Abbiamo incontrato Joshua Tillman, meglio conosciuto come Father John Misty, a Bologna in occasione della sua unica data italiana. Lucido, ironico e – va de sé – molto consapevole, FJM sembra essere oggi una delle poche rockstar con cui vale la pena di fare due chiacchiere. E anche più di due. Stravaccato sui divanetti di finta pelle del suo tour bus, ci ha parlato di amore, Katy Perry, autenticità, Jung, narcisismo, impotenza, Sufjan Stevens, Kendrick Lamar, matrimonio, anarchia… e di 5 ragazze che aspettano il cantante dopo un concerto fuori dal pullman.
Il tuo ultimo album I love you, Honeybear è un’indagine sull’amore che tenta in qualche modo di decostruirlo. Quanto secondo te un approccio del genere deriva da una tradizione americana e da un uso postmoderno dell’ironia?
Penso che il punto di partenza sia stata l’idea di decostruire in maniera intellettuale la banalità insita in una canzone d’amore. Il postmoderno è essenzialmente un processo di decostruzione. Perché di base mi vergognavo di dire che mi ero innamorato, e poi avevo un certo pudore a parlare della mia sfera intima. M’imbarazzava mettermi a nudo, anche perché avevo edificato intorno a me stesso un personaggio diciamo meno “onesto” di così, con una sua certa reputazione che andava in senso opposto. Quindi volevo provare a parlare d’amore con un approccio anti-idealistico.
Anche per ragioni di privacy?
Sì, in un certo senso. Mentre scrivevo i pezzi, nel mio spazio creativo, ero molto più coraggioso e spregiudicato. È quando parli e cerchi di spiegare le cose che dici un mucchio di cazzate. Ma nell’atto creativo c’era molta purezza, mi sentivo davvero a nudo. Era quella la mia idea di intimità. Credo funzioni per tutti così. Quando conosci qualcuno, ti crei un personaggio. Ma le ragioni per cui la gente si innamora di te sono molto diverse dalle ragioni che ti aspettavi. La tua vanità ti porta a pensare: “Ah, questa persona mi ama perché sono così intelligente, divertente e fascinoso”, ma il vero motivo è la tua imperfezione. Ed è l’imperfezione stessa che ti fa sentire il bisogno di essere amato. Tornando al postmoderno, di base il sotto-testo implicito è questo: “Niente è come appare”. Ora nella cultura americana si sta verificando il fenomeno perverso per cui la dualità di un tempo, in cui da un lato avevi una popstar e dall’altro uno come me – diciamo “un artista autentico” – sta collassando. Come se pensassimo: “Troppo semplice vedere Kate Perry come il prototipo della vacuità, ci deve essere qualcosa di più intellettuale e autentico sotto”. Allo stesso modo in cui un artista contemporaneo può prendere un oggetto qualsiasi e metterlo in una galleria, così una popstar diventa in qualche modo autentica perché è immersa in un contesto artistico.
Ma questo bisogno di autenticità da cosa dipende secondo te? Ultimamente quando ti arriva la scheda promozionale di un musicista, c’è sempre scritto che si tratta del suo album “più personale”. C’era scritto anche sulla tua…
(ride) Di sicuro è anche una roba che ha che fare con la sete di gossip da tabloid. “Personale” può essere pure “Justine Bieber che sta affrontando la sua relazione con Selena Gomez” e viceversa. Diciamo che è un codice. La parola “personale” fa subito scattare l’allarme: “Qui c’è del gossip sotto!” Si tratta di un’accezione borghese per questo tipo di idolatria. Ma a me interessa testare il limite della parola “personale”. Poi non sono sicuro di averla usata per il mio album…
Se non tu, qualcuno l’ha fatto al posto tuo…
(ride) Okay. Ma quello che conta sono i risultati, no? Per dire, Plastic Ono Band è di sicuro l’album più personale di John Lennon. Ma non ha niente di trito o melenso. Il “personale” può essere molto potente. Poi esiste sempre la possibilità che diventiamo cinici rispetto a un certo linguaggio, come accade spesso per molte cose.
