Enrico Ruggeri non si piega. Non l’ha mai fatto e non lo fa nemmeno adesso che il mercato musicale è orientato a tutt’altre musiche. Il 17 gennaio uscirà La caverna di Platone, un disco che è un manifesto di resistenza intellettuale e un inno agli artisti eretici. Li celebra in 13 tracce con il suo stile inconfondibile, mescolando attualità, memoria e la consueta vena poetica. «Oggi essere divisivo è visto come un difetto», dice in questa intervista, «ma è proprio chi mostra un’altra prospettiva che può fare la differenza». Anche se, ricorda, «quelli che hanno deviato dal pensiero comune sono stati messi al rogo». Ma non si limita alla denuncia. Si confronta con il passato e critica un presente che non gli piace: «Questa Europa è lontana da quella che sognavamo. Dove sono Monet, Čechov, Kant? Al loro posto solo regole e fanno affari sulla nostra pelle».
Tra una riflessione e l’altra, non manca l’ironia pungente quando parla dei «nuovi eroi di una stagione» che si esibiscono a San Siro, definendoli «prodotti di un mercato drogato». Lancia una stoccata a Jovanotti per aver detto che Mozart è un collega di Tony Effe: «Lo fa perché gli piace il consenso, sarebbe il leader naturale della Democrazia Cristiana». E ricorda il suo X Factor come giudice: «L’esperienza televisiva peggiore della mia vita, i concorrenti erano trattati come carne da macello».
Ruggeri, però, non si ferma alla polemica. Con Il cielo di Milano scatta una fotografia lucidissima di una società brutale e in Arrivederci addio, una sorta di epitaffio artistico, lascia presagire il suo ritiro dalla discografia: «È difficile immaginarmi a incidere un altro disco». Ma a 67 anni è ancora in grado di stupire con la capacità di raccontare ciò che ci circonda, anche se sembra sentirsi l’ultimo samurai.
Tra le tracce del nuovo album c’è Il poeta, dove canti: “Dissero che fu un falso profeta il giorno in cui rinchiusero il poeta”. Sembra un manifesto contro la cancel culture.
Sì, perché oggi viene usata la parola “divisivo” in senso negativo, come se fosse un difetto. Questo implicherebbe l’esistenza di un unico pensiero dominante, ma se uno è divisivo ti mostra un altro aspetto del problema, diverso cioè dalla narrazione comune. È evidente che siamo in un periodo nel quale chi esce dal seminato rischia di pagarla cara. Non è la prima volta nella storia. Ci sono stati periodi in cui le conseguenze erano molto più drammatiche, c’è gente che è finita al rogo. Oppure pensa a Socrate, a Oscar Wilde, a Pasolini a De André, a Gaber, a John Fante e Bukowski. Chi ha deviato dal pensiero comune spesso l’ha pagata carissima.
Da chi o cosa è rappresentata nella nostra epoca l’inquisizione?
Direi dalle piattaforme social. Tutti ne hanno paura, almeno nell’ambiente della musica. Vedo cantanti che pubblicano post che sembrano i discorsi delle finaliste di Miss Italia: «No alla fame nel mondo» o «Sì alla pace». È tutto molto vago, nessuno si espone davvero. Ma più persone si allineano al pensiero unico e più emergono quelli che non ci stanno.
In Gli eroi del cinema muto descrivi un cambiamento che ha spazzato via una generazione di artisti. Oggi ti senti come loro in via di estinzione?
Spero di no! Però negli anni ’40, quando arrivò il sonoro, tante star del cinema muto, che erano fino ad allora considerati come semidei, scomparvero nel giro di due anni. Ai cambiamenti epocali bisogna far fronte. In un certo senso, è come quando i samurai si trovarono di fronte alla polvere da sparo. Ci sono sempre momenti in cui bisogna adattarsi.
