Da tempo gli abitanti di Calvairate – una zona di Milano nel Municipio 4 che include, più o meno, tutto ciò che è compreso tra Viale Molise, Viale Umbria, Piazza Cuoco, Piazzale Martini, Piazza Insubria, Piazza Salgari, Piazza Imperatore Tito – aspettavano che qualcuno puntasse su di loro un riflettore. Non necessariamente un faro alogeno da 800 watt, magari anche una lampadina, piccola ma in grado di gettare una nuova luce su un quartiere troppo spesso definito “difficile”, “disagiato”, “dimenticato”. Ma dimenticato da chi poi?
Ci ha pensato Comagatte, vulcanica rapper originaria di Molfetta che ha eletto queste strade periferiche a proprio domicilio quattro anni fa. Le Ragazze di Calvairate, un’incestuosa fusione di trap e house ode alla Zona 4 e a tutte le sue multietniche sfaccettature, è apparsa su YouTube da una settimana e ha già fatto drizzare orecchie e occhi a tutti: “epico”, “bomba!”, “io non ho idea di dove sia Calvairate ma ora ho voglia di andarci”, “fanculo anche se sono un uomo mi sento una ragazza di Calvairate” sono solo alcuni dei commenti che campeggiano sotto il video che inesorabilmente macina visualizzazioni. Certo, anche Rkomi e Tedua hanno più volte nominato la zona nei loro primi promettenti vagiti in rima, ma se in quei casi era uno sfondo, una cornice, qui è protagonista assieme a Comagatte, che in un sobrio completo verde evidenziatore di vinile, circondata dalle sue ragazze (bionde, more, curvy, truccate, acqua e sapone, col burqa) rappa e balla circondata dai palazzoni dell’Aler fino ad arrivare in Galleria Vittorio Emanuele. Come a dire: mi voglio prendere tutto.
Io quei palazzoni li conosco bene. Ho trascorso quasi tutti i miei 45 anni (se escludiamo una parentesi estera di sei anni in Venezuela e Arabia Saudita e un anno a Torino per ragioni universitarie) fra le vie e e piazze di Calvairate. Quando le percorro per andare a trovare mia madre fra i dendriti che collegano i miei neuroni si creano degli ingorghi di ricordi: mio padre che mi portava allo scivolo di Parco Alessandrini (in memoria del magistrato assassinato pochi anni prima, nel 1979, da terroristi di estrema sinistra in Via Tertulliano), un gigantesco stegosauro di cemento (lo scivolo era ricavato in uno spazio tra le placche dorsali) che ora non c’è più; gli eroinomani a fine anni ’80 che, in un’estenuante staffetta che durava tutto il giorno, si avvicendavano nel fossato che collega la fine di Via Venosa (dove vivevo: ho sempre pensato ci fosse qualcosa di tragicomico tra il nome della mia via e l’abuso di eroina che vi si svolgeva) a Via Lattanzio, il luogo con la perfetta privacy per un buco: affacciandomi dalla finestra della camera da letto dei miei li vedevo ciondolare nei vestiti logori, lo sguardo vitreo e il passo strascinato, come in una puntata ante litteram di The Walking Dead.
Ricordo quando Pippo, un habitué che i miei e altre persone del condominio aiutavano con qualche spicciolo, generi alimentari e coperte, venne trovato morto a pochi passi dal mio portone un mattino di novembre. Ricordo la pizza che mangiavo (e che ogni tanto mangio ancora) sugli sgabelli che affacciavano al bancone del ristorante La Sirenetta, dietro il quale campeggiano ancora le foto degli ospiti vip che sono stati negli anni a mangiare lì: Walter Chiari, i Ricchi e Poveri, Wilma de Angelis e Leone di Lernia. Ricordo gli eterni pomeriggi nei primi anni ’90 alla Biblioteca Calvairate, fulcro cultural-sociale della zona nell’era pre-internet in cui con la scusa di studiare si cazzeggiava in cortile, si interagiva con l’altro sesso (o con lo stesso) o ci si faceva cacciare fuori dal vecchio burbero che giocava a scacchi nella sala principale e odiava le risatine e il chiacchiericcio in sottofondo.
