Si può vivere di musica, togliersi molte soddisfazioni, raccogliere numeri non indifferenti e pubblicare sette album senza aver mai partecipato a un talent come X Factor, a un evento pop come Sanremo, innescato neanche per sbaglio una polemica o una shitstorm sui social, e nel frattempo condurre una vita lontana da eccessi, gossip e dissing ai colleghi?
Se vi chiamate Fast Animals and Slow Kids la risposta è sì. È un caso più unico che raro, non c’è dubbio, la band composta da Aimone Romizi, Jacopo Gigliotti, Alessio Mingoli e Alessandro Guercini. Sarà che vengono «da una collina di Perugia» e quini «non siamo fra quelli che si adeguano a qualsiasi posto»? Oppure che hanno avuto la possibilità di «svilupparci in un’epoca in cui ci si appassionava piano piano» e, strada facendo, «siamo entrati nelle vite di tanti, li accompagnamo e ci accompagnano»?
Una risposta definitiva non c’è. Però in questa intervista per l’uscita del loro disco Hotel Esistenza, 11 tracce effettivamente mai così varie e che nel complesso ne delineano un’identità profonda, abbiamo capito che col tempo non hanno perso aderenza con la realtà, ma sono diventati degli osservatori privilegiati. Così nell’album troviamo riverberi che spaziano da De André ai Nirvana, ma sembrano solo echi lontani di predecessori che li hanno aiutati con i loro esempi a raggiungere una definitiva maturità. «Oggi finalmente siamo noi».
Se il terzo disco è quello della maturità, il settimo a quale stadio dell’evoluzione di una band corrisponde?
Aimone Romizi: Noi siamo arrivati alla maturità con questo settimo disco. Più passano gli anni e meno sentiamo responsabilità. Al posto di appesantirci, ci sentiamo più leggeri. Siamo più concentrati sugli elementi musicali. E il contorno diventa secondario.
Perché non è sempre stato così?
Aimone: Una volta ci domandavamo: come sarà accolto questo disco, chi lo ascolterà, riusciremo a suonare in giro? Oggi ci domandiamo soltanto: ci piace, ci rappresenta? È un bel modo di crescere come band.
Un disco oggi, in un’epoca di singoli a ripetizione, è un atto artistico, di resistenza o di nostalgia?
Aimone: Potrebbe essere tutti e tre? (Breve consultazione tra i Fask). Il motivo per cui lo facciamo è perché in un disco ci sentiamo più rappresentati. Un singolo può mandare un messaggio, mentre l’album ne può esprimere moltissimi. Ci sembra la forma ancora giusta di approcciare alla composizione. Nel nostro caso, poi, ci abbiamo inserito tre anni di vita. Sì, in fondo ci sembra la forma più naturale per la musica.
Alessio Mingoli: Un singolo acquisisce tutto un altro significato rispetto a quando è all’interno di un disco. Infatti, quando esce un singolo diciamo : ascoltatelo anche all’interno del disco, perché potrebbe prendere tutta un’altra piega.
A livello musicale dove vi sentite più maturati?
Alessandro Guercini: Ci piace pensare che in questo album siamo riusciti a trascendere le nostre influenze musicali. Quando lo riascolto mi viene da dire: finalmente siamo noi. Una volta sentivo un pezzo e mi ricordava esattamente a chi ci eravamo ispirati, in Hotel Esistenza siamo riusciti a essere totalmente noi stessi. Poi ci sono tanti dettagli, come la chitarra usata in modo che risponda alla voce, che è tipico del blues. Sono venature che forse sentiamo solo noi, non credo neanche un nostro fedele fan se ne accorga.
Siete stati spesso definiti alt rock, in molte sue variabili, che è un genere ampio e variegato. Voi come vi definireste?
Aimone: Intanto alt rock suona bene. Dipende quale, però. Se si riferiscono all’alt rock all’italiana non ci sentiamo così dentro quel genere, che poteva essere degli Afterhours o dei Verdena, tra gli altri. Mentre in termini di alt rock internazionale ce lo sentiamo addosso, perché è la musica che abbiamo sempre ascoltato. E ci rientrano esperienze musicali molto ampie, ci fa sentire più comodi.
Il vostro primo EP Questo è un cioccolatino è del 2009, quindi festeggiate 15 anni di attività. Se vi guardate indietro c’è un po’ di rimpianto per quel mondo analogico?
Aimone: È una risposta complessa e anche molto personale. Per quel che mi riguarda la nostalgia permea tanto del mio immaginario. Tendo a essere molto nostalgico, quindi pensare adesso a quei primi anni di musica che si muoveva per piccoli club, dove dovevi tornarci sette volte prima che si riempisse, a me quel movimento dal basso manca. Anche come fruitore, non solo come musicista. Come band, invece, siamo fortunati perché dal vivo facciamo grandi numeri, siamo ascoltati sulle piattaforme (su Spotify hanno 230 mila ascoltatori mensili, ndr), abbiamo avuto la possibilità di svilupparci in un’epoca in cui ci si poteva appassionare piano piano. Siamo entrati nelle vite di tanti, li accompagnamo e ci accompagnano. Siamo soddisfatti di questo approdo.