A proposito di samurai, a TV Talk hai detto: «Dopo la seconda volta che ho parlato di Covid non sono più stato in televisione per tre anni e nessuno ha levato scudi. E Morgan? E Povia? Perché quando annullano un concerto a loro non succede niente? Perché non appartengono a una multinazionale e non hanno dietro grandi management, come me, quindi non c’è possibilità di creare un blocco solidale. Si può annullare un concerto a un cantante?». Nel frattempo ti sei dato una risposta?
Quello l’ho detto per onestà intellettuale quando si parlava del caso di Tony Effe e della sua partecipazione al concerto di Capodanno annullata a Roma, con una strana levata di scudi di tutti quelli della stessa casa discografica. Ho solo chiesto: mi dite se si può annullare un concerto o no? Non ho particolari vicinanze né a Morgan, né a Povia, ma è lecito o meno?
Manca sempre una tua risposta…
Posso dire che è curioso che ci siano case discografiche con un regolamento interno per il quale, se mandi un sms a una collega dicendole che la minigonna le sta benissimo, ti cacciano via, mentre le stesse case discografiche pubblicano canzoni con testi discutibili in tema di violenza di gente che è condannata per vari reati.
Tornando all’album, ne Il cielo di Milano descrivi una città spietata. È il simbolo della società attuale?
Milano è sempre stata una città che anticipa quello che accade nel resto d’Italia. È una città spietata, brutale, senza regole, io non l’avevo mai vista messa così male. Spero sia una transizione. Invecchiando non vado più nei locali e forse il peggio me lo sto anche perdendo.
Sentendo parlare artisti della tua generazione, sembra quasi che ci vi siate sentiti più liberi in anni nei quali ci si sparava per strada.
Era delirante, ma almeno c’era un motivo ideologico. Oggi è tutto basato sui soldi. È sintomatico vedere dei cantanti che fanno dei video con i soldi in mano o con l’auto di lusso e la tuta griffata. Il denaro è diventato un valore morale.
Se fosse successo in passato?
Li avrebbero presi per pazzi o per comici. Potevano farli Walter Chiari o Ugo Tognazzi i video con i soldi in mano per prendere in giro qualcuno.
A un certo punto ti chiedi: “Il bambino che sei stato che cosa penserà di te?”. Tu come pensi valuterebbe il piccolo Enrico l’attuale artista Ruggeri?
Si stupirebbe, perché non era immaginabile quando ho iniziato a fare un mestiere così incerto. Io ero abbastanza convinto dei miei mezzi, però pensavo che sarei arrivato al massimo a 30 o 40 anni. Ecco di cosa si stupirebbe, della longevità della carriera che ho avuto.
C’è un segreto per la longevità o si impara strada facendo?
Si impara. Ho avuto la fortuna di avere della gente che seguiva i miei cambiamenti, che è cresciuta con me, in molti casi ha convinto i figli a continuare ad ascoltarmi. Una generazione che ha percorso le svariate cose che ho fatto. Numericamente non riempie lo stadio di San Siro, ma è un gruppo compatto e amorevole che mi porto dietro da decenni.
Visto che hai citato San Siro, ti sarebbe piaciuto riempirlo o non era un obiettivo?
Quello no, devo essere sincero. Mi piacerebbe fare una residence per due mesi in un teatro di Milano cambiando la scaletta ogni sera, questo sì.
In Das Ist Mir Wurst dici anche esplicitamente che questa Europa non ti piace.
Intanto è un atto d’amore ai Monet, ai Kant, ai Čechov e a tutta la cultura che questa Europa ha saputo esprimere. Perché quello era il vero sogno dell’Europa. Quando la immaginavamo da bambini, pensavamo a persone che si tenevano per mano a rappresentare un faro di civiltà. Invece ci ritroviamo questa Europa di regole (prende in mano una bottiglia di plastica e sbotta, nda). Un giorno provi a bere e ti accorgi che non si stacca più il tappo. Va bene, adesso l’Europa ci chiede di non staccare più i tappi. Un altro giorno prendi l’auto e ti dicono che dopo un anno la devi buttare. L’Europa è diventata una serie di regole determinate dai mercati e dalla finanza, ma da tutto tranne che dalla morale. E in fondo sai soltanto che stanno facendo affari sulla nostra pelle.