In quattro decenni tante cose sono cambiate, ma meno di quanto la gentrificazione galoppante che ha investito Milano negli ultimi 10 anni (partorendo sigle derivative come Nolo e City Life o risibili come Lambrooklyn) lasciasse immaginare. Da qualche anno uno dei palazzi dell’Ex Macello ospita Macao, Centro Indipendente per le Arti, la Cultura e la Ricerca. Sono spuntati dei bei locali come il Goganga e il Soho. La zona ha anche goduto del prestigio riflesso irradiato dalla non lontana Fondazione Prada. Ma Calvairate è sempre la stessa.
Incontro Comagatte davanti alla Biblioteca che scopro ora essere un cantiere e che risorgerà come una fenice dopo gli ingenti lavori di riqualificazione. È elegante e sorridente, cammina a grandi passi decisi, ha il volto coperto da una mascherina rosa, un bel cappotto grigio e ha ai piedi delle elaboratissime sneaker Balenciaga che sembrano dei robot Transformer che si sono trasformati in scarpe comode. Imbocchiamo Via Faà di Bruno, dove millenni fa, prima delle pizze al taglio e dei minimarket asiatici c’era il Cinema Porno Embassy, nel quale non ebbi mai il coraggio di entrare, e iniziamo a parlare.
Comagatte, chi sei?
Sono Serena Maria (un nome che non dice mai nessuno ma è molto importante perché è quello di mia nonna) Spadavecchia e sono di Molfetta.
Ah, come Leone di Lernia, no? Ah no, lui era di Trani. Io ti ho conosciuto da poco, con Le ragazze di Calvairate ma hai all’attivo parecchi brani e live.
Sì, io amo la musica e tutto quello che riguarda lo spettacolo: mi piace recitare, cantare, stare su un palco. In sostanza, comunicare attraverso l’arte. A 17 anni sono scappata da Molfetta e ho iniziato a vivere da sola, a Barletta. Qui assieme a Ciccio Siffa, una persona molto importante per me, uno dei primi a credere a ciò che facevo, ho iniziato a organizzare le prime serate hip hop. Poi sono andata a Bari. Poi a Roma, per scrivere il mio primo disco. Poi qui a Milano, ma prima sono stata per un periodo a Parigi, dove ho anche fatto diverse serate. Quindi a chi mi risponde: «guarda che per essere nazionali non serve andare per forza a Milano» io rispondo «prima di Milano sono stata a Parigi, quindi tesoro io sono internazionale, non nazionale».
Come mai sei andata a Parigi?
Gaultier, un ragazzo che aveva visto qualche video mio, mi contattò dicendo «voglio essere il tuo manager qui in Francia». Io presi e partii. Con Gaultier abbiamo fatto dei concerti, poi sono entrata in un team parigino di hip hop, Holdup Team, e stiamo facendo un progetto che si chiama Call Me Femcee, con tante ragazze provenienti da varie parti d’Europa, io sono l’unica italiana. Comunque, dopo l’esperienza di Parigi arrivo a Milano e mi traferisco in Via Emilio Cornalia, zona Stazione Centrale, ma ho posato le valige e sono venuta subito qui in Calvairate, perché qui c’era il mio team, c’erano le mie ragazze.
Questo quartiere dista solo 3 km dal centro ma sembra anni luce più lontano, anche oggi. Non ti sembra?
Sì, ma è incredibilmente vivo. Mi rodeva il culo perché nessuno aveva mai dato dato risalto a questa zona. Sì, ok, ne avevano parlato Tedua e Rkomi ma senza troppi approfondimenti, era passata giusto la cosa che era fico venire da un “quartiere difficile” e stop. Sentivo di doverne parlare.
Evitare il parallelismo tra il tuo pezzo e Le ragazze di Porta Venezia di Myss Keta sembra impossibile…
Allora, avevo visto il video di Myss Keta e avevo notato che un sacco di ragazze di Porta Venezia non erano nemmeno di Milano: Elodie, Priestess, tipo. Quindi mi son detta che potevo farlo anche io: includere cioè nel mio video anche altre ragazze da fuori chiamandole “di Calvairate”, ma volendo rappresentare tutte le ragazze delle zone di periferie di Milano: dalla zona 8, dalla zona 6, donne da altre città che ora non vivono più qui ma che ci hanno vissuto e hanno preso il treno per esserci. Tutto questo succedeva il 22 febbraio del 2020, prima cioè che scoppiasse tutta la merda del Covid…
Ma perché è uscito un anno dopo?