Alessio: Se i Fask del 2009 si ritrovassero a cominciare adesso sarebbe un casino. Non siamo in generale così nostalgici, ricordando il percorso di cui parla Aimone. Siamo più nostalgici se pensiamo ai giovani che devono intraprendere oggi un percorso musicale.
Nel vostro percorso non ci sono talent, Sanremo, polemiche, dissing. E, come avete chiarito, «non siamo una band di protesta». Si può dire, dopo 15 anni, che i Fask sono dove sono e hanno quello che hanno solo grazie alla musica?
Alessandro: Sarebbe come farci un auto complimento. Ti posso dire che abbiamo sempre cercato di fare la nostra strada, anche stando lontani da quello che ci succedeva intorno. Non tanto per snobismo, ma per una nostra libertà personale. Così si riesce, nei limiti del possibile, a fare quello che ti piace e farlo nonostante tutto.
Aimone: Ho difficoltà a risponderti, perché sembra che sia stato qualcosa di preventivato. Ma per me non si è mai davvero coscienti del proprio percorso. Ammiro le persone che dicono: adesso farò questo e arriverò lì, poi farò quest’altro e… Abbiamo dei sogni e cerchiamo di portarli avanti. A noi ci ha tutelato un patto: il dover essere d’accordo tutti e quattro canzone per canzone. Ci deve sempre rappresentare complessivamente. A quel punto, non ci poniamo di fronte il mondo, non ci domandiamo se piacerà a qualcun altro.
Come cantate in Una vita normale, primo brano del disco: “Vuoi una vita normale e nessuno ti crede / se sei troppo normale nessuno ti vede”. Non avete mai cercato lo stupore a tutti i costi…
Aimone: È il nostro atteggiamento in un mondo dove tutto è diventato eccezionale. Il concetto di normalità è utile, può servire a spiegare certe dinamiche, ma chi è davvero normale? Nessuno. La normalità è la vita stessa. Da una parte c’è un senso di accettazione di ciò che siamo e che rivendichiamo rispetto alla società, dall’altra la voglia di vivere tutto nella maniera più naturale possibile.
Gli Aura e Marilyn, dopo l’eliminazione dai Bootcamp di X Factor, hanno detto: «La musica indipendente è morta e Manuel Agnelli l’ha uccisa». Che reazioni vi suscita questa dichiarazione?
Aimone: Mi viene da sorridere. Ma intendiamo con indie come genere musicale, con alcune specifiche che si sono affermate negli ultimi anni, oppure indipendente in quanto appartenenti a etichette? Si riferivano al Mei di Faenza o a un genere musicale che ha una certa attitude?
Alessandro: Io mi chiedo che senso ha cercare tutto questo in televisione. Credo che la loro frustrazione parta da un presupposto fallace, cioè che quel mondo a cui si riferiscono possa essere rappresentato da X Factor o da un talent. Non sono a fuoco già dalla scelta iniziale.
Aimone: Per la nostra formazione l’essere indipendenti era sinonimo di do it yourself, che passava dallo stamparsi i dischi da soli, trovarsi delle risorse per poterli realizzare o i concerti per suonare dal vivo. Non era quindi uno stile sono. Quando parliamo dell’indie che si è sviluppato in seguito, ci sono rimandi musicali comuni, è un genere. Se parliamo di X Factor è un contenitore che ha tutto fuorché l’indipendenza.
Avete mai pensato di partecipare a un talent o vi hanno mai chiesto di partecipare?
Aimone: Non è mai successo. Forse perché i Fask sono davvero indipendenti. Facciamo cose pazzesche, ma poi c’è un percepito generale che non è mai troppo televisivo o mediatico. Secondo me esistiamo perché esistono persone che ci ascoltano, che si connettono a noi e che, probabilmente, sono molto simili a noi. Tutto il resto, come ti dicevo, è contorno.
Dopo l’esplosione dei Måneskin c’è chi ha parlato di un ritorno del rock e delle band che suonano con gli strumenti. Voi avete percepito questo fenomeno?
Aimone: In termini numerici mi sembra di no. C’è sicuramente un dato interessante, se è verificato, sul numero di bassi venduti dopo che è diventata famosa Victoria De Angelis. Questo mi gasa parecchio, perché vuol dire che qualcuno di quelli lo suonerà e in futuro formerà una band. Il ritorno del rock però non lo sento. Un po’ perché anche gli stessi Måneskin con il rock hanno un po’ smesso, e un po’ perché il rock non se n’è mai andato veramente. Si pensa che sia morto, invece semplicemente se ne parla di meno.
Alessio: Il rock non è più di moda. Oggi che non gode di così tanta attenzione c’è più libertà di sperimentare e di esprimersi con forme sonore differenti.
Ma a Sanremo ci andreste?
