Da sempre Ensi è un cultore degli album, intesi come progetti che hanno un capo e una coda, una coerenza interna, un suono fatto per essere ascoltato in un percorso strutturato, una grafica di un certo tipo. Ensi è anche un cultore dei live fatti come Dio comanda, quelli che, come cantano e rappano da generazioni tanti artisti hip hop, ti fanno lasciare i tuoi problemi fuori dalla porta. Non c’è da meravigliarsi, quindi, che la sua ultima esperienza dal vivo abbia portato alla realizzazione di un album che è un vero gioiello. Clash affonda le sue radici nella cultura dei sound system e si ispira massicciamente all’esperienza del Red Bull Culture Clash del 2017. Insieme a Macro Marco, Moddi e dj Mad Kid, infatti, formava il team dei Real Rockers: nonostante questi quattro pesi massimi abbiano perso per un soffio contro Hellmuzik (la squadra di casa Machete, capitanata da Hell Raton), da molti sono considerati i veri vincitori morali della gara, tant’è che il loro sound system è diventato itinerante, partendo per un tour di un anno e mezzo che li ha portati a suonare in tutta Italia davanti a migliaia di persone. I chilometri macinati con i Real Rockers hanno fornito l’impulso primario per la realizzazione di questo album, non a caso registrato (e presentato) ai Red Bull Studios. «È un disco nato di getto», racconta Ensi. «L’intenzione non era quella di fare un concept album, ma un lavoro che non fosse semplicemente una playlist e che raccontasse un certo tipo di approccio alla musica e alla cultura hip hop».
Sembrerebbe che tu sia stato parecchio segnato dall’esperienza del Red Bull Culture Clash…
Non me ne vogliano gli amici di Hellmuzik, ma team Real Rockers tutta la vita! (ride) Io prendo questo tipo di contest in modo molto sportivo, perciò finché sono in gara sono super competitivo, ma poi ricordo solo la bella esperienza, indipendentemente da come va a finire. Il nostro era un sound system molto legato alla vera essenza della clash culture. Il tour, in particolare, è stato un’esperienza incredibile, che inevitabilmente mi ha influenzato tantissimo.
Qual era il tuo rapporto con la dancehall, prima?
È un mondo che adoro da sempre: non ho velleità da cantante, ma mi piace fare freestyle sui ritmi dancehall. Nel periodo in cui sono cresciuto io, oltretutto, il rap e il reggae erano molto vicini, come generi. La cultura dei sound system ha contribuito alla nascita della cultura hip hop, e il legame si sta rafforzando anche ultimamente, grazie a dischi come Victory Lap di Nipsey Hussle o alle collaborazioni di Popcaan con Drake e Pusha T. La cosa che mi fa più felice è che i fan della dancehall hanno capito lo spirito con cui mi sono avvicinato alla materia: non mi sono trasformato in un rastaman da un giorno all’altro, non è stata una conversione o un cambio di rotta. C’è stato molto rispetto da parte mia, e integrità.
Ascoltandolo si ha l’impressione che tu ti sia divertito molto di più lavorando a Clash, rispetto a V…
Beh, negli anni precedenti all’uscita di V c’erano stati molti cambiamenti nella mia vita: era mancata mia mamma, era nato mio figlio Vincent. E in fondo, a parte quest’ultima cosa che mi ha riempito di gioia, non sono stati particolarmente felici. L’arte è lo specchio di ciò che sei: difficilmente riesci a scrivere una canzone solare, se non stai bene. V era un disco molto denso, tant’è che prima di iniziare a registrare Clash mi sono detto “Con l’album precedente ho detto tutto quello che volevo dire, questa volta voglio fare rap e basta”. Ma poi i primi pezzi che ho scritto sono stati Complicato e Fratello Mio, forse i più riflessivi in assoluto… Insomma, l’esigenza di parlare di qualcosa si è fatta sentire. Ma sicuramente l’idea di fondo è rimasta quella: Clash è pieno di brani scritti e registrati di getto. È un lavoro compatto, pieno di piccole chicche e di fil rouge che formano un percorso: ad esempio, si apre con la voce di mio figlio perché V si chiudeva proprio nello stesso modo.
