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Fabio Liberatori, l’uomo che ha fatto vibrare la musica di Lucio Dalla e degli Stadio

Le sperimentazioni col MiniMoog. Le session di 'Come è profondo il mare'. Gli stadi di Banana Republic. La passione per i synth. Verdone e Ivan Graziani. Abbiamo parlato con un pezzo di storia del pop italiano

Foto: Angelo Deligio/Mondadori via Getty Images

“In un marzo di polvere di fuoco” recitava la canzone forse più importante degli Stadio. Con un po’ di fantasia si potrebbe immaginare che Roberto Roversi, storico paroliere di Lucio Dalla, si riferisse al mese in cui quest’ultimo avrebbe dato l’addio al palcoscenico della vita.

Omaggiato all’ultimo festival di Sanremo come a quello di Berlino, Lucio è ancora punto di riferimento per tanti, soprattutto per chi ha lavorato con lui per una vita. Come gli Stadio, la storica backing band di Dalla. Un membro del gruppo non ha mai smesso di diffondere gli insegnamenti del suo mentore. Parliamo di Fabio Liberatori, uno dei tastieristi che hanno fatto la storia del “Dalla sound” e che continuano a sperimentare nel suo nome. Abbiamo deciso di farci raccontare un po’ di quella che è davvero una storia d’Italia in musica unica e irripetibile.

Quando hai incontrato per la prima volta Dalla?
Ero un ragazzino che studiava e suonava il pianoforte. Amavo la musica classica, il jazz, la musica che oggi si definirebbe prog. I miei idoli erano Emerson Lake & Palmer, Yes, Gentle Giant, Doors, Genesis, Tangerine Dream. Avevo una passione per i sintetizzatori, tanto che fui tra i primi ad usare il MiniMoog nelle produzioni discografiche italiane. Un amico, Pierluigi Germini, batterista con cui avevo suonato qualche volta e poi impiegato nella casa discografica RCA, sapendo di questa mia all’epoca non comune competenza mi spinse a presentarmi appunto negli uffici RCA per propormi come esperto di synth nel caso che ne avessero avuto bisogno, e così lasciai i miei dati e il mio telefono. Il caso volle che Lucio Dalla fosse in quel tempo a Roma per registrare proprio nei mitici studi RCA un album che poi si rivelò un capolavoro, Anidride solforosa, con i testi del poeta Roberto Roversi.

Dalla, fin da allora attento indagatore di tutte le novità, volle capire che cosa diavolo fossero questi sintetizzatori e fu così che un giorno mi convocarono per una prima session, tanto per sentire cosa si potesse fare con lo strumento. Col MiniMoog sottobraccio entrai nello studio timidamente e con molte palpitazioni. C’erano i migliori strumentisti e session men dell’epoca, e a un Dalla divertito e interessato feci sentire cosa poteva fare quel synth, e così registrammo diverse cose poi finite sull’album. Da quel momento Dalla mi volle nella band che stava organizzando per i suoi concerti e così entrai a far parte del gruppo che poi divenne Stadio.

Ufficialmente, se non erro, la discografia di Dalla ti vede in formazione nel 1977 proprio nel disco in cui Lucio farà tutto da cima a fondo, testi compresi: Come è profondo il mare. Una data e un disco importantissimi: che atmosfera c’era durante la realizzazione? Sapevate di star creando qualcosa di straordinario?
Sì, hai perfettamente ragione, le atmosfere dei primi dischi di Dalla erano a dir poco elettrizzanti, si sentiva una sua potenzialità a dir poco enorme. La cosa bella di Dalla è che aveva idee chiarissime su tutto, ma al tempo stesso improvvisava in modo strepitoso, ci faceva proporre liberamente tante idee che poi se approvate diventavano parte assai importante della produzione. Inutile stia qui a dire la straordinaria importanza, ad esempio, dell’apporto della ritmica Nanni-Pezzoli.

