Nell’estate del 1990 Robert Plant, Jimmy Page e John Paul Jones hanno superato da tempo i Led Zeppelin. Plant ha appena pubblicato il suo quinto album solista, Manic Nirvana, Page ha fatto due album con i Firm, la band che ha formato con Paul Rodgers dei Bad Company ed è uscito con un disco solista nel 1988, e Jones ha lavorato come produttore cinematografico e compositore di colonne sonore.
Ma i tre ex compagni sono felici di ricordare i loro giorni di gloria per una storia di copertina di Rolling Stone, che fa parte di un numero speciale dedicato agli anni ’70. «Siamo arrivati alla seconda o terza generazione di zeppeliniani, forse la gente ha perso il filo della storia…», dice Plant, «ma noi avevamo un piano. Era un’elegante cospirazione se vuoi. Una cosa sincera, a cui noi abbiamo dato una nuova personalità».
Sono passati quasi dieci anni dallo scioglimento dei Led Zeppelin, ma per molti fan è come se non fosse mai finita.
Plant: «Beh, non finisce mai per nessuno. Anche Bing Crosby non è mai finito, giusto? Sicuramente anche Elvis non è mai finito».
È una cosa che vi preoccupa?
Page: «Oh mio Dio, no! Perché dovrebbe? Pensavo fossimo la più grande band del mondo. Dal punto di vista musicale in quel periodo le cose andavano molto bene».
Durante il lavoro di rimasterizzazione delle vostre canzoni per il box set (“Led Zeppelin”, una retrospettiva in 4 CD uscita nel 1990, ndr) avete pensato al motivo per cui i Led Zeppelin sono entrati nella storia del rock?
Page: «Sì, e mi sono reso conto che il nostro repertorio era ed è ancora oggi un fantastico libro di testo per via delle diverse zone che la nostra musica riusciva a toccare e le diverse direzioni che eravamo disposti a prendere. Lo facevamo sia camminando con passo lento che avanzando come un rullo compressore, avevamo una grande varietà di stili. Facevamo le cose molto bene. Erano profonde e piene di anima».
All’inizio c’era molta diffidenza da parte della stampa e delle radio nei confronti dei Led Zeppelin.
Plant: «Solo da parte della stampa. Il motivo è che noi non ci prestavamo a nessun giochetto. Secondo noi, la cosa migliore era suonare e chiudere la bocca a tutti, capisci?».
Jones: «Mi ricordo che la prima recensione di Rolling Stone (sul numero 39) parlava solo della “moda” dei Led Zeppelin. Una cosa del tipo: “La solita band inutile che è sulla bocca di tutti, ma fa comunque schifo”. Ci ha ferito molto, perché sapevamo di aver fatto un buon disco. Ha contribuito ad alimentare il mio odio verso la stampa in generale».
Il pubblico invece ha risposto subito.
Jones: «Venivano ai concerti. Questa era la differenza. Lo stesso succedeva in Inghilterra: c’era la coda fuori dai locali dove suonavamo, e questo solo grazie al passaparola: “Sono bravi, sarà un bel concerto. Andate”. E loro venivano. Credo che quelli della stampa si siano offesi, perché non erano lì quando la band è nata. Così hanno deciso di ignorarci, e noi abbiamo ignorato loro. Comunque non è stato male non dover rispondere a tutte quelle domande stupide… Non voglio dire che sia questo il caso (ride), ma sai cosa voglio dire».
Plant: «È divertente, perché la risposta positiva è arrivata sempre dalla gente e mai dalla critica. Ho vissuto la stessa cosa nella mia carriera solista. Mi mettono sempre in paragone con i Led Zeppelin, cercano di screditarmi o si lamentano per i miei continui cambiamenti. Ma io faccio quello che ho sempre fatto. Mi diverto e mi muovo sul palco come un fottuto pazzo. È sempre la stessa storia: una nuova generazione di giornalisti che probabilmente erano dei neonati quando sono uscite le prime piagnucolose recensioni dei Led Zeppelin, oggi scrivono le stesse cose su di me. L’atteggiamento aggressivo dei Led Zeppelin, o la loro reputazione, se vuoi, era solo una parte della storia. A volte eravamo indecenti e volgari, altre volte eravamo delicati e piacevoli, capisci?».