L’alternativa però sembrano Trump e Musk.
Sono comunque sfere di potere che si scontrano, per la gente cambierà poco in tutti i casi. Dobbiamo sperare nel meno peggio. Anzi, già lo facciamo. Siamo qui a valutare chi è il presidente americano che ha bombardato di meno durante il proprio mandato. E forse, paradossalmente, è Trump. Comunque, sono sfere di potere che ci passano sopra la testa.
Hai vinto due Sanremo, quello degli ultimi anni ti piace?
Non è certo fatto per uno come me. È uno spettacolo e chi lo organizza ha l’obbligo di farsi vedere da più persone possibile. Quindi deve agire in quel modo. Non può fare arte.
Enrico Ruggeri non è contemplato nel Sanremo odierno?
No, perché la musica d’autore non è garanzia di ascolti di massa.
Roberta Giallo, presidentessa dell’Associazione artisti indipendenti italiani, ha lanciato la proposta di ripristinare a Sanremo una “commissione rinnovamento”, di cui facevano parte poeti e intellettuali. E ha portato come esempio 4 marzo 1943 di Lucio Dalla, che fu ripescata dalla commissione nel 1971. Saresti favorevole?
Sì, ma erano altri anni. Intanto c’era un canale solo e il rischio era minimo. Roberta ha ragione, ma oggi devi fare la guerra a Mediaset, a Sky, a Netflix e mille altri canali e piattaforme. Ci sono in gioco interessi troppo grossi per tornare a una proposta simile.
Cosa pensi dell’Auto-Tune?
Può essere uno strumento creativo, anche se lo trovo stucchevole. Poi c’è l’Auto-Tune per taroccare la prestazione. Viviamo in un mondo di scorciatoie e questa è una delle tante. Nello sport abbiamo visto Lance Armstrong vincere tutto, per poi scoprire che era dopato. L’Auto-Tune dimostra, ancora una volta, che il fine giustifica i mezzi.
Come siamo passati da Domenico Modugno e Lucio Dalla a Tony Effe e Fedez? Sono lo specchio della società o del mercato?
Del mercato, probabilmente drogato, per il quale sembra che tutto l’interesse sia solamente lì. In realtà non è così. Ai miei concerti vengono un sacco di ragazzi. Certo, non tanti quanti vanno a vedere l’eroe di una stagione a San Siro, ma se ci fosse una luce più forte su altra musica cambierebbero anche i pesi in campo.
Nel 1985 cantavi Confusi in un playback con Mimmo Locasciuli. Erano gli anni in cui imperversava Den Harrow. Tony Effe ti sembra un po’ il suo corrispettivo?
Forse sì. Anche se Den Harrow faceva musica palesemente di evasione, non aveva altra pretesa. Mentre quelli come Tony Effe diventano modelli comportamentali. Den Harrow non cantava neanche lui, noi andavamo in discoteca a ballare le sue canzoni e finiva lì. Quelli di oggi invece celebrano il denaro come valore morale, e mi sembrano molto più pericolosi.
Jovanotti sostiene che Mozart e Tony Effe sono colleghi.
A Jovanotti piace il consenso, quindi ogni sua frase è studiata per avere più consenso possibile.
Sarebbe un buon politico?
Come no… Se ci fosse ancora la Democrazia Cristiana sarebbe il suo leader naturale.
A proposito di politica, quanto ti ha penalizzato il non dichiararti di sinistra?
