantico, che trova sfogo in canzoni impreziosite con arrangiamenti d’archi, dove la voce passa dai sussurri alle note più alte quasi a voler riflettere le impennate provocate da certe ferite che tolgono il fiato, e un altro lato più sfacciato, leggero, anche ironico, che si traduce in brani tinti di soul e r’n’b, infarciti di percussioni, clapping, fiati e con un parlato quasi rap, nei quali è evidente la ricerca del groove.

La stessa parte della luna e Respiro, i singoli che hanno anticipato l’uscita del disco, rispecchiano tale dualismo. «Ho due anime, è vero, sento di averle e non volevo rinunciare a nessuna delle due», afferma Emma in videochiamata su Zoom assieme a Motta. «Su questo ho un mio parere: alla mia età e nella realtà in cui mi muovo sono costantemente soggetta a stimoli di giorno in giorno diversi, per cui – potrà sembrare una giustificazione, ma non lo è – avere musicalmente più facce è naturale, semmai non lo sarebbe andare in un’unica direzione. Si tratta di farsi trainare anche dai propri ascolti, quasi inevitabilmente eterogenei».

Bon Iver, Alt-J, Mac Miller, Tame Impala, Selah Sue, James Blake, Radiohead, la prima Elisa, Niccolò Fabi… Sono svariati i nomi che Emma ha citato nelle interviste parlando dei riferimenti che nutrono la sua scrittura. Scrittura che in Dormi si sviluppa attorno a una riflessione su una relazione finita ancor prima di sbocciare. «Nonostante dentro di me, nei due anni trascorsi dopo l’uscita di Toccaterra, si siano sbloccate delle cose, a impedirmi di vivermi appieno tutto ciò che mi è successo sono subentrati dei fattori esterni. Sto parlando di una storia d’amore – sì, userei questa parola importante – e nella fattispecie della lontananza di una persona, la stessa di cui parlavo nel primo album, che mi si era avvicinata, ma che è dovuta andare via quasi subito. Il tutto nel contesto della pandemia. Diciamo che il consiglio migliore che mi sono sentita di dare sia a me stessa, sia a lei, è stato quello di chiudere gli occhi ancora una volta, di aspettare ancora una volta».

A occhi chiusi si è riparati dall’esterno e si può immaginare, si sogna più in grande, ed è ciò che fa Emma in questo disco sin dall’immagine di copertina, dove pare dormire, appunto, dentro al cratere di un vulcano, laddove in Toccaterra la vedevamo affiorare dal terreno con una serie di crepe sulla pelle. «In questa storia ho sentito parecchio il peso dei miei 20 anni, perché, come dico nell’intro Fuoco coperto – gioco di parole ispirato a un termine che in una fase della pandemia era diventato quotidianità, “coprifuoco” – è come se avessi dovuto tenere a bada qualcosa di focoso che ribolliva», continua Emma. «Nella cover quel fuoco è rappresentato dalla lava, e poi ci sono i miei occhi chiusi, come erano chiusi nell’artwork di Toccaterra: sono sicura che prima o poi vorrò una copertina con gli occhi aperti, ma non è ancora il momento».

Ascoltandola verrebbe da pensare a Dormi come a un album di passaggio, di certo è un disco che riafferma il talento della cantautrice toscana, che proprio in Fuoco coperto canta quell’“avrete i miei 20 anni, non avrete i miei ricordi” citato a inizio articolo. «Quella frase si riferisce a un momento in cui mi sono dovuta guardare dentro, perché non era possibile volgere lo sguardo altrove, e ho realizzato quanto fosse importante proteggere la mia infanzia, la mia famiglia, il mio mondo. Da questo punto di vista l’album parla anche di distanza dai ricordi e del bisogno di riprenderli in mano per ricordarmi di ciò che sono».

Originaria di San Miniato, alle spalle maturità scientifica, un periodo di studi al Conservatorio e innumerevoli lezioni private focalizzate anche sul jazz, Emma ha cominciato a esibirsi in giro per i locali della sua regione verso i 13 anni, assieme a un’amica con cui proponeva cover dei Coldplay e di Ed Sheeran. Ai tempi già scriveva, ma in inglese. Poi, con Toccaterra, il passaggio all’italiano che le è valso una candidatura alla Targa Tenco nella categoria opera prima. Là aveva accanto Andrea Pachetti e Renato D’Amico, questa volta il ruolo di co-produttore è andato, come si diceva, a Francesco Motta. Sì, il Motta che dei 20 anni, invece, ha narrato la fine, e che durante il tour 2021 ha accolto Emma sul suo palco in più di una data per duettare su Quando guardiamo una rosa.

«La conoscevo da tempo», spiega lui. «La prima volta che le chiesi di produrla non aveva ancora 18 anni, aveva aperto un mio concerto a Empoli ed ero rimasto colpito dalla sua attitudine in un certo senso punk, dal desiderio enorme di dire cose che trasmetteva e da come suonava. Perché Emma suona, suona bene e suona più strumenti (in Dormi chitarre, basso, synth/elettronica, pianoforte, nda). E dirò una banalità, ma in questo momento storico è qualcosa di sorprendente».

Dopo quell’incontro il sodalizio non andò in porto: «Francesco aveva avuto modo di sentire i brani che sarebbero poi finiti in Toccaterra, ma la prima cosa che mi disse fu che dovevo continuare a scrivere, mentre per me quei pezzi erano finiti, e così…». Con Dormi è andata diversamente: «Gli ho mandato i provini che avevo pronti e quando mi ha richiamata eravamo entrambi carichi. Stimo tantissimo Francesco a livello musicale e non so chi altri poteva esserci al suo posto: se ho voluto lui, è perché so che nella mia musica c’è qualcosa che rispecchia i suoi gusti».