Qual è stato il tuo approccio con le tastiere in quell’album?
Mi piace ricordare il “fischio” del mio MiniMoog proprio nella canzone Come è profondo il mare, che sembra così “umano” ed ancor oggi credo emozioni.

È un capolavoro quel suono, ferma il tempo.
Lo ottenni portando ad auto-oscillare il filtro passa-basso del synth tramite l’emphasis, e accordando poi la tastiera in modo da ottenere la scala temperata e aggiungendo ad hoc il profondo vibrato del terzo oscillatore del MiniMoog e una giusta dose di portamento, potevo così ottenere una sonorità modulata molto suggestiva, almeno spero che anche per gli ascoltatori sia così.

È stato a partire da Banana Republic che è aumentato il peso degli Stadio all’interno dell’immaginario di Dalla, anche perché Portera e Curreri entrano in formazione proprio in quel momento. Anche se la band si forma ufficialmente nel 1981 avevate già pensato a mettervi in proprio durante quel tour, visto il grande affiatamento e l’oceanico successo di pubblico, cosa nuovissima per l’epoca?
Quello, come giustamente dici, è stato il punto di svolta per l’emancipazione della band, infatti Lucio cominciò a spronarci e man mano prendemmo coscienza che forse ce la potevamo fare. La tournée fu qualcosa di irripetibile, per la prima volta in Italia c’era la musica negli stadi e decine di migliaia di spettatori ogni sera. Ma una cosa fondamentale fu in particolare l’entrata di Ricky Portera nel gruppo: il suo incredibile talento, la sua personalità musicale portarono un apporto enorme al nostro sound e fu per Lucio una fortuna incredibile perché diede anche alle sue registrazioni un’impronta straordinaria, con assoli e idee che sono stati importantissimi nell’economia delle sue canzoni, per non dire dell’apporto durante i concerti.

Ho appena risentito la musiche di Borotalco ed è stato un tuffo al cuore. È molto difficile fare una colonna sonora che regga da solo soprattutto se si scrive per una commedia. Non a caso quell’anno ricevesti un Nastro d’Argento e un David di Donatello. Che ricordi hai di quell’esperienza che poi hai proseguito con successo?
Il mio lavoro di compositore di musica per film è partito da Borotalco. A ripensarci oggi mi pare quasi un sogno. Quando Verdone venne a un concerto di Dalla alla Mole Adriana a Roma propose a Lucio la sceneggiatura del film in cui la sua musica sarebbe stata protagonista. Lucio era già al top all’epoca, Verdone era un giovane ma assai promettente regista e comico. Dalla era davvero molto impegnato, per non dire della sua totale inesperienza nella scrittura di musica per film. Decise dopo qualche titubanza di accettare la proposta, ma volle che ad occuparmi della produzione fossi io. Mi disse che, essendo io l’unico del gruppo ad aver fatto regolari studi classici di musica al Conservatorio, sarei stato la persona adatta a prendersi cura del progetto. Puoi immaginarti la mia felicità e al tempo stesso la mia preoccupazione per la responsabilità, ma Lucio era fatto così. E in questo modo è nata la colonna sonora, in cui ci sono molti brani strumentali di Dalla presi in buona parte dai nastri delle sue canzoni, riadattandoli e sistemandoli al meglio, tagliandoli, ricucendoli, come puri commenti, o risuonandoli io stesso.

C’è una canzone degli Stadio da me composta, con testo di Dalla, che è la protagonista della storia e diversi miei temi originali. Lavorai praticamente da solo in studio, con l’ingegnere del suono e alla fine Dalla diede il placet e si andò al missaggio. Il successo del film fu quello che sappiamo, con i premi, la simpatia del pubblico e alla fine di tutto, un giorno Verdone mi chiamò e mi disse, soddisfatto del lavoro: «Io a te non ti mollo».  In tutta sincerità io, pur onorato e strafelice, non avrei mai pensato che qualche tempo mi avrebbe chiamato per Acqua e sapone, iniziando il rapporto che ci ha uniti, con qualche interruzione, fino all’avvento del suo attuale produttore, Aurelio De Laurentiis, col quale la mia collaborazione è al momento terminata.