Ma pensi possa dipendere anche dal fatto che è quello che ci si aspetta da un songwriter? Insomma, molto di più che da una band?
In parte l’archetipo del songwriter è una roba che mi ha proprio rotto le palle. Per questo motivo ho scelto questo nome ridicolo, era una specie di reazione cinica a quello di cui stai parlando. C’è questa idea che se un uomo bianco con la barba sale sul palco con la sua chitarra acustica sarà lì parlare in stile intimo e confidenziale dei fatti suoi, come se dovesse rivelarti chissà che. Beh, io lo guardo e ci vedo la performance. Allora mi sono detto, se si tratta di una performance, preferisco essere “autenticamente falso”, piuttosto che “fintamente autentico”.
Pensi che esistano quindi due tipi di verità, una nel momento della creazione di un pezzo, e uno nel momento della performance?
Sì, assolutamente. Il contesto conta. Per me è chiaro che sono un performer, e quella che sto facendo è una messa in scena, e ne sono consapevole. Solo a partire da questo puoi stabilire un certo patto di fiducia con il pubblico, puoi dire: “Non vi sto prendendo per il culo”. Una volta messe le cose in chiaro, ti passa l’ansia. Se bisogna parlare di autenticità, per me è meglio farlo rispetto al cibo. Se lo fai con la musica, o con l’arte, finisci per perdere tutto il senso. Per me questo album, alla fine, è stato una ricerca di identità.
Che identità?
Mi sono reso conto di essere completamente ignorante. Non c’è un modo intelligente di essere innamorati. Non c’è un modo anti-idealistico, perché l’amore in sé è un ideale. Si può essere ignoranti e non per forza degli illusi. Ho capito che l’idea di essere innamorato ma brillante era deprimente, per cui preferisco davvero sentirmi ignorante. È stata una forma di liberazione accettare questa ignoranza. Non ho più bisogno di stare lì a chiedermi: “Hm, ma avrò davvero fatto il perfetto album postmoderno sulla decostruzione anti-idealistica dell’amore?” Insomma, alla fine mi sono detto: “Cazzo, viviti le tue fottute esperienze e basta!” Ed è così che mi sono sposato, per esempio. Cioè, lo sapevo, lo sapevamo tutti e due, che il matrimonio è questo fardello della società patriarcale e bla bla bla, ma io voglio poter affermare di essermi sposato come mai è stato fatto prima, perché è la mia esperienza.
Tornando alla questione identitaria, sembra quasi che stai analizzando la tua trasformazione di maschio da una prospettiva di gender studies…
(ride) Esatto! Ma pure senza prendere i gender studies, ci sono gli archetipi junghiani. Diciamo che prima per me l’intimità era cercare l’amore della madre attraverso l’amore di tutte le donne…
Ma te l’ha detto l’analista o te lo stai dicendo da solo?
No, no. Mai fatto terapia, è tutta autoanalisi! (Ride) Comunque prendi la copertina del disco. C’è Emma, mia moglie, raffigurata come una divinità. Quindi da un lato la divinizzavo, dall’altro divinizzandola l’ho disumanizzata. È stato così che per me è cominciata la relazione. L’intimità è il rito migliore che ha un uomo per passare dallo stato infantile a quello di maschio adulto. Ma nell’album ci sono un sacco di esempi disgustosi di narcisismo, psicologia adolescenziale, oggettivazione delle donne. E sono stato accusato di misoginia. Come nel pezzo The Night that Josh Tillman Came to Our Apartment. E sì, in quel momento odiavo le donne, le odiavo per tutto ciò che non mi davano. Quella canzone è un caso interessante. Perché la gente la sente e si entusiasma, ma c’è un riferimento esplicito all’impotenza maschile. Ed è chiaro che la rabbia sia una conseguenza dell’impotenza. Quindi è una canzone che si può leggere su più livelli. Nel video cercavo di spiegare il funzionamento del narcisismo. Ciò che spesso odiamo in un altro è ciò che odiamo in noi stessi, ma il narcisismo ci impedisce di vederlo. Spesso si fraintende cosa sia il narcisismo.