Jones: «Certe persone non capiscono. C’era molto senso dell’umorismo in quello che facevamo, sia nella musica che nella band. Altro che stronzate sul satanismo! (Ride)».
Come mai secondo voi i Led Zeppelin sono diventati una band quasi mitologica?
Page: «Solo per chi non ci ha mai visto dal vivo. Se ci hai visto suonare, sai esattamente cosa siamo».
Però ci sono molte band che hanno preso il vostro catalogo come unico punto di riferimento e fanno di tutto per ricatturare la vostra potenza. Questo non vuol dire aver creato un mito?
Page: «Sbagliano. Non colgono lo spirito che c’era dietro, e la passione. Imitano i riff e non vanno in profondità a cercare cosa c’era dietro. Eravamo una band piena di passione. Nelle canzoni si sente».
“Alcune delle nostre canzoni hanno un fascino senza tempo. A volte penso che sarebbe meglio se non lo avessero, così potrei andare avanti con la mia vita e non essere costretto a ricordare sempre il passato.” Robert Plant
E i fan? Credi che abbiano capito, o ognuno ha la propria idea di ciò che ha reso grandi i Led Zeppelin?
Plant: «Non lo so, nessuno mi racconta mai le proprie sensazioni. L’unica cosa che mi dicono è: “Yeah! Zeppelin!”. Tutto qui. Non mi chiedono mai cose del tipo: “È vero che ti sei scopato una mentre avevi un serpente in testa?” (Ride)».
È vero che ti sei scopato una mentre avevi un serpente in testa?
Plant: «Aaaah, no, quello dev’essere stato Jimmy! (Ride). Sicuramente esiste una specie di devozione nei confronti di questa band, ma non credo che a farla nascere sia stato il nostro stile di vita edonista. Alcune delle nostre canzoni hanno un fascino senza tempo. A volte penso che sarebbe meglio se non lo avessero, così potrei andare avanti con la mia vita e non essere costretto a ricordare sempre il passato. Comunque non importa, bisogna sempre essere fieri delle cose buone che hai fatto. E noi ne abbiamo fatte parecchie».
Vi siete mai sentiti in competizione con altre band, per esempio con i Rolling Stones o i Beatles?
Plant: «Eravamo più interessati alla varietà, alla creatività e alla nostra soddisfazione personale. Non ci sentivamo in competizione con nessuno, perché noi cercavamo soprattutto di intrattenere noi stessi, non di fare una bella canzone fine a se stessa. Fin dall’inizio, ci siamo detti che non avremmo fatto singoli: se vuoi scoprire cosa sono i Led Zeppelin devi entrarci dentro e ascoltare un album intero. Non usavamo i singoli come biglietti da visita e quindi non eravamo in competizione con nessuno. Vedi, mi piace pensare di essere stato allo stesso livello dei Kaleidoscope o dei Buffalo Springfield per la nostra varietà di stili, ma forse Jimmy non sarebbe d’accordo (ride), perché a lui non piacciono per niente i Buffalo Springfield. Noi facevamo musica molto inglese, con profonde radici blues. Non c’era competizione con nessuno, non eravamo una band pop. Eravamo popolari, ma certamente non eravamo pop».
L’esempio migliore è Stairway to Heaven, probabilmente la canzone più famosa del mondo in radio, che però non è mai uscita come singolo.
Plant: «Sì, ma la cosa interessante è stata la reazione del pubblico. È stato il mito a creare Stairway to Heaven».
In che senso?
Plant: «La prima volta che l’abbiamo suonata si sono addormentati».
Davvero?
Plant: «Sì, perché non l’avevano mai sentita, non sapevano cosa fosse».