A proposito, nella primissima traccia dell’album, Clash (freestyle), racconti che la musica che fai è anche per tuo figlio: “Potrei deludere tutti, ma lui mai”, cito testualmente. Vincent è ancora molto piccolo: che rapporto ha con la tua musica?
Come dico nella canzone, quando all’asilo gli chiedono che lavoro fa papà, lui risponde “il rapper”: mi riempie d’orgoglio! È la vittoria più grande della mia vita, perché ho sognato per anni di fare questo per mestiere. Il fatto che ora mio figlio possa essere fiero del mio percorso, e che chiami “zii” buona parte dei rapper italiani, è davvero bellissimo. Ascolta già di tutto, da Johnny Marsiglia a Sfera passando per Tedua, perché a casa non abbiamo pregiudizi: anche se ovviamente ho le mie preferenze personali, non gli faccio ascoltare Nas tutto il giorno!
Dopo te, Raige e Lil’ Flow (i suoi fratelli, ndr), sarà il quarto della famiglia Vella a diventare un rapper?
Quello non lo so! (ride) Spesso i figli dei rapper non ereditano la stessa attitudine del padre, vedi quelli di Big Pun, Ice Cube o Will Smith. Non è una cosa per tutti, e oltretutto se hai un padre che spacca le aspettative su di te sono altissime. Sotto sotto spero che si appassioni a qualcos’altro, che scopra di avere un altro talento.
Magari diventerà un grande beatmaker!
Sarebbe fantastico. Se devo dirla tutta mi piacerebbe che diventasse un dj, potremmo mettere su un sound system padre-figlio! Ha già la sua piccola consolle e si diverte un sacco a smanettarci sopra. Ma non lo sto addestrando alla musica, tipo allenatore invasato: per lui è davvero un gioco, e va benissimo così. Se vorrà fare questo, si creerà il suo percorso, come me lo sono creato io.
Il tuo percorso (e soprattutto le vicende che ti hanno ispirato e motivato a intraprenderlo) lo hai raccontato anche in una delle tracce più belle del disco, Thema Turbodiesel…
Molte delle cose che descrivo in quel pezzo le avevo già dette: come in Vendetta, un disco che spiegava il senso di ingiustizia e rivalsa che ho provato quando hanno arrestato mio padre. In questo caso, più che la vicenda in sé, volevo descrivere le emozioni legate a quel momento: la sensazione che provai quando squillò il telefono e pensai a uno scherzo, per esempio. O le piccole cose che caratterizzavano quel periodo: il fatto che avessi un solo paio di scarpe, “Air Force alte / religiosamente bianche”, perché passavo tutto il giorno a pulirle. Non sono mai stato un maniaco della moda o dei gioielli, ma avevo una gran cura di quel poco che avevo. Il resto nella mia vita andava in un’altra direzione, e volevo proteggere tutto ciò che per me rappresentava un feticcio dell’hip hop.
L’album contiene anche due canzoni d’amore, Vita intera e È complicato, volutamente poco zuccherose e molto credibili e “reali”…
Parlare d’amore in musica è una delle cose più fighe che esistano: volevo farlo in maniera poetica, ma con le palle, da uomo adulto padre di un bambino. Anche perché accanto a me non c’è una ragazzina isterica, ma la mia compagna di una vita, una donna forte, con cui sto da più di dieci anni. Da sempre cerco di raccontare i sentimenti in maniera matura, non come in un libro di Moccia. Non mi piacciono molto le canzoni rap sdolcinate, anche perché se poi la traccia successiva è un ego trip in cui sembra che tu viva a Baghdad, non è molto credibile. Preferisco i racconti a tinte forti, come quelli di Luché, un altro bravissimo a parlare d’amore con il rap.