Tu partecipi ai dischi di Dalla solo tre volte: la terza è per 1983, un disco piuttosto controverso che ha segnato un momento di crisi nella produzione di Dalla per stessa sua ammissione. Ascoltandolo oggi però sembra che parli alla nostra situazione attuale, soprattutto la title track, e che quindi quello che era un disco in cui Dalla parlava solo a Dalla poi è diventato Dalla che parla al pubblico del futuro. Tu che impressioni hai avuto registrandolo?
In realtà è uno dei dischi che adoro di più, di una complessità ideativa e strutturale notevole. Ritengo la canzone 1983 uno dei capolavori della produzione di Lucio, una atmosfera già decadente e struggente che dà i brividi. Scrissi la partitura di orchestra per quell’album, registrai allo Studio Forum un’orchestra di archi speciale di 40 elementi, da brivido davvero, almeno per me. Una curiosità: Lucio non volle sentire cosa avevo scritto per l’orchestra fino al giorno della session in studio, non sapeva nulla di quello che avevo combinato! Che tempi… Per fortuna gli piacque tutto, ricordo che quasi tremavo per la paura di non essere stato all’altezza di un compito così importante, ma quando Dalla sentii tutto non cambiò una nota, e non posso dimenticare il suo sguardo tranquillo mentre mi diceva che sapeva che non l’avrei deluso. Momento da sogno, impensabile per me.

Secondo te 1983 è stato l’inizio del periodo “tecnologico” di Dalla? Diciamo il disco con cui si era stufato di un certo modo di fare musica e in cui cerca una via anarchica, proiettata nell’era digitale, in cui l’artificio è il reale e il reale oramai artificio?
Hai ragione, credo sia proprio così. Iniziavamo ad usare batterie elettroniche – nel finale di 1983 la favolosa Roland TR-808 – molte parti di synth, ma come dicevo anche una bella dose di grande orchestra vera, un mix molto interessante per l’epoca.

Credo che in questo caso le tue tastiere abbiano fatto la differenza. A cosa eri tecnologicamente interessato all’epoca? Ricordo che eri molto ferrato nell’uso del PPG…
Ho fatto del mio meglio, grazie a un geniale imprenditore musicale riuscii ad avere per primo in Italia con un trasporto avventuroso in auto dalla Germania il PPG 2.2, preso direttamente dalla piccola fabbrica dell’ingegner Palme, dal suono inimitabile e all’epoca unico, grazie all’utilizzo per la prima volta in uno strumento portatile della sintesi additiva, che ha una generazione basata sulla somma di sinusoidi e che disponeva di una ricca wavetable.

C’è da dire che gli Stadio da questo punto di vista avevano già intercettato la situazione con Acqua e sapone. È a tutti gli effetti uno dei più grandi brani synth pop italiani, uno dei primi tra l’altro: e non risulta ancora oggi datato. Come mai avete pensato, in quell’occasione, di mettere al primo posto i synth?
Quella canzone è stata una pietra miliare per il gruppo, è vero. Il SCI Prophet, il MiniMoog e il PPG Wave 2.2 sono le pietre miliari di quel sound, così potente e però anche piacevole, ancora oggi, come dici.
È una delle composizioni di Gaetano Curreri che adoro di più insieme a quelle del primo album degli Stadio. Ancor oggi viene ricampionata e utilizzata in produzioni anche dance.