Volevo proporlo a diverse etichette. Purtroppo per promuovere la musica ci vuole il denaro di merda. Volevo farlo volare ma parecchie label me l’hanno bloccato, dicendomi «sì, prima facciamo uscire questo singolo, poi magari il tuo video». Non faccio nomi, ma chi mi segue sa con chi ho avuto a che fare, quindi alla fine ho mandato a fare in culo tutti e ora sono di nuovo indipendente. Sono uscita da sola e me la vedo io. Chi mi contatta su Instagram sa che sono sempre e solo io a rispondere.
Sinceramente non capisco perché ti volessero bloccare.
Mi dicevano che avrei avuto eco solo in zona, dovevo farmi sentire da tutta Milano. Il fatto è che sono partita da qua, ma mi sono già presa tutta Milano, perché forse non avranno scoperto questo quartiere grazie a me ma il video è un po’ servito per dimostrare che ci sono tante giovani ragazze che vivono qua e che hanno ambizioni a non finire.
Ragazze magre, curvy, col burqa…
Rumene, tunisine, pugliesi, c’abbiamo tutto qua. Comunque a quelli che sostengono che ho dissato e copiato Myss Keta vorrei dire questo: non mi rompessero il cazzo, perché Myss Keta ha fatto una cosa bella, io la stimo un sacco, la amo, ma non volevo copiare nessuno. Lo dico anche nel video: bella sorella, tu fai le tue filastrocche che alla periferia ci penso io. Insomma, Le ragazze di Calvairate l’ho fatto uscire per rappresentare le ragazze di quartiere che non hanno voce. Già la maggior parte della gente che vive qui non ha voce, figurati le donne. Non volevo rappresentare questa periferia come hanno già fatto altri rapper: tipi tosti, situazioni pese, spaccio… io volevo rappresentare la donna che si fa il culo e non ha spazio per emergere ma ha il triplo delle ambizioni.
Probabilmente se nasci in un posto e ci vivi per la maggior parte della tua vita non sei obiettivo nel giudicarlo, ti sembra bellissimo. A me Calvairate è sempre piaciuta, non ho mai sentito l’esigenza di scappare, nemmeno quando amici o colleghi venivano a trovarmi a casa in Via Venosa mi dicevano «ma in che posto vivi?» e leggevo un manifesto disagio sui loro volti. Tu vieni da un’altra regione, sei qui da quattro anni. Cosa ti piace di questo posto?
Da brava pugliese amo le persone calorose e qui ci sono. Poi sono molto curiosa, amo le diverse culture ed etnie e qui ne trovi di tutti i colori. Appena scendo da casa c’è la signora di Cerignola che mi dà il buongiorno, poi c’è il fioraio indiano con cui chiacchiero sempre un po’, la zia del panificio, questo quartiere è molto più caldo e umile, mi ricorda molto il Sud. E poi i palazzi sono bellissimi. È vero, ci sono le case popolari ma sticazzi, sono sempre belli. C’è il verde. E ci sono tanti mezzi, c’è la 90/91 (la linea di filobus simbolo di Milano, l’unica vera “circle line” che attraversa la circonvallazione esterna in senso orario e antiorario a quasi qualunque ora della notte, nda). Quante volte mi ha salvato la vita!
Arriviamo davanti al bar all’angolo tra Via Carabelli e Piazza Salgari. L’insegna consunta recita Al Buon Panino anche se nei decenni di attività credo nessuno ci sia mai entrato attratto dalla nomea dei sandwich. È gestito da diversi anni da Pietro e sua moglie Silvia, entrambi cinesi (i nomi occidentali se li danno per facilitare la comprensione di noi autoctoni). Qui ho fatto migliaia di colazioni negli anni e appena ci sediamo sui tavolini fuori mia madre che ne esce e ci saluta calorosamente (quasi urlando: ha da sempre un megafono installato al posto delle corde vocali), poi ci passa davanti Mario, il falegname della zona che conosco da quando sono piccolo e mi stringe la mano vigorosamente. Comagatte ordina un decaffeinato e mi sorride. «Lo vedi perché Calvairate mi piace? Per questo! Certo, ci sono anche episodi spiacevoli eh: risse, accoltellamenti. Ma io qui non mi sono mai sentita minacciata, mi sono sempre sentita a casa».
Qualcuno ti ha paragonata a Cardi B per la sfrontatezza e i temi espliciti che affronti nei tuoi pezzi. In un mondo tradizionalmente maschilista come quello del rap/trap hai incontrato difficoltà o ostacoli per il solo fatto di essere una donna?