Page: «No, non è vero. Mi ricordo quando l’abbiamo fatta al Forum di Los Angeles… Non c’è stata esattamente una standing ovation, ma è piaciuta parecchio e io ho pensato: “Incredibile, è la prima volta che la sentono”. Mi ha colpito. Eravamo al Forum di Los Angeles, un posto importante, mi sono reso conto subito che avevamo fatto qualcosa di grande».
Jones: «Stairway dice molte cose dei Led Zeppelin. Ha una specie di precedente in Babe I’m Gonna Leave You sul primo album. C’erano molti elementi simili: l’inizio acustico, il crescendo e il finale “heavy”. È un buon pezzo, tanto per cominciare. L’idea originale e il fraseggio di chitarra sono di Jimmy. Robert aveva un testo breve, la strofa iniziale e forse altre due. Io e Jimmy ci siamo messi lì e abbiamo fatto tutto l’arrangiamento. È il risultato di un duro lavoro».
I Led Zeppelin hanno preso ispirazione da molti stili musicali diversi. Come avete trovato un punto di incontro?
Jones: «Non eravamo dei puristi come molte band di oggi, in cui tutti i membri ascoltano la stessa musica. Robert aveva influenze blues, Jimmy aveva influenze rock&roll, Bonzo e io avevamo influenze soul e io ascoltavo anche molto jazz. Il punto di incontro erano i Led Zeppelin. La fusione di tutti i diversi tipi di musica».
Non avevate nemmeno la stessa esperienza nel mondo del rock. Robert, tu e Bonham eravate praticamente sconosciuti prima di entrare nei Led Zeppelin. Com’è stato ritrovarsi con due musicisti già affermati e di successo come Page e Jones?
Plant: «Dipende dai punti di vista. Jimmy era un membro degli Yardbirds, un famoso musicista di studio di successo. Jonesy era quello che stava dietro le quinte. Non mi importava che avesse prodotto Mellow Yellow, perché era solo un pezzo pop. Carina, ma l’aveva scritta qualcun altro. Non ero intimorito dalla loro posizione. È stato importante il modo in cui si sono comportati con noi. Jonesy è… non voglio dire riservato, ma è uno che sta in disparte e parla poco. Dopo un po’ ci fai l’abitudine. Jimmy invece… Credo di non aver mai incontrato uno con una personalità del genere. Dovevi adattarti a lui, non era un tipo facile. Ma la musica era così intensa che tutto diventava intenso: l’ambizione, quello che facevamo, dove volevamo arrivare, tutto era intenso. Nessuno aveva la minima fottuta idea di cosa fosse, ma era un potenza incredibile, fin dall’inizio. Era piuttosto difficile starsene tranquilli a bere qualcosa e comportarci da ragazzi di campagna della Black Country. Bonzo e io eravamo semplici, basilari nel nostro modo di gestire la situazione, compreso Jimmy. Perché lui era uno che dovevi imparare a gestire».
Non deve essere stato difficile però. È vero che avete trovato l’intesa subito, fin dalla prima volta che avete suonato insieme?
«Sì. Abbiamo fatto Train Kept A-Rollin’, un pezzo che facevo già con gli Yardbirds. Robert lo conosceva. Alla fine ci siamo resi conto che era successo qualcosa di veramente elettrizzante. Esaltante è la parola giusta. E abbiamo iniziato a provare il primo album dei Led Zeppelin».
Gli Zeppelin avevano la capacità di passare rapidamente da uno stile all’altro. Da dove veniva questa caratteristica?
Plant: «Personalità».
Ci deve essere stato qualcosa di più…
Plant: «Sì, ma tu non hai visto i Band of Joy, la band prima degli Zeppelin. Era lo stesso».
Davvero?