Parlando ancora di singoli degli Stadio, nel 1984 è la volta di Allo stadio, con la quale partecipate a Sanremo giungendo ultimi. Come vi siete vissuti quell’esperienza?
Quello fu per me un momento poco felice, perché non credevo affatto nel brano, che fu un po’ imposto da Dalla, mentre noi volevamo portare un’altra canzone. Ma non ci fu nulla da fare, e anche se oggi è ormai un brano storico, amato e che ha conquistato la simpatia dei fan, ritengo che sia stata una scelta assolutamente sbagliata. Tanto più mi dispiacque perché non eravamo stati noi a scegliere, alla fine.
Cose che capitano nella vita delle band quando si è in contrasto con i produttori e la casa discografica…
In piccola parte fu un fatto che influì sulla mia decisione successiva di abbandonare il gruppo.

Senza dubbio il 1984 è stato l’anno in cui gli Stadio si sono finalmente emancipati da Dalla. A parte l’uscita de La faccia delle donne, è chiaro che la pubblicazione del Q Disc Chiedi chi erano i Beatles vi mise definitivamente nell’olimpo della canzone italiana. Dopo questo disco però tu abbandoni la band, mentre la band in un certo senso cercherà di abbandonare Dalla per cercare di farsi più spazio e di essere indipendente, ma ci riuscirà solo molto tardi, cinque anni dopo. Poi collaborerai saltuariamente con loro in altri dischi degli anni ’90. Come mai hai scelto di lasciare gli Stadio proprio in un momento così propizio?
Ancora oggi ho lo stesso rimpianto di allora, ma sentivo che avrei dovuto farlo perché lo stile musicale si stava un po’ distaccando da quello originario ed era giusto che la band crescesse con elementi convinti. Inoltre l’attività nelle colonne sonore mi stava prendendo moltissimo, e così, pur restando sempre con il cuore nel gruppo, feci il grande passo dell’addio. Ma dati gli ottimi rapporti siamo sempre restati in contatto e abbiamo negli anni fatto tante bellissime collaborazioni.

Ma secondo te Dalla ha nuociuto al successo degli Stadio? Non è forse che la sua ingombrante posizione vi ha fatto percepire dalle masse come la backing band di Dalla e null’altro? Ostacolava o no il vostro sviluppo come band? Ci racconti qualche aneddoto in questo senso?
Difficile pronunciarsi in un senso o nell’altro. Dalla era certo un po’ ingombrante, talora forse un po’ dispotico, ma certo dava indirizzo e ispirazione di grandissima qualità musicale e produttiva. Penso che non esista in questa valutazione una realtà oggettiva indiscutibile, ma secondo me il distacco era inevitabile se davvero si voleva dimostrare la personalità del gruppo e ipotizzare una carriera veramente autonoma.

Chiaramente gli Stadio furono fagocitati anche dal delfino di Dalla, ovvero Ron. Tu hai inciso ben quattro dischi con lui. Quale pensi sia il disco in cui Rosalino spinge l’acceleratore? E quanto di Ron è entrato nella musica degli Stadio?
Ron era un altro asso nella manica di Lucio, e la sua è stata una collaborazione fondamentale, essendo un musicista completo e solido, un prezioso chitarrista acustico con aggiunta una buona capacità di arrangiatore e compositore. Penso che ne Al centro della musica ci siano già tutte le potenzialità dell’autore e che Calypso sia il momento migliore della sua produzione di quegli anni. Con gli Stadio c’è sempre stato qualche scambio di idee ed esperienze, non fosse altro che per le tantissime session vissute insieme.

Gli Stadio hanno avuto il gran pregio di essere dei talent scout: a parte Vasco che è una scoperta di Curreri c’è anche da segnalare Luca Carboni, con il quale tu realizzi uno dei dischi migliori della sua carriera ovvero …Intanto Dustin Hoffman non sbaglia un film. Com’era lavorare con Carboni? A un certo punto non era forse un membro onorario degli Stadio poiché firmava un bel po’ di testi?
Ah, io adoro quel disco! Mi piaceva così tanto lavorare per Luca, inoltre è una persona un po’ simile caratterialmente a me, un po’ schivo, amante della natura e della vita un po’ appartata. Gli devo tantissimo per i testi così validi che mi ha regalato per le mie canzoni, da C’è a Vorrei a Bella. Lui aveva grande fiducia nel gruppo e ci lasciava molto liberi, anche perché la presenza di Lucio era una garanzia per lui, e sapeva che quando magari esageravamo un po’ c’era poi sempre Dalla a metterci in riga.

