Fuori dal tempo. La definizione può suonare stereotipata, ma per un artista come Amerigo Verardi calza alla perfezione. La sua musica, le modalità con cui la crea e i ritmi di uscita dei suoi dischi, l’approccio al mercato e a tutto il baraccone di quello che per consuetudine ormai slegata dalla realtà viene ancora chiamato rock indipendente sono quanto di più inattuale si possa pensare nel 2021. Il che non significa vecchio o sorpassato. Se si concede la giusta attenzione a lavori complessi e multiformi come Hippie Dixit (pubblicato nel 2016, e già considerato un classico della psichedelia italiana degli ultimi decenni) e al nuovo, splendido Un sogno di Maila, uscito il 12 febbraio, ci si rende conto di quanta freschezza e immaginazione si celano dietro i flussi di coscienza sonori di Verardi.
Bisogna avere pazienza, una predisposizione non troppo sviluppata dal bulimico ascolto odierno. Solo così si colgono i lavori di cesello sulle melodie, la fluidità con cui ogni movimento si salda all’altro (il nuovo album è pensato come un’unica traccia da 77 minuti), le associazioni spiazzanti nei testi, il citazionismo colto e divertito sia nella musica che nelle parole (dall’ouverture pinkfloydiana e a un sitar che richiama Blue Jay Way dei Beatles passando per nomi e cognomi dichiarati esplicitamente come Jimi, Janis, Brian Jones, Sticky Fingers nonché maestri riconosciuti come Franco Battiato e Claudio Rocchi). Verardi, peraltro, ha sempre viaggiato alla sua velocità. Negli anni ’80 dei lontani esordi con gli Allison Run (dei quali è stato pubblicato pochi mesi fa dalla Spittle un box set di tre CD che ne racconta la storia, intitolato Walking on the Bridge) e Betty’s Blues, nei ’90 quando con i Lula peraltro sfiorò il successo a cavallo tra universo alternativo e mainstream, e in un presente che oggi appunto ha i contorni sfuggenti e fascinosi di Maila.
«Il disco non è nato come un concept», ci racconta via zoom dalla sua Brindisi, «la mia intenzione iniziale era di fare un disco interamente strumentale e sperimentale. Alla fine, però, man mano che registravo vedevo che venivano fuori canzoni vere e proprie. Il filo conduttore l’ho elaborato solo successivamente. Ho cambiato modo di comporre e incidere, negli ultimi anni. Con Un sogno di Maila ho portato a compimento un processo che in parte era già iniziato con Hippie Dixit. Registro tutto di fila, nel mio studio casalingo, senza piani a tavolino e senza filtri. Tendo a vedermi più come un medium che cattura idee e sensazioni che girano per l’aria, più che come un deus ex machina che organizza tutto. Per me è una metodologia nuova e affascinante. Poi dopo rifinisco quello che ho registrato, ma senza esagerare. Dal punto di vista sonoro mi definirei un professionista dello sporco, insomma non sono esattamente Peter Gabriel…».
Il lockdown della scorsa primavera ha influenzato la scrittura dei pezzi?
No, perché in quei mesi il lavoro era già su nastro, diciamo che non avendo altro da fare ho impiegato quel periodo per lavorare di cesello e finire l’album prima di quando avrei immaginato. E comunque quando compongo io mi trovo sempre in una situazione di solitudine mostruosa.
Chi è Maila? Possiamo considerarla il compimento di un percorso che spesso ti ha visto utilizzare personaggi femminili come una sorta di archetipo e magari di contraltare? Penso alle Allison, Betty, Lula, Marilù Darkene che spuntano tra i nomi delle tue band e i titoli delle canzoni…
Sì, è cosi. La figura femminile, nella sua essenza, per me ha un fascino infinito ed è sempre stata fonte di ispirazione. Nella realtà, Maila è una ragazza che lavora in un bar dove vado ogni tanto a prendere il caffè. Ci avrò scambiato qualche parola, ma ne ho osservato i gesti. Mi colpivano la profondità, la gentilezza, il sacrificio che dimostravano. Da dove deriva questa grazia infinita che hanno le donne? Purtroppo non siamo abituati a mostrare la nostra parte femminile. La mia ha bisogno di esprimersi tramite la musica. Non mi piace ostentare mascolinità, quello che voglio esprimere è fragilità, dolcezza. Maila in fondo è un pretesto, dietro ci sono anche io in qualche modo.