Moltissimo! L’ultima volta dopo che ho fatto sette prime serate tra 2019 e 2020 su Rai1 con Una storia da cantare. Arriva il Covid e io sparisco dai radar, come ti spiegavo prima. Torno l’anno scorso e c’è chi scrive che ero tornato all’interno di TeleMeloni. Allora, io credo di farla bene la televisione. Non Domenica In, ma la televisione di divulgazione e narrazione sì. Quindi la notizia era che sono stato fuori, non che sono tornato dentro. Mi ha amareggiato, perché nessuno per tre anni ha scritto dov’ero finito, per poi raccontare che ero raccomandato. Ma la notizia non era quella, perché io di tv ne ho fatta tanta anche prima.
Il tuo album coi Decibel del 1978 si intitolava Punk. Un atteggiamento che, anche frequentando molti altri generi, di fondo hai sempre mantenuto. Ma chi è davvero punk nella scena attuale?
Partiamo con il darne una definizione. Se punk è quello che se ne frega di tutto, direi che Ornella Vanoni è oggi la più punk di tutti. È arrivata a dire quello che vuole senza filtri.
Guardandoti indietro, c’è qualcosa di cui ti penti?
No, perché tutto è stato abbastanza consequenziale ad altri obiettivi. Anche il Sanremo di Si può dare di più, che possono dire che non mi rappresenti appieno, servì a portare a teatro una miriade di persone che non mi conoscevano bene e che grazie a quel brano hanno scoperto Il portiere di notte o lo spettacolo con orchestra che portavo in giro, e non mi hanno più abbandonato. Per cui non ho fatto alcun errore enorme. Mille errori di gestione quotidiana sì, anche contrattuali dove ho fatto dei disastri notevoli. Ma dal punto di vista artistico no.
E di cosa vai più fiero?
Penso che i miei album migliori siano dal 2017 in avanti. C’è stata una sferzata, un cambio di atteggiamento, facendo quello che mi pare senza il minimo condizionamento. Dalla reunion con i Decibel, quindi con la scelta di tornare in studio con persone che non ci entravano da 35 anni. Da quel momento è scattata una molla.
Il giudice di X Factor nel 2010 la metti tra le esperienze positive o quelle negative?
È stata un’edizione sfortunata, perché la Rai lo fece sapendo che l’avrebbe perso l’anno dopo. A parte questo, televisivamente sono convinto che sia stata l’esperienza peggiore della mia vita. Mi riferisco a quella edizione, il dopo non mi riguarda. Ma c’era un cinismo veramente terribile nei confronti dei concorrenti, che erano trattati come carne da macello.
Pensi che oggi sia ancora così?
L’avvicendarsi così frenetico mi fa pensare di sì. Ma non posso sapere cosa succede oggi. Invece l’edizione 2010 confermo che è stata la peggiore esperienza tv della mia vita.
Ma poi con Fiorella Mannoia vi siete chiariti dopo che decise di cambiare il testo di Quello che le donne non dicono, scritta da te, per la lotta contro la violenza sulle donne?
Quella è scarsa dimestichezza con la consecutio temporum. Il testo recita: “Portaci delle rose / Nuove cose / E ti diremo ancora un altro sì”. Quindi, qualora tu continuerai a comportati bene, noi ti diremo un altro sì. Mi rendo conto che la costruzione fosse troppo complessa…
Non vi siete più sentiti dopo quella polemica?
Ma sì, l’abbiamo anche cantata al suo compleanno con il testo originale. Poi se la vuole cambiare in pubblico faccia pure.
Sai che attualmente un uomo che scrive per una donna non è ben visto.
Salgari non è mai stato nel golfo del Bengala e ha scritto dei capolavori con quelle ambientazioni. È un’altra delle storture woke. Nel 1991 ho scritto un pezzo che si intitolava Trans e quando LGBTQ+ era ancora un codice fiscale, quindi per me si può ancora fare.
Dal punto di vista dei testi c’è qualcuno che ti piace oggi?