Tra questi big con cui hai suonato, menzione d’onore a Ivan Graziani con il quale realizzi Piknic che è a tutti gli effetti un tuo figlioccio, avendo la caratteristica di un impianto sintetico massiccio. Ci racconti la sua realizzazione e come hai fatto a convincere Ivan a fare un disco così?
Incredibile, vero? Tutto nacque dai dirigenti RCA che mi convocarono perché cercavano un arrangiatore che al tempo stesso tranquillizzasse Ivan sulla sua facoltà finale di decidere cosa andasse bene e cosa no negli arrangiamenti, ma che al tempo stesso portasse una ventata di novità a un sound che altrimenti poteva rischiare di sembrare troppo fedele a se stesso e ripetere sonorità degli album precedenti. La stessa cosa mi successe con l’arrangiamento di Venere di Mario Castelnuovo, un lavoro di cui sono tutt’oggi molto contento. La realizzazione fu complessa, inusitata, venne realizzato un vero palco da concerto nello studio grande dell’RCA dove Ivan, il suo bassista e il suo batterista suonavano dal vivo le basi, con tanto di amplificazione poderosa e grandi casse dell’impianto… Pressione sonora fortissima, da concerto rock duro! Contemporaneamente nello studio accanto io in altro momento gestivo tutti i miei synth e creavo molte tessiture da accompagnare alla sezione ritmica che intanto poneva le basi dell’album. So che questo ha creato sorpresa nel suo pubblico, ma tutt’oggi rifarei le stesse scelte, perché credo ne sia venuto fuori un album molto interessante e assai personale dove c’è in realtà tantissimo di Ivan, forse anche più di quanto sembrerebbe. Ivan è stata una persona deliziosa, schietta, sincera, diretta, piena di forti sentimenti, e mi ha trattato molto bene e con stima, come non sempre capita nei vari lavori in giro per gli studi.

A parte questi artisti conosciutissimi ci sono anche un paio di cose che hai realizzato con personaggi che meriterebbero di essere rivalutati. Parlo di Tito Schipa jr e di Renzo Zenobi. Che ricordi hai di quelle esperienze?
Beh, con Tito Schipa jr è una cosa speciale davvero: il mio primo incarico come tastierista per un intero album professionale. È una persona estremamente colta e seria, appassionata di musica classica e gli sarò sempre grato per avermi dato quando ero così giovane e inesperto la possibilità di suonare le mie adorate tastiere elettroniche. Ancor oggi siamo in contatto ed è persona squisita oltre che compositore ferrato. Essere rispettati, incoraggiati e alla fine assai apprezzati da un musicista che era già famoso per la sua epocale opera rock Orfeo 9 è stata per me all’epoca una grande soddisfazione e una emozione particolarissima. Renzo Zenobi è un artista di grandissima sensibilità e poesia. Fui chiamato da Dalla, il suo produttore, per suonare le tastiere sull’album Telefono elettronico, un’altra bella esperienza, anche con Ron in evidenza in studio.

C’è anche una parentesi curiosa, quella con gli Effetto Notte.
Una produzione davvero peculiare. Grandi mezzi, e multimedialità tra le prime volte in Italia. Bei brani intensissimi, molto prog in un certo senso. Qui però è successa una cosa per me molto importante, perché il chitarrista dell’album era Pericle Sponzilli, il fondatore e leader di uno dei miei idoli storici prog, il gruppo Reale Accademia di Musica.