Plant: «Sì. Nei Band of Joy io e Bonzo facevamo White Rabbit (dei Jefferson Airplane) con March of the Siamese Children dal musical The King and I in mezzo. Facevamo qualsiasi cosa… Hey Grandma dei Moby Grape, che diventava molto particolare. Ci guardavamo intorno in cerca di qualcosa che ci emozionasse. Mi ricordo la prima volta che ho sentito la cantante egiziana Om Kalsoum. Non capivo una parola di quello che cantava, perché cantava in arabo, ma ha avuto un effetto su di me che io ho trasferito nella mia musica. Lo stesso mi è successo ora con il mio album solista Manic Nirvana. Sei stimolato dal tuo stesso entusiasmo».
Non serve anche una grande abilità?
Plant: «Se non c’è nessun altro che fa lo stesso non hai un termine di paragone. Prendi canzoni come Friends o Four Sticks: io e Jimmy siamo andati in India e le abbiamo registrate con l’orchestra Bombay Symphony. Abbiamo tirato giù dagli scaffali una serie di musicisti, li abbiamo riuniti a Bombay e abbiamo registrato con loro questi due pezzi dei Led Zeppelin. La session è andata molto bene, fino a quando io ho tirato fuori una bottiglia di brandy. Gli indiani sono persone fantastiche, ma, alla fine della bottiglia, di persone fantastiche non ne era rimasta neanche una… È un peccato che quelle registrazioni non siano state inserite nel box set».
Perché non ci sono?
Plant: «Non lo so, forse Pagey non ci ha pensato (ride). Del resto neanche io ci ho più pensato fino a un paio di secondi fa».
Page: «I pezzi completi di parti vocali che avevamo scartato in passato sono finiti tutti su Coda. Dovevamo lavorarci ancora. Il piano era di fare un tour in Oriente, dall’Egitto a Bombay, alla Thailandia, e registrarle lì. Un primo assaggio, per vedere come venivano. Ovviamente non lo abbiamo mai fatto».
Plant: «Ci piaceva viaggiare ed esplorare. Non ci potevamo certo considerare degli antopologi o cose del genere, ma diciamo che conoscevamo qualche ottimo bordello in Oriente».
“Infilare il calco del pene di Jimi Hendrix fatto da Cynthia Plaster Caster nel culo di una ragazza in qualche hotel di Detroit è stato divertente. Non mi ricordo chi è stato, ma mi ricordo che c’ero.” Robert Plant
Frequentare bordelli è più in linea con il mito dei Led Zeppelin che suonare con la Bombay Symphony Orchestra.
Plant: «Si possono fare molte cose in un giorno».
Al tempo c’erano anche le groupie, come non ce ne sono più state dopo. I giovani fan probabilmente avranno l’impressione di essere rimasti fregati.
Page: «Nel senso che le cose sono cambiate: prima era sesso droga e rock&roll e ora è preservativi, niente droghe e rock&roll? (Ride). Vuoi dire che i Led Zeppelin sono soprattutto questo?».
Esatto. Era veramente così favoloso come se lo immaginano i vostri fan?
Page: «Devi chiederlo a Robert. (Ride)».
Plant: «L’epoca delle GTO’s di Pamela Des Barres, e come si intitolava quel disco di Frank Zappa? 10.000 Hotels? “Sono stata a letto con Robert Plant”? Sì, infilare il calco del pene di Jimi Hendrix fatto da Cynthia Plaster Caster nel culo di una ragazza in qualche hotel di Detroit è stato divertente. Non mi ricordo chi è stato, ma mi ricordo che c’ero. Era l’amore libero».
E oggi è finito, giusto?
Plant: «Beh, credo che oggi ci sia un atteggiamento completamente diverso. Proprio ora che sono al massimo delle forze… (Ride). È stato bello. Quell’idea assurda secondo cui il cantante rock doveva essere sempre esagerato, il modo in cui venivo visto negli anni ’70… Era divertentissimo. Per molto tempo non sono riuscito a prendermi sul serio, perché gli altri della band mi facevano a pezzi e mi ridevano dietro».
È vero che ti chiamavano Percy?
Plant: «Mmmmm».
Dall’eroe Percival?
Plant: «Credo avesse a che fare con le mie parti anatomiche. A quell’epoca, però. Forse ora non mi chiamerebbero più così. Non lo so. (Ride)».