I tuoi testi sono sempre contraddistinti da accostamenti spiazzanti di termini e immagini. Viene da pensare all’utilizzo di tecniche come il cut-up.
Più una sorta di cut-up mentale, diciamo. Seguo questo metodo da quando ho iniziato a scrivere in italiano, quasi trent’anni fa. Butto giù pagine su pagine di frasi, di immagini liriche, poi le assemblo scegliendo quelle che vanno al di là delle frasi stesse. Ma cerco di mantenere sempre una certa continuità.
Spesso ricorrono citazioni che si rifanno a un certo immaginario musicale e controculturale anni ’60-70. Quanto è importante per te, ancora oggi, quel mondo?
Tantissimo, è il mio background. Nell’album quei riferimenti sono utilizzati per scandire momenti di passaggio fondamentali nella vita di Maila. Io ho iniziato ad appassionarmi alla musica con gli Stones, i Doors, i Velvet Underground, i Beatles. Tutta roba che mi è entrata nel sangue. Non mi ritengo un cultore degli anni ’60, né un nostalgico, anche perché nei ’60 ci sono nato, ma sento ancora in quella musica una potenza che fatico a trovare oggi. Tutto, ovviamente, va sempre contestualizzato. Nel 1967 Hendrix era una bomba atomica, ma quegli artisti hanno avuto la fortuna di vivere in un periodo di cambiamenti epocali, in cui la separazione tra vecchi e giovani era netta. Navigavano un fiume molto diverso da quello stagnante e maleodorante di oggi.
Invece come hai vissuto gli anni in cui hai iniziato? Gli ’80 della new wave e della neopsichedelia…
Se ripenso al me stesso di allora, mi vedo come un privilegiato, una stella filante in un cielo magico. Un ragazzo che da Brindisi, dove ad ascoltare i Cure di Pornography eravamo se va bene in cinque o sei, sbarca a Bologna dove potevi sentire i pezzi new wave nei supermercati. Ti parlo del 1982 o giù di lì. Nei locali ogni sera potevi vedere gruppi nuovi che suonavano. Io ero andato a Bologna per seguire il sogno di un contratto con la Italian Records, ma quando ci sono arrivato quella prima scena wave era già finita. Ma non importava, perché avevo l’argento vivo addosso, mi è bastato cercare e trovare le persone giuste al momento giusto. L’ambiente bolognese era comunque stimolante. Vivevamo di musica e di sogni. Ero un principiante che non sapeva fare niente, ma ho avuto la fortuna di avere accanto persone che mi incoraggiavano a scrivere, a provarci.
Chi ti piaceva allora, dei tuoi contemporanei?
Amavo molto i Litfiba, prima che facessero il botto. Dal vivo erano magnetici, Piero era proprio bravo. Purtroppo i dischi non mi davano le stesse sensazioni. Stessa cosa con i Diaframma, tutta la scena fiorentina mi interessava. Fiumani dal vivo era carismatico, però poi dischi mi sembravano sempre un po’ piatti, prodotti male. La grande differenza tra gli ’80 e i ’90 stava proprio lì. Negli ’80 c’era poca dedizione a migliorarsi, poca attenzione per il suono. Sembrava che tutti si fossero dimenticati di come si registra e si produce un disco rock. E pensare che solo dieci anni prima c’era gente come gli Area! Molto entusiasmo, insomma, ma anche tanto dilettantismo. Ci si accontentava. Nei ’90 invece certe realtà sono maturate meglio, e in quel periodo sono venuti fuori dischi davvero straordinari per la musica italiana. Afterhours, Marlene Kuntz, CSI e tanti altri. C’era una spinta collettiva a migliorarsi, la competizione era incredibile. Non provavo invidia, quando sento delle grandi idee e ne riconosco la bellezza rendo grazie. E in quegli anni di idee e bellezza e talenti la musica italiana era ricchissima.
