Adam è appeso mani e piedi al carrello luci che dal palco arriva fino a metà platea, sta facendo un solo di chitarra sul finale di Touch The Leather. Saul intanto ha saltato le transenne: ora è in mezzo alle prime file, e mentre un ragazzo della sicurezza tenta inutilmente di contenere la situazione il pubblico continua a pogare sempre più forte. I ragazzi sul palco sono i Fat White Family, e per rendervi conto di che genere di band siano dovete andare ad un loro live.
Se i mesi di attesa sono troppi, potete intanto fare un giro sulla loro pagina Facebook, dove – fra le tante – litigano con Mac DiMarco, augurano ad Andrew Lloyd Webber di “ammalarsi in modo terminale nel minor tempo possibile”, consigliano chi votare alle prossime elezioni o chiedono ospitalità ai loro fan. Prima che il loro concerto scatenasse l’inferno al Circolo Magnolia e lui giocasse a fare Spiderman con il carrello luci abbiamo fatto quattro chiacchiere con il chitarrista Adam J Harmer.
La prima cosa che colpisce di voi è la totale assenza di elementi retorici. Sei d’accordo?
Beh, il nostro esordio Champagne Holocaust (2014) è essenzialmente un disco garage, suoni sporchi e zero produzione… Zero retorica, sono d’accordo! Songs For Our Mothers (2016) sarà invece un pochino più curato a livello di suoni e arrangiamento. Il singolo Whitest Boy On The Beach è un pezzo disco ad esempio, sembra una canzone di Donna Summer. Abbiamo inciso cose che non riusciremo mai a riprodurre live, ma non ci interessa: dover reinventare i nostri pezzi è innanzitutto bello per noi, ma credo anche per il pubblico: ci piace l’idea di offrire qualcosa di completamente diverso dal disco, dare alla gente un motivo in più per venire ad un nostro concerto.
In sede live ci tenete a proporre qualcosa di diverso dal disco insomma.
Non è sempre una scelta, a volte succede per caso, altre volte ti trovi semplicemente davanti all’impossibilità di riprodurre fedelmente quello che hai inciso…in quel caso non ha molto senso cercare di fare una copia carbone: chi ci viene a sentire in genere il disco l’ha già sentito!
Avete anche un modo abbastanza insolito di curare i vostri social. Ci racconti cosa è successo con Mac DeMarco ad esempio?
Guarda, c’è davvero poco di vero in quella storia! Mac DeMarco si è rifiutato di lavorare con noi, peccato che nessuno gliel’abbia mai chiesto. Ho letto la storia sui giornali come tutti. Credo che sia semplicemente successo che qualcuno che conosciamo abbia detto a Mac che stavamo cercando un chitarrista, e lui l’abbia presa come un’ offerta. Anche se ha trasformato questo fraintendimento in una gigantesca stronzata per ragazzine sono sicuro sia un bravo ragazzo dopo tutto…(sorride)
Voi e Mac comunicate con il vostro pubblico in modi sicuramente opposti…
Decisamente! Lui fa un sacco il bravo ragazzo, a noi piace essere un po’ più diretti. Ma hanno tutti paura di esprimersi in generale: nessun gruppo parla di politica per paura di compromettere le vendite del disco, ad esempio.
Ho letto anche uno status contro Andrew Lloyd Webber. Cosa vi ha fatto?
Non l’ho postato io…suppongo che sia perché è un noto pezzo di merda conservatore! Aspetta…(urla a un roadie: “ti ricordi perché abbiamo insultatato Andrew Lloyd Webber?” Il roadie risponde: “È tornato da New York apposta per votare a favore del taglio dei fondi per i senzatetto. Volando in prima classe ovviamente.”)…visto? Che ti dicevo? Sono le persone così a rovinare il mondo!
Ragioni politiche quindi. La politica in generale sembra interessarvi molto…
Certo, la politica è una cosa che riguarda tutti, quindi tutti dovrebbero occuparsene. Come ti dicevo un sacco di gente ha paura di esprimersi su questi temi, la band in particolare, fanno e dicono tutto quello che il management dice loro di fare. Per noi è l’opposto: se sei in questa posizione devi assolutamente sentirti libero di esprimere le tue opinioni e far riflettere le persone. Poi credo che la gente si ricordi che facciamo musica, e possa comprare il disco anche se diciamo qualcosa che non condivide. In generale non credo che pensare con la tua testa e avere un’opinione possa in alcun modo rovinarti la carriera, ecco!