Visto che parliamo di leggende sui Led Zeppelin, per anni gruppi di fondamentalisti religiosi hanno detto che in Stairway to Heaven ci sono messaggi satanici registrati al contrario.
Page: «No comment (sospira)».
Plant: «Ma chi farebbe mai una cosa del genere? Non devi avere proprio niente da fare per pensare che qualcuno possa fare una cosa simile, soprattutto in Stairway. Voglio dire, siamo così fieri di quella canzone, è stata fatta con un’intenzione così positiva che l’ultima cosa che ci verrebbe in mente è… Trovo sia una cosa disgustosa, sai? Ma è molto… americana. Nessun altro in nessuna altra parte del mondo è mai arrivato a dire una cosa del genere. Se i messaggi registrati al contrario funzionassero davvero, credo che ce ne sarebbe uno su ogni disco nel mondo, e cioè: comprami!».
Page: «Hai colpito nel segno. Non c’è altro da aggiungere».
Jones: «Dopo un po’ finisci per fare di tutto per fare incazzare questa gente. Vai in giro a dire: “Sì è vero, se suoni la traccia numero otto a 36 giri al minuto sentirai un messaggio”, loro vanno a casa e ci provano. Le band inglesi sono molto ironiche e sarcastiche in genere e quando cominci a scoprire la mancanza di ironia e di senso dell’umorismo dell’americano medio, non puoi resistere. È un bersaglio troppo facile».
C’è anche il risvolto della medaglia. I fan pensano che Il martello degli dei, la vostra biografia non autorizzata di Stephen Davis sia il tributo definitivo ai Led Zeppelin. Ma immagino che voi siate meno entusiasti.
Page: «Una volta l’ho aperto su una pagina a caso, ho cominciato a leggere e poi l’ho buttato dalla finestra. Vivevo sul fiume a quei tempi, quindi credo che sia arrivato proprio in fondo al mare (ride). È andata proprio così. Non me ne fregava niente di leggere quelle cose, era puro masochismo. È solo un libro scandalistico, non c’è niente dello spirito ironico della band. Nelle parti che ho letto era completamente assente. Capisco cosa vuoi dire, i fan lo leggono perché gli interessa, e in fondo non c’è fumo senza arrosto. Ma non è una ricostruzione accurata».
Considerando tutto questo, e la reputazione che avete, credi che la gente oggi riconoscerebbe i Led Zeppelin se fossero ancora in giro?
Plant: «Ovviamente no. Non può assolutamente essere la stessa cosa. Adesso forse suoneremmo in qualche bar di San Antonio, chi lo sa? Saremmo irriconoscibili. Potremmo andare avanti altri dieci anni a suonare Black Dog? Non credo, forse solo se la facessimo come la fanno i Dread Zeppelin, allora credo che sarebbe divertente. Ma noi suonavamo Stairway to Heaven in versione reggae durante i soundcheck quando Tortelvis era ancora magro».
Page: «Credo che il nostro marchio di fabbrica si riconoscerebbe. La voce di Robert è il suo marchio di fabbrica, e spero che lo stesso si possa dire della mia chitarra (ride).Anche se avessimo fatto molti cambiamenti e modificato il nostro approccio credo che ci sarebbe un indizio rivelatore dei Led Zeppelin, qualcosa che li avrebbe resi immediatamente riconoscibili. La qualità musicale dei quattro musicisti».
Quindi qual è per voi la caratteristica principale della band? Quello che rende i Led Zeppelin e la loro musica così unici?
Plant: «Muddy Waters sosteneva che nessuno aveva più il blues dentro. Forse oggi che siamo arrivati alla seconda o terza generazione di zeppeliniani la gente ha perso il filo del discorso. Forse non sentono la musica nello stesso modo. Ma noi sì. Avevamo ben chiara quella sensazione. Era una dichiarazione di intenti forte e chiara. Un’elegante cospirazione, se vuoi. E a volte ha funzionato molto bene. Era molto sincera e gli abbiamo dato una nuova personalità».