Esatto, la tua passione per il kraut e il progressive rock è viscerale, hai anche collaborato con la cantante dei Curved Air, per dire. È per questo che sei entrato nella rifondata Reale Accademia di Musica dandole nuova linfa vitale? Come vedi questo tuo nuovo cammino?
Attualmente vedo la Reale Accademia di Musica come la mia band definitiva, quella in cui penso di infondere tutte le energie creative possibili, nonostante il tempo che passa. Dopo Angeli mutanti del 2018, uscito dopo decenni dal primo mitico disco, in questi giorni stiamo lavorando al completamento del secondo album che potrebbe uscire entro il 2021. A Sonja Kristina, la favolosa voce dei Curved Air, sono state inviate dal nostro intraprendente discografico Vannuccio Zanella della MP Records due canzoni nella speranza che accettasse di cantarle, e proprio in questo ultimo periodo ho accettato con entusiasmo di partecipare a un CD che uscirà presto in cui Arturo Stalteri affida ogni composizione a un artista diverso che la interpreti e la completi.

Ecco, la tua collaborazione con il mitico Arturo Stalteri, la mente dei mitici Pierrot Lunaire, è fondamentale ma molto diversa da ciò che è sopra detto, soprattutto per il tentativo quasi di creare una sorta di hauntology sintetica, di modernariato proiettato in un futuro in cui le soffitte esplodono di tecnologia accumulata nel tempo, obsoleta o meno, sino a che questa diventa l’attualità. E questo il vostro obiettivo o sbaglio?
Arturo è uno dei migliori pianisti italiani, con una tecnica classica da invidiare – è stato allievo del concertista Aldo Ceccolini – ed è un musicista raffinato e colto, è un piacere lavorare con lui. Le cose che facciamo insieme rappresentano per me la vera anima della musica che contiene una sostanziale parte di ricerca di nuove esperienze compositive e realizzative, che esulino da ragionamenti puramente commerciali. Per gli strumenti hai visto giusto, ben prima della moda degli anni 2000 abbiamo cercato e riparato i veri, grandi synth ed effetti del periodo d’oro del rock e del prog, in questo devo assolutamente ringraziare lo Studio Q-Room di Sven Miracolo a Bolzano, che è lo studio top in Italia per la straordinaria disponibilità di decine e decine di sintetizzatori e strumenti elettronici, dove sono venuti anche artisti tedeschi a incidere con quei gioielli di tecnologia irripetibile.

Parlando invece della tua carriera solista è indubbio che tu sia un pioniere della new age: ecco, avendo anche partecipato a situazioni a fianco di Harlod Budd, recentemente scomparso, che ne pensi della deriva pop di questo genere nelle varie diramazioni HD della musica elettronica odierna? Calcolando anche che le tue cose create per la collana Commenti Musicali negli anni ’80 erano davvero ad altissima definizione…
In realtà penso ai miei due album solisti Empire Tracks e The Asimov Assembly come dischi di musica perlopiù elettronica con delle prove di canzoni decisamente prog. Ovviamente nel tempo, come accennavi, si sono venute creando frange musicali semplificate rispetto alle  composizioni veramente originali e innovative, questo è un fatto fisiologico per tutte le sfaccettature più commerciali del mercato musicale contemporaneo. Se si pensa che nel pattume trap che sentiamo oggi sono malamente sfruttate e scimmiottate tecniche musicali, sonorità e strumenti che hanno fatto la gloria della musica progressiva non c’è da stupirsi se si è creato in passato un lungo filone soft new age dal ridotto valore intrinseco dal punto di vista compositivo.

E a questo proposito dovendo tornare indietro nel tempo rifaresti Borotalco o ti butteresti direttamente nell’avanguardia?
Rifarei Borotalco, il lavoro con Verdone è stato troppo importante per la mia vita, e con lui ho vissuto anche per decenni un’amicizia particolare e sincera, molto bella.

Ma quindi la musica come si sta muovendo oggi? Un passo indietro oppure un passo avanti?
Forse indietro: che ne dici?

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