Ormai uno dovrebbe sapere cosa aspettarsi da un disco di Bob Mould. La solita, benefica, rassicurante scarica di elettricità punk/power pop di un uomo tutto sommato pacificato, capace di portarsi dietro la propria storia musicale e personale con la noncurante eleganza con cui indossa la sua tenuta d’ordinanza fatta di jeans, t-shirt scura e chitarra a V a tracolla. E sì: Blue Hearts, il nuovo album in uscita il 25 settembre e quattordicesimo a suo nome (senza contare quelli con Hüsker Dü e Sugar), dal lato sonoro non riserva sorprese. Rock’n’roll solido e fragoroso come può suonarlo uno che la formula per scrivere canzoni rumore+melodia da tre minuti-e-qualcosa l’ha interiorizzata ormai da quarant’anni. Ma c’è in realtà qualcosa di inedito, di positivamente rinfrescante e rinvigorente, e sta tutto nei testi.
A 60 anni, Mould sfodera un piglio polemico e apertamente politico che raramente aveva messo in mostra, nonostante tutta la rabbia che tracimava dalle sue canzoni di gioventù. «Vero, è esattamente così», ci dice dalla sua casa di San Francisco, nella quale si è rifugiato durante l’emergenza Covid dopo diversi anni trascorsi a Berlino. «Non voglio fare la figura di quello che annuncia pomposamente di aver pubblicato il suo disco più politico, poi vai a sentire e in genere si tratta di slogan riciclati di terza mano, tanto per apporsi la targhetta di radical fuori tempo massimo. Però avevo dentro un’urgenza di dire… no, proprio di urlare, di sputare fuori (ride, nda) tutta la preoccupazione, la rabbia, il risentimento per quello che sta accadendo. Nel mondo ma soprattutto nel mio Paese. Le canzoni del disco da questo punto di vista si sono scritte da sole. Mi bastava sentire le notizie alla radio appena alzato».
American Crisis, il primo singolo uscito qualche mese fa in pieno lockdown, avrebbe davvero potuto essere un 45 giri hardcore di quando avevi 20 anni.
Sai qual è il paradosso? È che a quei tempi, con tutto lo stare male, la frustrazione e lo schifo che io e tutti quelli come me provavano per quello che avevamo attorno, Reagan e tutta quella merda, non ho mai avuto il coraggio di essere così diretto, di chiamare le cose con il loro nome. Da un lato pensavamo che usare metafore e un approccio se vuoi più poetico, anche se suonavamo punk, aprisse più possibilità espressive. Dall’altro, tuttavia, si trattava soprattutto di insicurezza.
Proprio in American Crisis, canzone che peraltro avevi scritto per il precedente Sunshine Rock e poi tenuto da parte perché troppo cupa per un album dal tono ottimista, canti: “è stato brutto abbastanza crescere negli anni ’80 / eravamo marginalizzati e demonizzati / ho visto tanti della mia generazione morire”. Tutto ritorna con le stesse caratteristiche, o questa volta è ancora peggio?
Quando dico che ho già visto tutto questo, lo dico dal mio punto di vista di uomo bianco gay di 60 anni. Allora c’era un presidente di destra, quei cazzo di televangelisti e una malattia che veniva spacciata come castigo divino per quelli come me. Quei bastardi hanno segnato il me stesso adolescente, confuso sulla propria sessualità e impaurito. Sì, mi sentivo marginalizzato e demonizzato, così come oggi lo sono i neri, gli ispanici, gli immigrati in generale, i poveri e – proprio perché le cose non cambiano mai – le persone LGBTQ+. E mettici anche i giovani a cui hanno ipotecato il futuro e che dovranno fronteggiare l’emergenza climatica. I media sono infinitamente più tossici di allora, la differenza è che adesso la gente scende per strada e questo mi apre il cuore. Non voglio insistere troppo sul parallelo storico, ma la scintilla per questo disco mi è venuta nell’autunno scorso prima ancora del disastro della pandemia. Mi sono reso conto, a un certo punto che tutto, tutto mi ricordava l’autunno del 1983. L’incertezza, la disperazione di quel periodo. Il Covid, ovviamente, ha reso la situazione ancora più pesante.
L’assassinio di George Floyd da parte della polizia è avvenuto nella tua Minneapolis. Cosa hai provato quando hai visto quelle immagini?
Una sensazione surreale. Ho vissuto a due isolati da quel posto. La mia Minneapolis, anzi il mio Minnesota non è quello dei poliziotti che tengono il ginocchio sul collo di un afro-americano, non è quello di chi chiede coprifuoco e Guardia Nazionale. È quello di chi è sceso in strada a difendere i diritti di tutti.
Il titolo dell’album in prima battuta sembra malinconico (“cuori tristi”) ma c’è un’altra storia dietro, giusto?
Il blu, oltre a essere il mio colore preferito e avere un certo significato simbolico per la comunità gay, è anche il colore del partito democratico. Nel ’92 con gli Sugar pubblicammo un disco chiamato Copper Blue proprio prima dell’elezione che vide Clinton sconfiggere Bush padre. Sono scaramantico: perché non riprovarci? (Ride, nda) Ora, indipendentemente dalla fiducia che si può avere in Biden o nei democratici, l’essenziale è cacciare Trump e la sua cricca di fascisti e fondamentalisti cristiani. Ci giochiamo tutto con le prossime elezioni. Dobbiamo fermarli, dopo sarà troppo tardi. Io sono solo un vecchio punk-rocker che suona la chitarra, ma se anche un solo ragazzo, magari un ragazzo spaventato e insicuro e disilluso come ero io quarant’anni fa, ascolterà il mio disco e deciderà di andare a votare avrò dato il mio minuscolo contributo.