Fabrizio Moro è immerso nel tour in store per tutta Italia. Ma è anche immerso in una fastidiosa cervicale che gli ha bloccato un braccio. «Mai avuto un dolore così, sarà l’età!», scherza appena risponde al telefono. Ma è uno tosto, Moro. Ascolta metal, sul palco si dà al 100% sempre. E ha anche scritto un disco di getto, Figli di nessuno, che arriva dopo un anno – a dir poco – intenso. Tra Sanremo e l’Eurovision, con un tour di un centinaio di date, Moro è stato parecchio impegnato. Ma questa volta, non ha avuto problemi a scrivere e comporre, anche grazie, dice lui, a una “mano invisibile”.
Come sei uscito dal 2018 e come sei arrivato a questo album?
In realtà arrivo da due festival di Sanremo, non uno solo. Quello con Ermal non dovevamo neanche farlo, ma poi è arrivata la voce a Baglioni e ci ha chiamati. Quindi la pressione di quello è stata doppia… Prima di entrare in studio sono sempre agitato, ogni volta che inizia la produzione di un album ti senti responsabile, devi tirar fuori la punta di diamante. Io di solito sono uno che ci mette tanti mesi, in più, appunto, il doppio Sanremo, 130 date, l’Eurovision… Metti tutto insieme! invece questo disco mi è sembrato benedetto. Ogni volta che imbracciavo la chitarra o mi sedevo al piano usciva qualcosa di ispirato. Non è mai accaduto in 10 album, è la prima volta che non soffro per scrivere un disco.
C’è una ragione, secondo te?
Penso che non sia un caso se il primo singolo parli della fede. Io credo molto in Dio, credo che ci sia stata una mano invisibile…
Pensi molto quando scrivi? C’è un momento in cui fai dei programmi?
È talmente bello quel momento che non esiste nient’altro. Non mi faccio nessuna paranoia, non penso nulla. È un momento unico, in cui entro in contatto con me stesso. Io sono abbastanza chiuso, scrivere mi permette di far uscire delle cose, dei sentimenti, che altrimenti non riuscirei ad esprimere.
È un momento egoista, quasi…
Serve a me, intanto, e a nessun altro. Non penso a chi sta lì ad aspettare il disco, scrivo io e basta. Il ragionamento altruista magari lo fai in fase di produzione, dove sperimenti, ti allinei un po’ ai suoni del momento. La scrittura è più libertà.
Pensi ai live, quando componi?
Ogni volta che produco un album già penso ai live: tutti i suoni, tutto quello che ho fatto in studio, servono a portarlo in giro. Oggi è quello il vero momento, tutto quello che ho raccolto in questi 15 anni è avvenuto attraverso i concerti. Il mio zoccolo duro l’ho costruito a Roma, grazie al percorso che mi ha portato dalle birrerie ai palazzetti.
Come ti ha accompagnato la città?
È stata fondamentale. È partito tutto da lì, le prime volte che suonavo. Prima di pubblicare i dischi, mi muovevo con il passaparola, piano piano le persone si moltiplicavano. Sono nato prima come artista da palco che da studio.
Ti manca un po’, la birreria?
In realtà io sto sempre bene, in qualasiasi posto. Dai pub all’Olimpico, non soffro la diversificazione degli spazi.
Siamo quasi all’Eurovision, che consigli dai a Mahmood, visto che l’anno scorso non vi siete piazzati male?
Di godersi il momento, è un consiglio che darei a tutti. Non pensate alla classifica, sono cose che non tornano più. È un momento unico.
È lo stesso consiglio che daresti a Ultimo, visto quello che è successo a Sanremo?
Mah, ogni anno succede qualcosa a Sanremo che poi sparisce alla fine del Festival. La vicenda mia e di Ermal è morta quando abbiamo vinto, la polemica legata a Ultimo è morta quando ha iniziato a riempire i palazzetti. Lasciamo che siano queste cose, la musica, a parlare.