Torniamo alla musica. Avete avuto un successo abbastanza inusuale per una band che ha pubblicato un solo LP. Non avete paura che la fama vi costringa ad ammorbidirvi un po’?
L’album nuovo suona già più pulito, ma non per ragioni commerciali. È comunque abbastanza grezzo, ma siamo decisamente usciti dal suono garage dell’esordio…non abbiamo avuto paura di suonare un po’ più puliti e fare pezzi con sonorità lontanissime dal primo lavoro, come ti dicevo prima per Whitest Boy On The Beach. Ma non è stata una scelta dettata dal successo, non ci siamo detti “oh, ora che siamo famosi dobbiamo fare un album più pulito”. Ci andava di spingerci un po’ più in là, giocare con le drum machine…fare altro insomma, esplorare. Poi un altro disco garage sarebbe stato una gran ovvietà.
Sapete già che direzione vorrete prendere in futuro?
Il padre di Lias e Nathan ha le idee abbastanza chiare. È algerino, e tutte le volte che ci vede ci dice (imita l’inflessione algerina): “perché non suonate come gli Eagles? Gli Eagles sono…la perfezione! Cazzo!”. Noi siamo un po’ più confusi, e lasciamo che le cose capitino senza decidere nulla a tavolino, ecco. Due di noi sono (ovviamente) cresciuti ascoltano gli Eagles. Io vengo dal punk, sono cresciuto con roba tipo Dead Kennedys, Bad Brains, The Cramps… poi mi sono orientato verso il garage e il rock ’n’ roll. Mi identificavo moltissimo con la scena punk, ma trovavo paradossale che si predicasse tanto la libertà di espressione e si passasse invece buona parte del tempo ad azzuffarsi con chi la pensava diversamente. Nel garage invece ho trovato la pace. Mi piace molto anche il blues alla Blind Willie Johnson…boh, dirti a che sonorità sia più legato è impossibile: il mio piatto preferito è la pizza, ma non la mangio tutti i giorni sia a pranzo che a cena, mettiamola così.
Ho visto che Songs For Our Mothers è stato inciso a New York, giusto?
È stato inciso in quattro posti diversi in realtà, due in Inghilterra e due in America. A New York abbiamo lavorato con Sean Lennon nel suo studio, e abbiamo addirittura usato degli strumenti appartenuti a John. Mentre registri pensi “aspetta, dov’è che ho già sentito questo suono? Ah, certo, l’intro di Strawberry Fields Forever!”. Davvero pazzesco. Le sessioni più produttive però sono state fatte in uno studio in mezzo al nulla vicino a Newport, lì abbiamo lavorato con il fonico degli Swans. Quello studio sembrava un po’ il setting di Shining, per cui mentre registravamo continuavamo a dirci per scherzo che alla fine ci saremmo uccisi tutti a vicenda, e non avremmo inciso alcun disco. Quello è il posto in cui ci siamo sentiti più a nostro agio..sai spesso gli studi di registrazione sembrano quasi sale operatorie, lì invece c’era un gran casino. Ricordo anche degli interminabili barbecue in mezzo alla neve, che credo abbiano in qualche modo aiutato il processo creativo (ride). In ogni caso abbiamo lavorato in un sacco di posti diversi, quindi sarà di nuovo un album abbastanza vario come sonorità.
Com’è nata la collaborazione con Sean Lennon?
A caso, come al solito! Ci siamo incontrati per la prima volta al festival All Tomorrow’s Parties anni e anni fa. Poi è venuto a sentirci al South By Southwest, così abbiamo cominciato a frequentarci un pochino, dopodiché siamo stati da lui a New York e usato il suo studio, oltre che casa sua. Erano giorni che vagavamo a caso, chiedendo ospitalità ad amici e fan principalmente tramite Facebook. Avremo cambiato una decina di appartamenti diversi prima di stare da lui, ed è stato abbastanza sorprendente: pensavo che New York fosse molto più ostile, invece siamo riusciti a dormire senza problemi sui divani di mezza città!