Simone Cristicchi sta facendo delle cose molto belle. Così come Lucio Corsi, uno dei primi che quando ho ripreso la trasmissione Gli occhi del musicista avevo invitato, ma andando a Sanremo ha dovuto declinare. Ci sono diversi artisti che portano testi interessanti.
Tutti fuori dal mainstream…
Eh per forza, difficile unire qualità e quantità. Io devo molto a Sanremo, ci sono andato tante volte e portando di tutto. Quindi si può fare e non sono l’unico.
Non ti sei mai chiesto, quando scrivi, che potrebbe nascere una polemica?
No no, questo mai. Non ho mai avuto bisogno di cancellare qualcosa.
Invece in La bambina di Gorla racconti una tragedia personale legata al bombardamento di una scuola di un aereo americano nel 1944. Se tua madre fosse stata a scuola quel giorno, tu non saresti qui.
Sì, perché mia madre insegnava in quella scuola il lunedì, martedì e mercoledì, mentre giovedì e venerdì in un’altra scuola. Quel venerdì non era lì, ma le sue colleghe e i suoi bambini sono morti. È una storia che ho sempre sentito in casa da quando avevo 4 anni, ma ci ho messo 60 anni per scriverci una canzone. Purtroppo stiamo parlando di un evento di tantissimi anni fa, ma ci sono casi analoghi anche in questi giorni. Non è cambiato niente.
È una tragedia che ha avuto meno risonanza perché a causarla furono gli americani?
Certamente! C’erano e ci sono ancora i morti e le stragi di serie A e di serie B. Quello era considerato un fastidio nella narrazione dell’americano liberatore.
L’unico feat del disco è con tuo figlio Pico Rama in Benvenuto chi passa da qui.
Lui scrive canzoni per il piacere di scriverle, non ha nessuna intenzione di intraprendere la carriera di cantante. Ha fatto alcuni dischi, però non gli piace questo mondo. Mi ha fatto sentire questa canzone che era sorridente, e in un album dove ci sono molti momenti spinosi mi è sembrato bello, verso la fine, inserire anche un sorriso. È vero, è l’unico feat, come li definiscono oggi. Non credo mi seguirà nei live, non ama per niente l’esposizione mediatica.
L’album si chiude con Arrivederci addio, che suona quasi come un epitaffio.
Le canzoni a un certo punto prendono una piega diversa dalla loro origine. Nella mia testa era: ci lasciamo, ma non è detto che sia per sempre. O comunque, ci lasciamo, ma qualcosa di mio resterà con te e qualcosa di tuo con me. Poi ha preso una strada più triste, quindi capisco che possa sembrare un epitaffio sul fatto che dopo questo non pubblicherò più dischi.
Se lo confermi, però, mandi nel panico tutti i tuoi fan.
Diciamo che, dopo questo album, tornare in studio per altri due anni per saltare fuori con in mano un altro pezzo di plastica nel 2028 è una roba sempre più anacronistica. Così torniamo davvero al cinema muto. Mi piacerebbe che si creassero le condizioni per continuare a fare quello che ho sempre fatto, ma vediamo quello che succederà.
Io ci ho sentito anche un’altra chiave, ma magari sbaglio. Quando canti “è stata un’emozione volata nello spazio”, mi sembra che volessi dare l’addio, o l’arrivederci, alle emozioni per come sono state cantate fino ad oggi.
Non credo, e forse non voglio neanche essere così pessimista. Le emozioni ci saranno sempre, benché filtrate in altri modi che però non oso immaginare. Magari recepite da meno persone, questo sì. Ma qualcuno con un cuore sono convinto che rimarrà sempre.
Ma ti sei mai chiesto cosa rimarrà di Enrico Ruggeri tra 50 anni?
Nella mia follia, quando scrivo una canzone la discriminante, tra il decidere se inciderla o buttarla, è questa: avrà senso tra 50 anni? Per fortuna, finora è andata bene. Cosa rimarrà dipende anche da come saranno veicolate le opere del passato. Con dei file, dei chip, chissà.