Tre dischi in quattro anni sono tanti: di questi tempi forse le proporzioni sono meno chiare, con la velocità e il consumo che reclamano costantemente il loro prezzo, ma significa un album ogni 15 mesi. Per fare così tanti dischi senza abbassare la qualità serve avere un pozzo di idee potenzialmente senza fondo, oppure una capacità auto-analitica e una conoscenza di sé stessi in quanto musicisti tale da riconoscere le idee che vale la pena approfondire e quelle che invece non sono all’altezza.
Emma Nolde è arrivata al terzo disco in quattro anni, e a ogni tappa del suo percorso ha aggiunto qualcosa. In Toccaterra aveva messo in mostra le sue doti di cantautrice nella loro versione più innata, dando già prova di interesse per la varietà e per le soluzioni poco convenzionali; in Dormi la sua sensibilità melodica aveva raggiunto la maturità compositiva e armonica, portando le intuizioni del primo disco a un livello superiore (per un confronto emblematico: Toccaterra e La stessa parte della luna) e aveva impostato un discorso che iniziava a trasformare la cantautrice tout court in leader de facto di una band pronta a conquistare i festival e i club. E il terzo disco? Il terzo disco sorprende per l’approccio da veterana che la nemmeno venticinquenne cantautrice toscana utilizza per affrontare la sua declinazione del pop. Di sbieco, affidandosi a un organico limitato e “tradizionale” di strumenti, senza perdersi nella produzione, negli ear candies che sovraffollano radio e piattaforme di streaming, raggiungendo ugualmente un’insospettabile orecchiabilità che potrebbe essere digerita anche dai paladini della qualità con la Q: una sorta di versione contemporanea e italiana (con le dovute proporzioni) di “effetto Just Like Heaven”.
In questo disco, del resto, Emma Nolde si propone di offrire la sua prospettiva sul mondo veloce, frenetico e abbacinante che abitiamo: ora con la prospettiva della critica, ora con lo spirito della battaglia, ora con la quiete della rinuncia, ma con il punto fermo di voler sopravvivere come artista alla centrifuga della modernità. Non è detto che il mercato possa premiarla, ma la vitalità e la sincerità di questi dischi è destinata a farla dormire tranquilla e in pace con sé stessa per tanti anni a venire.
«Il titolo Nuovospaziotempo» spiega Nolde «ha a che fare con il fatto che nelle nostre giornate e nelle nostre vite molti momenti passano attraverso strumenti che in qualche modo interferiscono con il nostro rapporto con lo spazio e con il tempo. Per esempio: io, come credo molte persone della mia generazione, non saprei orientarmi senza Google Maps, che imposto anche quando devo girare nella mia stessa città. Tutto questo fa sì che molto spesso ci troviamo a vivere in dimensioni che forse non sono reali, o sono reali in modo diverso, e dalle quali dipendono le nostre interazioni. Questo comporta una difficoltà sempre maggiore nello staccare la testa da quella dimensione e farsi stupire dalle cose che si vedono, accorgersi di cose meno colorate di quello che vediamo sul telefono. Il titolo ha a che fare con il mio ruolo di cantautrice: io tante volte combatto con questa cosa, e in questo senso ho voluto scrivere un disco in cui parlo di quanto soffro per questa velocità, o anche solo per prenderne atto e descrivere il mondo che mi circonda, che è fatto anche di questo».
Il primo vero pre-ascolto del disco è stato fatto con la tua famiglia.
Sì, è andata esattamente così: il vero listening party è stato con loro. Ho deciso di farlo con loro perché sono gli unici ascoltatori di cui mi peserebbe davvero avere una opinione negativa. Siccome non faccio ascoltare mai le cose prima che siano finite ho voluto farle sentire innanzitutto a loro una volta concluso il disco. Ho anche fatto stampare i testi per sicurezza: c’era il mio babbo che seguiva il testo con gli occhiali tutto il tempo. C’è anche una canzone che parla di lui nel disco (Universo parallelo) e non l’aveva mai sentita, è stato molto emozionante. Il nostro fonico Matteo Guasti, un pazzo oltre che una bellissima persona, ha deciso di portare direttamente le casse che utilizza abitualmente in studio: in pratica sembrava di aver allestito un festival in giardino. Abbiamo ascoltato il disco e fatto un brindisi tutti insieme, e ho capito subito che è una cosa che non vedo l’ora di rifare.
Ti suonava diverso?
È stato come ascoltare il disco per la prima volta, anzi era effettivamente la prima volta che lo ascoltavo con tranquillità dall’inizio alla fine sapendo che era finito, senza la pressione di cercare che non vanno.
Da un punto di vista del sound, avete scelto di circoscrivere l’organico sostanzialmente agli strumenti che porterete anche dal vivo. C’è stato un momento in cui avete deciso che avreste lavorato così o è stato un processo naturale?