Guarda, i maschi che scrivono «dammela», «strappona», ecc sono solo persone che fanno commenti stupidi. Quelli che mi danno più fastidio sono i commenti delle donne represse. Esempio: la tipa che mi scrive «ma tu stai in Calvairate da 4 anni, io è una vita che vivo a Scampia e non lo vado a sbandierare in giro». Ecco, le donne represse che mi cagano il cazzo non le sopporto. Sono cattive, sono competitive, sono il motivo principale per cui noi donne artiste facciamo fatica a farci spazio, perché ci sono queste coglione che rompono il cazzo, che non hanno combinato niente nella loro vita, hanno fatto scelte sbagliate e danno la colpa a noi che riusciamo a fare qualcosa.
Dovrei essere più delicata con le parole? No, mi sono rotta il cazzo perché è una vita che supporto le donne e trovo sempre chi ha da criticare, chi non apprezza questa cosa. Come certe femministe: non ci vado d’accordo. Fanno un sacco di chiasso su filosofia e storia, ma poi di pratico, di tangibile, c’è poco. Io nasco nelle battle di freestyle a Bari e c’erano delle ragazze che sfidavano un uomo e quando l’uomo diceva «vai a lavare i piatti» o «vai a fare i pompini» ci restavano male, se la prendevano, si bloccavano. Io invece ridevo e rispondevo «sì ok vado a lavare i piatti ma se sono una troia ricordati che pure tu sei nato da una figa quindi anche tua madre fa i pompini».
Sei stata abbastanza chiara, ho colto le sfumature. Comunque le battaglie di freestyle che facevi erano una cosa tipo Eminem in 8 Mile?
Esatto, uguale! Sai quante volte ho vomitato per la tensione, pensando di non farcela, prima di salire sul palco? Poi però ce la facevo sempre. A proposito, vorrei dire che i pugliesi sono i migliori freestyler d’Italia: inventiva, ironia, velocità!
Comunque pensavo che è incredibile il fatto che Calvairate ti stia aiutando a coronare il tuo sogno, a sfondare nella musica.
Non solo quello. Sono venuta qui per trovare un bel lavoro, per farcela insomma. In Puglia ti distrai facilmente. Io associo spesso i pugliesi ai cubani: siamo persone che vivono di poco, si accontentano e festeggiano senza motivo. Qui è diverso. Qui senza sapere né leggere né scrivere sono diventata capocassiera nella discoteca di Giorgio Armani, una cosa che tre anni fa non mi sarei mai manco sognata. Qui tutto è possibile se lo vuoi, se ci credi davvero. Se io voglio fare la spogliarellista qui posso: è un lavoro quasi sempre ben pagato, serio, hai anche delle tutele. In Puglia no: nessuno ti prende sul serio, ti danno della puttana. Poi qui ci sono sempre persone interessanti con cui parlare, a me quando sto giù dopo un po’ mi viene la paranoia.
Il tuo modo di esprimerti è abbastanza senza filtri, eppure questo è un periodo in cui sembra non si possa dire niente senza offendere qualcuno.
È vero, se uso cicciona in una punchline si arrabbiano. Ma perché non posso dire cicciona? Cioè raga, io sono cicciona, cioè questa è ciccia (si pinza una coscia con le dita, nda). Embè? Cercare di non parlare di certe cose è come nasconderle, normalizzarle. Sei obesa e non ti piaci? Mettiti a dieta e sbattiti! Io sono cicciona e se me lo dici non mi offendi, perché è vero. Sono cicciona e sono bella!
Gli uomini hanno paura di te?
Non credo, sono tranquilla, sono una di loro. Ma ogni fidanzato che ho avuto (due) a un certo punto si è sentito in competizione con me perché io, forse è un mio difetto, dimostro sempre che non ho bisogno del supporto di un uomo per andare avanti. Il mio primo fidanzato era un ex rapper con cui le cose sono finite male, rosicava, addirittura mi cancellava i pezzi dicendo «scusami, ho sbagliato». Una persona tossica.
Parli spesso delle tue ambizioni ma non ho bene capito quali sono: vivere della tua musica?