Aimone: Ma certo, assolutamente sì. Parliamo di un Sanremo che ha tutt’altre specifiche rispetto ad anni fa. È diventato un enorme momento di comunicazione, uno dei pochi rimasti in Italia. Andarci significa avere una cassa di risonanza. È anacronistico porsi in opposizione. Bisogna, però, andarci con un pezzo che ti rappresenta, non solo per arrivare a più persone possibile. Con una storia coerente e che permetta a noi di crescere ancora.
Vi sentite maturi, ma il senso di spaesamento sembra rimanere. Come in Quasi l’universo, il secondo pezzo del disco: “Dentro di noi ci sta / quasi l’universo / ma a dir la verità / io un po’ mi sono perso”.
Aimone: Lo spaesamento ce lo avremo per sempre. Non si riesce mai a essere risolti nella vita, se non in brevi momenti. In questo brano, poi, ci rendiamo conto che dentro di noi esistono emozioni quasi infinite, ma che non sono mai come tutto l’universo. E forse tutto l’universo si raggiunge soltanto con le relazioni, come l’amore e l’amicizia. Puoi spingere finché vuoi, ma c’è bisogno di qualcosa che non è solo dentro di te.
Invece Festa mi ha fatto tornare alla mente Amico fragile di Fabrizio De André, con lui che cerca di fare discorsi seri e invece alla festa gli chiedono solo di suonare la chitarra, allora manda tutti a quel paese e ubriaco si chiude in un cascinale e scrive la canzone su questo senso di inadeguatezza a determinate situazioni.
Aimone: È assolutamente questo il senso. Per noi, naturalmente, è riferito a un luogo specifico diverso, però ci immedesimiamo nella “festa” di Fabrizio De André, che dev’essere stata reale perché la descrive troppo bene. Allo stesso modo per noi la casa di Ventotene esiste e c’è stata quella festa. Anche perché capita a tutti di ritrovarsi in contesti dove sei costretto a sostenere conversazioni che non sono il motivo per il quale eri lì. In questo, sarà che siamo perugini e veniamo da una collina, ma non siamo di quelli che si sentono sempre adeguati a qualsiasi posto.
Visto che siamo entrati nel disco vi lancio qualche altra suggestione che ho avuto ascoltando alcuni brani. Brucia, per esempio, mi ha richiamato, nell’atteggiamento, Territorial Pissings dei Nirvana: “Quando non sai cosa fare / brucia un centro commerciale / la tua vita adolescente / non potrà che ringraziare”. Uno sfogo?
Aimone: È vero, questo è il centro del pezzo. Territorial Pissings la suonavamo come cover nei primi tour e quell’energia incontrollabile è la stessa che abbiamo risentito in questo brano. Ma la questione che ci siamo posti è questa: le domande che ci facevamo quando avevamo 18 anni erano sbagliate solo perché avevamo 18 anni oppure perché non abbiamo più quel coraggio? C’è un lato istintivo che, crescendo, pian piano mettiamo sotto al tappeto. Vediamo cose orrende nel mondo e diciamo che è una merda, solo che la reazione finisce lì. Invece da ragazzini avremmo spaccato tutto. E quindi? Probabile che la verità stia nel mezzo. Certe volte bisogna tutelare gli istinti giovanili, crescere non significa non provare più niente, diventare cinici, ma avere consapevolezza delle emozioni ed esternarle nella forma giusta.
Anche per questo avete deciso di chiudere con Dimmi solo se verrai all’inferno, un pezzo cantautorale e poetico nel quale, descrivendo panorami e tramonti mozzafiato in montagna, più che guardare fuori vi scavate dentro?
Aimone: È questa la bellezza della montagna, no? L’essenza del cammino. Non ci si sente mai così piccoli come quando cerchiamo di salire un monte o quando nevica forte. La fatica, unita a questa enormità, ti riposiziona e scatta la voglia di far parte di un insieme, di stare con gli altri. Si va in giro per mondi per ritrovare questa voglia di amore che abbiamo dentro. Ma se dobbiamo andare all’inferno, andiamoci insieme.
C’è una follia che i Fask hanno fatto e che ora vi sembra una cosa da pazzi?
Aimone: (Parte raccontando un episodio, ma poi si accorge che non è caduto in prescrizione, nda). Tra le storie che si possono raccontare c’è quella comune a tante altre band del passato di fare un tour di 15 date viaggiando in furgone, guidato da noi, per 17 mila chilometri in 30 giorni. Che detto così sembra una roba da nulla, ma se lo fai veramente ti accorgi della follia di una cosa del genere. Infatti non le fa più nessuno queste cose. Non si dormiva mai e si guidava di notte dopo i live. E chiaramente all’interno di queste giornate infinite succedeva di tutto.
Mi sembra abbiate sempre vissuto di sogni possibili, ma se ci fosse un sogno apparentemente impossibile che potreste realizzare, con chi vorreste collaborare?
Aimone: Ah beh, c’è Bruce Springsteen. Ma anche con Paul McCartney non sarebbe male. (Segue altra breve consultazione) Se proprio dobbiamo sognare siamo d’accordo? Sì, dai, scegliamo il Boss.