Anche Fratello mio parla di sentimenti, in maniera tanto toccante quanto misteriosa: ci racconti qualcosa in più?
La storia che si nasconde dietro a quella canzone è molto personale, riguarda un momento difficile che stava effettivamente vivendo mio fratello minore. Purtroppo io ero un po’ impotente rispetto a questo suo malessere, perciò ho fatto quello che so fare meglio, e gli ho scritto un pezzo sperando che per lui potesse essere uno stimolo. È nato tutto da un momento che abbiamo condiviso: eravamo io e lui sul mio terrazzo, era una bellissima giornata ed erano appena arrivate le nuove strumentali che aveva mandato Big Joe. Appena è partito quel beat, abbiamo cominciato ad abbozzare una melodia canticchiando. Abbiamo registrato un messaggio vocale da mandare a Joe e alla fine l’ho tenuto così com’era per il ritornello: volevo che ci fosse anche qualcosina di lui in quella traccia. Oggi tutti pensano a fare hit parlando di concetti potenzialmente virali, ma per me le cose davvero virali sono le emozioni. Abbiamo tutti più o meno gli stessi problemi, perciò sono tematiche universali.
Una domanda che sicuramente ti faranno in tanti, se non te l’hanno già fatta: Rocker è in qualche modo una tua risposta a Rockstar di Sfera Ebbasta?
No, assolutamente! Anche perché se avessi avuto qualcosa da dirgli l’avrei chiamato per nome: credo che tutti sappiano benissimo che, se devo demolire qualcuno in rima, sono perfettamente in grado di farlo… (ride) Ma non è questo il caso, anzi. Lui è una vera rockstar, che sta vivendo un momento di massima esposizione mediatica, anche grazie a tutto il lavoro che è stato fatto negli anni che ha permesso a questo genere musicale di crescere. Io sono un cultore del rap, quindi non posso che ammirare e apprezzare il suo percorso: non siamo propriamente amici, perché abbiamo età diverse e non ci frequentiamo tanto, ma ci rispettiamo a vicenda.
Molti, però, ti considerano un paladino del rap duro e puro e ti contrappongono alla nuova ondata della trap. Sbagliano?
Chiariamo una cosa: al di là dei miei gusti personali, che ovviamente esistono e sono molto chiari a tutti, io non ce l’ho con la trap, ma con un certo tipo di atteggiamento di chi va a rimorchio una tendenza. Sfera, piaccia o non piaccia, si è inventato uno stile che prima in Italia non c’era. Sono quelli che provano a copiare e sono del tutto privi di originalità che mi danno fastidio. Auguro il meglio a chiunque, ma il tempo è un setaccio: chi è veramente un artista e ha qualcosa da dire, resterà. Gli altri verranno falciati uno dietro l’altro dal mercato, perché puoi ingannare qualcuno per un po’, ma non puoi ingannare tutti per sempre.
La longevità resterà la chiave di lettura per individuare i veri artisti, insomma.
Esatto. Non bisogna ragionare per sottogeneri: nell’hip hop c’è un solo fiume, gli altri sono solo affluenti. Nessuno sa cosa succederà, ma secondo me presto vedremo un ritorno dei contenuti, delle penne più acute e affilate. A livello internazionale sta già succedendo. I rapper americani di adesso sono cresciuti ascoltando rap insieme ai loro genitori: da noi si è diffuso più tardi, quindi non è ancora possibile avere una prospettiva storica in cui tutto è ciclico, e la nuova generazione omaggia e riprende quella precedente. Qui, spesso, anche i giornalisti e gli addetti ai lavori non hanno la cultura di base per interpretare e capire l’hip hop. È considerato ancora una moda, e adesso che ha rivoluzionato il mercato discografico e il linguaggio della musica, tutti ci vogliono mettere mano, tutti ne vogliono un pezzetto. Ma sono pochissimi, quelli che hanno i mezzi per farlo. Io, nel mio piccolo, cerco di fare il mio per creare un terreno fertile: vedremo cosa succederà.