È difficile campare di musica, devi spaccare di brutto tipo Sfera Ebbasta, io voglio campare grazie a un lavoro nell’ambito dello spettacolo che mi piace, la musica, l’attrice per esempio o la scrittrice… proprio ora sto scrivendo un libro, Tutte a me si chiama, perché la quantità di sfighe che mi capitano ogni giorno è incredibile. Le persone a cui le racconto sgranano gli occhi e mi dicono: «devi farne un libro e stai tranquilla che poi ci tireranno fuori un film». Sono una sfigata di merda!
Ti capisco benissimo, credimi.
Però qualunque cosa farò voglio dedicarmi al volontariato come ho sempre fatto: con le altre ragazze del quartiere per esempio ho appena aperto uno sportello di supporto per le donne di quartiere a Macao, per aiutarle nelle difficoltà, personali o burocratiche.
Che lavori hai fatto?
Sono stata capoanimatrice per sei anni occupandomi di tutta la litoranea barese, ho pulito i cessi, ho fatto la cameriera, lavapiatti, ho rifatto le stanze di un albergo in Galleria Vittorio Emanuele: quando mi affacciavo alle finestre delle stanze vedevo ragazze della mia età che uscivano dalle boutique piene di borse griffate e ci stavo male. Ho lavorato al privè di Armani e poi ho lavorato al Locanda alla Mano in Sempione che è una cooperativa sociale che promuove l’assunzione dei ragazzi down: io insegno loro il mestiere di barista oltre che lavorare lì come barman. Lì ci lavoro ancora e ad aprile ricomincio perché comunque un lavoro mi serve. Anche se coi concerti guadagnavo, ho fatto gavetta, sono diventata rispettabile e ho fatto anche dei soldi. Io comunque devo andare in tv, te lo dico. Insomma io voglio fare tutto.
Tutto tutto? Ci sarà qualcosa che non faresti mai.
Sì, succhiare il cazzo a un vecchio per diventare famosa. Perché so di potercela benissimo fare da sola.
Chiaro. L’hai già detto altrove ma vorrei che mi spiegassi perché hai deciso di chiamarti Comagatte.
Era una fiaba popolare del Sud che mi raccontava mia nonna: Comare Gatte, una tipica femmina del Sud, si era messa del fard in faccia, tutta truccata, e stava affacciata alla finestra a guardare la gente passare quando passa il cane che le fa «Comagatte Comagatte quanto siete bella mi volete sposare a me?». Comare Gatte risponde: «come fai di notte?». E il cane: «Abbaio!». Allora la Comare Gatte fa: «no no mi fai paura!». Riceve proposte da tanti altri animali ma tutti fanno versi che la spaventano finché arriva il topolino che fa un timido “squit!” al che Comagatte esclama «se tu il marito mio, sei tu!». I due si sposano e un giorno Comagatte mette su il pentolone di minestra e va al lavoro ma prima di uscire raccomanda al topino di girare la minestra stando attento a non bruciarsi. Il topolino lo fa un paio di volte, alla terza cade nel pentolone. Al suo rientro a casa, Comagatte non vedendo più il marito si agita e quando lo scopre, ormai bollito, nel pentolone scoppia a piangere, «oddio il mio povero marito!». Dopo cinque minuti guarda la minestra e fa: «Beh, già che ci sono tanto vale mangiarmelo». Ecco, filosofia di vita.
Siamo ormai arrivati a casa di Comagatte, che scopro essere il famigerato condominio Molise progettato nel 1933 dagli architetti Cesare e Maurizio Mazzocchi, un’area a forma di trapezio di 25.000 mq i cui appartamenti popolari erano nati per ospitare 2250 abitanti. Grande esempio di razionalismo architettonico, la facciata che dà su Via degli Etruschi, con quelle ringhiere, quelle porte e quei ballatoi tutti identici mi ha sempre messo addosso una strana ma affascinante inquietudine quando la sera passavo di lì: assomigliava alla fiancata di un una decadente nave da crociera zombi ormeggiata per l’eternità.
Entriamo dall’ingresso principale di Piazza Cuoco e ci salutiamo, non prima che un ragazzo seduto su una panchina del cortile interno la riconosca come «la ragazza che ha fatto quel video della zona! Brava, l’ho visto!». E mentre Comagatte sparisce dietro il vecchio portone ho la sensazione che la Zona Quattro per lei sia la casella “VIA!” Sul tabellone del Monopoly. Prima o poi arriverà di sicuro a Parco della Vittoria.