Il tocco di Motta si percepisce, l’impressione è che il 35enne di Prima o poi passerà abbia contribuito a conferire spessore e compattezza al sound di Emma, in brani costruiti su cambi di ritmo, passaggi minimali combinati con esplosioni e crescendo, una dinamica sempre interessante e intensa intrecciata con testi di cui si avverte l’urgenza, quasi dei flussi di coscienza in cui a tratti si rivela un’accentuata dimensione carnale fatta di primi baci che diventano “una rincorsa per caderti sulla bocca”, di arti che s’incastrano, di gambe sopra gambe, di corpi che distesi riescono ad avere la stessa altezza. Un linguaggio che nel disvelare emozioni e sentimenti, e la paura che immancabilmente vi si associa, sa essere al tempo stesso fisico e introspettivo, materico e metaforico, erotico e dolce. E che trova una sua universalità in quella che per chi scrive è la canzone più riuscita del lotto, Voci stonate, brano movimentato e contagioso, improntato sul beat, una sorta di inno degli outsider dalle venature black, che vede una Emma grintosa dare voce a chi non sa pensarla “sempre uguale al coro”, a chi va sempre storto perché non riesce ad andare dritto, anche a “chi non ha coraggio di guardare dentro gli occhi e ha bisogno di canzoni per parlare”.

«Su Voci stonate ci siamo sentiti liberi di giocare da producer, è stato divertente», osserva Emma prima di descrivere il Motta produttore come uno che fa domande. «Mi ha messo un sacco di interrogativi addosso, lasciando che fossi io a trovare le risposte. All’inizio l’ho odiato per questo, pensavo fosse lui a dovermi dire come procedere, ma poi ho capito». Interviene Francesco: «La cosa più importante che ho fatto io con questo disco è cercare di non fare danni. Spesso i produttori tendono a volere modificare tanto per fare meglio, ma cosa vuol dire meglio? A me premeva difendere le canzoni di Emma, un certo tipo di racconti. Perché in fase di provini vengono sempre fuori delle fragilità che a volte diventano centrali in una canzone, ma altre volte no, non reggono, e allora le chiedevo: “te la senti di difendere quello che stai dicendo qui?”. Sono quesiti che è difficile rivolgere a se stessi, se non hai qualcuno di esterno che ti ci mette di fronte. Per esempio, la prima versione di Voci stonate era molto “io non sono così, non sono come voi”, per cui ciò che si è fatto è stato trasformare quei no in una difesa del proprio posto nel mondo, sostituendo la contrapposizione con la rivendicazione».

Si potrebbe considerare Voci stonate una nuova Berlino, per citare un pezzo di Toccaterra che dal vivo ha acceso particolarmente il pubblico di Emma e la stessa cantautrice. «Ma in realtà è più un’evoluzione di Sfiorare», precisa lei, «mi piaceva farla dal vivo, così ho deciso di portare avanti quella vena». Alla base c’è anche l’attaccamento a una dimensione live che per progetti come il suo è cruciale, non è un caso che nei mesi scorsi, al netto degli stop dovuti al Covid, Emma sia stata costantemente in tour, prima da sola, poi con Generic Animal (dopo aver inciso con lui Un mazzo di chiavi, un ombrello, lì in mezzo), poi di nuovo in versione solista, ma accompagnata da tre musicisti per un set con chitarra, basso, piano, violoncello, sax, batteria, percussioni. E dimostrando, di data in data, di nascondere dietro all’apparente timidezza una non scontata capacità di tenere in pugno la platea, anche scatenandosi sul palco.

«Questa cosa ha stupito persino me, le prime volte mi riguardavo nei video e vedendomi saltare o ballare mi trovavo un filo sguaiata, per cui mi dicevo: un pochino meno. Poi, però, mi sono resa conto che non era possibile controllarmi, sarà che mi sento responsabile di quel momento lì e dunque mi viene spontaneo godermelo con gli altri. Fatto sta che ho deciso di sopportarmi così come sono, dicono non sia così male…».

Le chiediamo se è stato più difficile realizzare questo secondo album o quello d’esordio. «Decisamente questo», risponde, «perché quelle di Toccaterra erano le prime canzoni in italiano, fino a poco prima di scriverle pensavo di voler andare nel Regno Unito e avviare un progetto in inglese, per cui quel cambio di rotta l’ho affrontato con un’incoscienza anche musicale. Al contrario, per Dormi ho messo la testa su qualsiasi elemento o dettaglio sia stato inserito, aggiunto o tolto, è stato più una sfida, io e Motta abbiamo persino editato insieme». Per la cronaca, i due ci hanno lavorato da settembre 2021 al gennaio scorso, in gran parte nello studio romano dello stesso Motta. Non senza scoprire di avere qualche passione in comune. «I tramezzini!», esclama Emma. «L’aspirapolvere!», replica Motta. E spiega: «La cosa di cui vado più fiero è che prima di iniziare a lavorare ci mettevamo in ciabatte e passavamo l’aspirapolvere dappertutto».

«Un po’ di ordine nel caos», commenta Emma. Il tempo della chiacchierata è scaduto, ci resta una domanda per lei sulla title track, sul punto in cui canta “provare a cambiare il mondo è una lotta persa, e io non vorrei mai che tu ti sentissi sconfitta”. Perché una lotta persa? «Quei versi esprimono il sentimento della mia generazione, la prima che non riesce a vedere nel futuro la possibilità di un miglioramento. Il che non significa che non lottiamo, ma è indubbio che ci sentiamo più riparatori di danni già compiuti e questo fa sì che ogni scelta ci risulti difficile. Non solo perché è dura diventare adulti, ma perché è dura diventare adulti in questo mondo».

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