Solo un momento, che devo vedere dove è finito Erlend. Prima stava controllando le piante in giardino, ma non so se è ancora lì». All’altro capo del telefono risponde la madre di Erlend, che di cognome fa Øye ed è il rosso dei Kings of Convenience, il duo norvegese strumentale piacevole e intrigante diventato famoso all’inizio degli anni ’00. Già, dove è finito Erlend? Si è trasferito a vivere a Siracusa, fa il bagno in mare anche a metà ottobre, si dedica alla raccolta delle olive e al suo giardino di pini marittimi, palme delle canarie e carrube. E non ha smesso di scrivere musica, anzi: l’anno scorso ha pubblicato il suo secondo album da solista, Legao, e porta avanti il progetto di un album di canzoni in italiano.
Sembrava aver messo una pietra sopra ai Kings of Convenience e invece ad aprile lui ed Eirik Glambek Bøe hanno iniziato a riproporre dal vivo in giro per l’Europa tutto Quiet Is the New Loud del 2011. Qui in Italia hanno suonato da poco, per due date a novembre: «L’occasione è stata l’uscita del libro di Ørjan Nillsson proprio sulla nascita del nostro secondo album», racconta Erlend, «ci era piaciuto discuterne e abbiamo riscoperto un lavoro dal mood decisamente vario». Il rischio di assistere alla classica operazione “revival”, che fanno i gruppi quando hanno perso la vena creativa, sembra dietro l’angolo. «Ti assicuro che di nostalgia ce n’è davvero poca. Ciò che mi piace di più è poter suonare tutto un album dall’inizio alla fine, perché in genere ai concerti si cerca solo di far felici gli altri – membri della band e pubblico – suonando i pezzi che vanno di più, e così si finisce che si dimenticano quelli più difficili da eseguire dal vivo. Ma la cosa più bella di questo esperimento live è che ci ha fatto venire voglia di comporre nuova musica. E lo facciamo tra una pausa e l’altra delle prove».
Sul perché abbiano scelto proprio Quiet Is the New Loud e sulla sua influenza sul cosiddetto new acoustic movement, Erlend non ha molti dubbi: «Per me non è mai esistito. Ok, suonavamo una musica piuttosto triste, non eravamo una rock band e c’erano anche altri gruppi in Europa come noi, ma poi per me finiva lì». L’anno scorso, nel corso di un’intervista, Erlend mi confessò che, a volte, quando lavorava per i KoC gli sembrava di perdere tempo a risolvere questioni per così dire burocratiche. «Quando si è in due, dover far sempre approvare un nuovo pezzo a un altro è ovviamente macchinoso, ma il problema vero era che Eirik era troppo preso dalla sua famiglia, e aggiungo giustamente. Ora, invece, mi sembra che abbia la possibilità di dedicarsi di più al gruppo». Forse, dopo essere cresciuti assieme a Bergen e dopo tanti anni insieme, avevano semplicemente bisogno di una pausa: «Eirik è come un fratello: una persona che conosci da sempre, con cui litighi anche, ma che non puoi fare a meno di vedere».
Per scrivere il suo primo album solista in italiano, invece, ci si potrebbe immaginare Erlend impegnato tutto il giorno nell’ascolto di cantautori in lingua. «Ma no, al massimo ascolto qualche autore del passato. Mi sono innamorato della canzone italiana quando in Islanda ho ascoltato Non arrossire di Giorgio Gaber, anche se all’inizio confesso di aver creduto fosse in islandese!». E quando gli chiedi un motivo, uno soltanto, per cui scegliere la Sicilia come luogo dove vivere, al di là delle solite ragioni cibo-mare-sole, ti risponde senza esitazioni: «Perché qui, quando ordini il caffè, ti danno sempre un bicchiere di acqua gratuito. Penso che da questo gesto si capisca il senso dell’accoglienza di un intero popolo. Però nel resto d’Italia non è sempre così: per dire, una volta in aeroporto a Roma l’acqua dopo il caffè me l’hanno fatta pagare».