E oggi? Come ti ritrovi nel sistema musica attuale?
Che vuoi che ti dica? Ho 55 anni, e questo inevitabilmente mi condiziona. Ma mi permette anche un po’ di fregarmene e seguire semplicemente il mio istinto. So perfettamente di non poter scrivere per un pubblico di giovani, quando ero ragazzo per me un cinquantenne era qualcuno che non respirava più. Hanno altri che scrivono per loro, e va benissimo così. Quello che posso fare è tirare fuori il fanciullo che parla il linguaggio del gioco, quello è universale e senza tempo. Ma ripeto, il fattore età condiziona tutto. Riconosco che oggi, anzi ormai da diversi anni, trap e rap siano la cosa più forte in Italia, non esiste musica alternativa che abbia quella valenza. Tuttavia, è anche musica molto facile da equivocare. Ci sono quelli geniali come Salmo, e quelli che invece Salmo non sono. Sono espressioni che mi interessano molto, ma oltre un certo livello non riesco a interagirci. Non ce la faccio proprio (ride). Mi piace quella sfrontatezza, comunque. Tanti di questi rapper e trapper vengono da situazioni che noi dell’indie rock anni ’80 o ’90 non saremmo neanche riusciti a immaginare. Nascono in contesti degradati, in un’epoca in cui sei annegato nel materialismo anche quando sei un poveraccio. Chiaro che poi quando hai successo ti viene da sbatterlo in faccia al mondo. Ma quella sfrontatezza è la stessa del punk, la stessa degli Stones nel ’63.
Dal materialismo alla spiritualità, che invece mi pare caratterizzi da tempo il tuo modo di esprimerti in musica. Non è raro trovare nei tuoi testi riferimenti agli Hare Krishna, al Kali Yuga, ecc.
La spiritualità fa parte del nostro essere. Come la pelle, gli occhi, i sensi in generale. Nel mondo occidentale quelli spirituali sono muscoli che non vengono sviluppati, restano flaccidi. Come avere una macchina meravigliosa e usarla per farci il giro del cortile. Negli ultimi anni ho imparato a collocare e mettere ordine in questa tensione, che peraltro ho sempre avuto. In questo senso gli incontri con persone come Claudio Rocchi sono stati fondamentali. Con Claudio ho avuto la possibilità di fare lunghissime chiacchierate, i suoi consigli mi hanno aiutato a capire cose che mi frullavano disordinatamente in testa da tempo. Da questo punto di vista gli devo molto.
Quando sarà possibile suonare nuovamente dal vivo, porterai in giro Maila?
Ecco, devo dire che la pandemia mi ha davvero rovinato i piani. Non nel senso che potresti pensare, ma proprio in quello opposto. La mia intenzione era, quando sarebbe uscito l’album, annunciare che basta, non sarei mai più andato in giro a suonare. Lo avrei fatto quasi come un gesto politico. Non mi interessa più andare avanti in questo modo. La musica e la vita mi danno mille altre gratificazioni, non sento più l’esigenza di andare in tour con cachet che ledono la dignità di chi suona, con le stesse difficoltà di quando avevo vent’anni, tirando su due spicci che poi spendo per riparare il furgone quando torno a casa. Non lo ritengo giusto, ma non per me: per chiunque. Si tratta di un discorso complesso, coinvolge tanti aspetti della vita professionale di un musicista, dalle agenzie di booking alle radio. Mi spiace per chi si trova ancora a lottare contro questo genere di cose per sopravvivere, io me ne tiro fuori. Quindi insomma, volevo fare la mia dichiarazione di principio, ma poi ci ha pensato la realtà a metterci tutti sullo stesso piano.