Ad esempio un album come quello di Sufjan Stevens in cui parla in maniera così esplicita del suo dolore, ti sembra una forma di narcisismo?
Beh, lì è un altro discorso ancora. Perché se uno dice: “Sto soffrendo tantissimo, eccovi la prova di quanto soffro” e ci fa un album, la domanda diventa: sarà la reazione più appropriata? Ma se sei un narcisista, qualsiasi cosa fai o provi, è importantissima, e tutti quanti lo devono sapere. Al tempo stesso però stai lì a lamentarti che ti senti un miserabile. Quindi esiste questa specie di disconnessione. Cioè il narcisista di base ti dice: “Sono disgustoso, ascoltatemi tutti!” Se lo pensasse veramente, non cercherebbe un pubblico. E in questo senso la disconnessione è pericolosa. Ma tutti gli artisti la vivono.
Beh sì, altrimenti rischi di diventare più un predicatore che un artista.
Sì, o fai Pete Seeger.
E non ti interessa…
No, ma nemmeno potrei. Per me la creatività è davvero fare i conti con le proprie parti più deleterie. Aprire le porte alla follia e lasciar passare di tutto, anche le oscenità. Con il rischio di inimicarti o di offendere qualcuno.
Forse è perché non sei naïf. Ai matti si perdona tutto se sono naïf, soprattutto agli artisti, ma tu sembri iper-consapevole.
Sì. In un certo senso è così. Va molto di moda tra i musicisti fare i pesci in barile, raccontano tutti la stessa storia: “Volevo cantare fin da bambino, ci ho messo tutto me stesso e ce l’ho fatta, ora sono così felice, oh come mi sento fortunato!”. È quello che si aspetta il pubblico. Se cerchi di raccontare una storia più complessa e meno idilliaca, ti accusano subito di essere cinico.
Nel mondo dell’hip-hop la narrazione della propria storia individuale è fondamentale, crea il senso di “realtà”.
Kendrick Lamar è interessante da questo punto di vista, perché mette in atto un conflitto tra le aspettative su di sé, su ciò che dovrebbe essere o pensare, e il suo sentirsi finto.
Credi che la sua musica sia politica?
No.
E cosa consideri politico in questo senso?
Hmm… I Rage Against the Machine?
Qualcosa di più recente?
Non lo so. Niente. Forse certo country. Il liberalismo non ha molto sangue o passione. Di sicuro è servito all’inizio del secolo scorso rispetto alle lotte per i diritti civili, dei lavoratori, ecc. Ora probabilmente farò un discorso qualunquista da privilegiato che non hai mai vissuto sotto dittatura, ma per me negli Stati Uniti ormai esiste solo un’alternanza sistemica tra repubblicani e progressisti. E le differenze sono minime. È come quando hai cinque ragazze che ti aspettano dopo un concerto fuori dal pullman. Tu puoi star lì a chiederti: “Vediamo un po’, quale delle cinque non è matta?” Ma la risposta è che se stanno lì al gelo per scoparsi uno della band, è che sono tutte pazze.
Una metafora femminista!
(ride) Beh, comunque per me è la stessa cosa rispetto a certe nuove narrazioni o micromovimenti all’interno della politica. Le differenze sono illusorie. O peggio ancora la satira politica che pensa di essere al di sopra dei media e della politica stessa, quando fa parte della stessa grande narrazione. Il sistema più sensato sarebbe l’anarchia, ma c’è troppo individualismo e non è possibile, l’anarchia ha bisogno di comunità.
Hai mai fatto parte di una comunità anarchica?
No, e non potrei mai farne parte. Perché se mai ci sarà la rivoluzione, quelli come me devono morire.
In che senso?
Nel senso che sono un privilegiato che mantiene in vita questo status quo, per cui esistono delle classi subalterne, e quindi quando ci sarà davvero la rivoluzione, e non parlo di Occupy Wall Street, le classi subalterne giustamente mi vorranno fare fuori insieme a questo salottino dove stiamo facendo l’intervista.