Sì, c’è stato un momento preciso in cui abbiamo deciso questa cosa. Volevamo darci dei limiti che sono stati fondamentali perché abbiamo pensato che fosse l’unico modo per avere un suono coeso in una situazione come la mia in cui, dato che mi piace scrivere canzoni anche molto diverse, non sempre c’è una comunanza di scrittura, di ritmica, di strutture e di attitudini tra i vari pezzi. A un certo punto quindi abbiamo deciso di immaginarci di avere una stanza con dentro solo questi cinque strumenti che portiamo dal vivo: sax, piano, batteria, violoncello e chitarra.
Fare un disco partendo da un organico del genere è un contrappeso al tuo personale caos di cui parli nel disco? È un tentativo di rispondere al caos con l’ordine?
Vedi, la cosa bella di parlare con le persone una volta che hanno ascoltato il disco è che a volte ti offrono nuove prospettive sul tuo lavoro. A questa cosa non avevo pensato, ma sì, credo che l’ordine che abbiamo voluto dare a questo disco potrebbe essere già di per sé una battaglia contro il caos. Credo che le parole, e di conseguenza le canzoni, abbiano la funzione di mettere ordine tracciando in qualche modo dei confini e ponendo così dei limiti alla caoticità dei pensieri. Verbalizzare significa mettere ordine e penso che sia capitato a molti di noi di mettere per iscritto dei pensieri problematici per rendersi conto che in quel momento iniziavano a sembrare più gestibili. Ho scoperto di recente questo libro di Andrea Marcolongo, Alla fonte delle parole: lei ha scoperto che in alcuni paesi del mondo dove non esistono le parole per esprimere certi sentimenti ci sono tantissimi casi di persone schizofreniche o di suicidi. Il modo in cui si mette ordine al caos parte dalle parole, è una cosa che deve sintetizzare l’universo di pensieri che uno può avere in testa.
Nel disco c’è Niccolò Fabi, che è uno dei tuoi cantautori preferiti. Al di là della stima, che ruolo ha avuto nella tua vita di musicista?
Importantissimo, io all’inizio scrivevo in inglese e di italiano non mi piaceva niente. Il mio babbo ascoltava Renato Zero, che comunque ha un’attitudine nella scrittura che non è così cantautorale: a me piace tantissimo, ma non è assimilabile a un cantautore in senso stretto, ci sono troppe altre cose che attirano l’attenzione nell’ascolto. Niccolò Fabi mi ha fatto capire che si poteva scrivere qualcosa anche in italiano. Per esempio Nero ardesia l’ho scritta dopo aver ascoltato tantissimo Una somma di piccole cose. È davvero il motivo per cui ho iniziato a scrivere in italiano.
Al tuo listening party hai detto che ti piacerebbe che il tuo disco fosse ancora “vivo” tra dieci anni, a dispetto della velocità dei tempi che viviamo. Che rapporto hai con i dischi che invece hai già fatto?
La cosa strana dei miei dischi è che a un certo punto non li ascolto più: mentre li faccio li ascolto come una pazza, non saprei nemmeno dire quante volte. Quando escono poi basta: non esiste che vada su Spotify ad ascoltarli, penso di non aver ascoltato più né Toccaterra né Dormi di fila. Però so che tutto quello che ho fatto uscire l’ho fatto uscire perché ero convinta e perché penso tutt’ora che ci siano tante cose belle. Il rapporto con quei dischi è quello che c’è con una fotografia vecchia. Un po’ penso «mamma mia com’ero conciata» e un po’, anzi soprattutto, mi faccio tenerezza. Però sono felice di quei dischi.
Hai suonato in tantissime formazioni diverse, qual è la dimensione in cui ti trovi meglio?
Quest’estate ho portato in giro un live pieno di loop station, avevo in mente i live di Ed Sheeran o di Tash Sultana. Da quando ero più piccola avevo voglia di vedere cosa sarebbe venuto fuori se l’avessi fatto io. Però lì devo stare molto concentrata, il divertimento c’è, ma passa in secondo piano. Con una band forse mi diverto molto di più, soprattutto da quando ho trovato la mia dimensione, con persone che stimo. Ma magari mi verrà di nuovo voglia di esibirmi da sola, anche per suonare cose che non ha senso suonare con una band.
Parliamo di 2, il brano che chiude il disco e che è stato registrato con le memo vocali dell’iPhone. Cosa c’è dietro a questa scelta?
Avevo voglia che ci fosse una canzone registrata proprio con lo smartphone e l’ho messa in fondo perché l’idea era quella che dopo questo viaggio nello spazio e nel tempo si tornasse dove tutto era partito. Non la abbiamo solo abbiamo registrata col telefono, ma l’abbiamo fatta uscire dalle casse e sempre col telefono abbiamo registrato l’audio che usciva.
Che rapporto hai con la musica italiana? Ti senti parte di qualcosa? Ti senti isolata? Sei fiduciosa o sfiduciata?
Sono molto fiduciosa, mi piacciono tante cose, molte delle quali sono uscite ultimamente. Penso ad esempio a Lamante, Ginevra, i BNKR che sono vicini a me anche a livello geografico. Sento che in generale c’è più voglia di verità rispetto al passato, nell’ottica che a ognuno spetti la sua fetta di torta. Penso che nessuno punti più all’unanimità del prendersi tutti, ognuno deve prendere le persone a cui parla e questo porta a una libertà maggiore.