Dave Clarke è uno stronzo. Ma è anche una delle vere leggende della musica techno. Intransigente, feroce, uno che non si tira indietro rispetto alle polemiche (anche quando deve scrivere: leggendaria una sua recensione di un disco dei Prodigy, con cui addirittura condivideva all’epoca la casa discografica tanto ad aggravare le cose, su Mixmag: «E questo sarebbe un disco underground, come dice la nota stampa che lo accompagna? Questo disco diventa underground solo se prendi una pala, scavi e lo sotterri»). È uno con cui, in serata, è difficile avere a che fare: a malapena ti concede la parola, non ti guarda in faccia, pensa inizialmente solo a suonare, tutto serio, imbronciato.
Ci sono però a questo punto due verità: la prima è che è talmente bravo a suonare, come dj, e il suo curriculum vitae artistico è talmente integerrimo e di valore che gli perdoni qualsiasi cosa; la seconda, è che se in realtà ne vinci la fiducia e lui capisce di avere di fronte qualcuno che parla la sua stessa lingua, culturalmente ed eticamente, o che comunque si pone con rispetto e con onestà di fronte a lui, allora si apre. Tantissimo. E rivela di essere una delle persone più attente, sensibili e intelligenti che la musica techno – e quella da dancefloor in generale – abbia mai espresso. Uno con cui parlare di Mark Lanegan, di geopolitica, di ipocrisie proprie e dei colleghi, di omologazione da politically correct, di controcultura; di questo, e di mille altre cose ancora.
In vista del suo ritorno in Italia dopo ben tre anni di assenza, il prossimo 8 aprile a Milano al Circolo Magnolia, ci siamo concessi una lunga chiacchierata. La posizione è di privilegio: ci si conosceva già, il muro di freddezza e indifferenza era già stato abbattuto anni fa, quindi si è andati davvero a ruota libera. Partendo – ironicamente, visto che stiamo parlando di una delle leggende della musica techno – proprio dalla cosa meno techno che lui abbia fatto in carriera. Dave Clarke è uno stronzo, sì, ma è anche l’esatto contrario: è una delle persone più preziose e profonde che la musica elettronica abbia espresso da trent’anni a questa parte. E come dj, è ancora oggi uno dei più potenti e feroci in circolazione.
Vorrei partire da cinque anni fa, dal 2017: ovvero quando hai fatto uscire l’album The Desecration of Desire. In un momento in cui già, per un dj/producer techno, fare uscire un album era una cosa clamorosamente fuori moda e anche uno sforzo strategicamente inutile, nessuno più si aspetta degli album dai dj/producer, e ormai non cambiano nemmeno più di tanto posizionamento sul mercato, come invece facevano un tempo.
Prendiamo i due concetti che hai menzionato: essere di moda ed essere strategicamente utile. Bene: sappi che qualsiasi cosa abbia mai fatto nella mia carriera, questi due principi non hanno mai avuto la minima validità. Mai. Detto questo, la tua osservazione è corretta: all’interno di quella che dovrebbe essere la mia scena e industria musicale di appartenenza, gli album non contano più praticamente nulla. Bene. Partiamo allora da questi presupposti. Osservazione numero uno: quell’album è stato, per me personalmente, strategicamente util» perché mi ha permesso di fare esattamente quello che avevo voglia di fare in quel momento. Vale per la musica. Le collaborazioni. L’artwork. Tutto. Poi se mi chiedi: ti sarebbe piaciuto vendere centinaia di migliaia di copie? Risposta: sì, mi sarebbe piaciuto vendere centinaia di migliaia di copie, lasciando per un attimo da parte che vendere – e quindi produrre – tutti questi dischi provoca effettivamente un problema ecologico. Ma anche se questo obiettivo è stato mancato – ammesso e non concesso che io l’avessi mai avuto – è una release che per me è stato fondamentale fare, perché mi ha riportato finalmente nello studio, mi ha permesso di creare un discorso musicale completo e articolato (erano troppi anni che facevo solo remix per altri, o collaborazioni), mi ha permesso di ribadire come per me l’unico album possibile è quello che è come un libro, con cioè una sua storia, un suo sviluppo, e non semplicemente un affastellare i singoli usciti nell’ultimo periodo (come in molti continuano a fare quando si tratta di far uscire un album, nella mia scena, le poche volte che lo fanno). Mi sembra abbastanza per ritenere, almeno dal mio punto di vista, «strategicamente utile» The Desecration of Desire. No? E poi, è il disco che mi ha permesso di lavorare con Mark Lanegan.
Già. Era uno degli ospiti dell’album.
La sua morte mi ha colpito duramente. Sai, in tanti erano convinti che artisticamente me ne fossi innamorato – come molti – per Songs for the Deaf dei Queens Of The Stone Age, ma in realtà il vero colpo di fulmine è arrivato un anno dopo con i Gutter Twins, il suo progetto con Greg Dulli. Hai presente chi è Tim Simenon?
Certo, uno dei più importanti produttori in giro, Ultra dei Depeche Mode è roba sua, nonché ex nome storico della dance anni ’90 come Bomb the Bass.
Bravo. Ecco, anche lui era ossessionato dai Gutter Twins. E gli era capitato di lavorare con Mark ben prima di quanto poi ci sia riuscito io, e questo è diventato un punto di contatto, una prima amicizia in comune che mi ha permesso poi via via di entrare sempre di più in contatto con lui e col suo mondo. E ho capito subito una cosa: era una persona di una dolcezza e di una affabilità unica, meravigliosa. Sai, io di primo acchito non sono una persona molto simpatica e cordiale…
Lo so.
E lui era sì un gentiluomo e una persona splendida, ok, ma comunque uno un po’ autistico, che stava parecchio sulle sue. Bell’incontro eravamo noi due messi insieme, no? Due mezzi sociopatici.
Eh.
Ero insomma un po’ preoccupato, all’idea che finalmente avremmo passato due giorni assieme chiusi in studio, per registrare: «Mamma mia, chissà qui come va a finire…», mi dicevo. E invece: tempo un’ora, eravamo già due vecchi amici che si raccontavano di tutto, si facevano confidenze anche importanti e dolorose, confidenze che resteranno sempre una cosa fra noi – quindi che a nessuno venga in mente di chiedermele. Lui amava la techno, sai? Uno non se lo aspetterebbe: Mark Lanegan che ama la techno! Assurdo! E non solo la amava, la conosceva pure bene, aveva le sue passioni, CJ Bolland ad esempio… Ad un certo punto ha iniziato a dirmi regolarmente: «Ehi bro», per lui erano tutti bro ovviamente, «facciamo un po’ di techno dai, e che cazzo! Cos’è ‘sta lagna che mi fai fare? Sei il re della techno, perché non mi fai fare un po’ di techno? Eddai!». No amico! Col cazzo che voglio fare della techno, ora, con questo disco! Non te la do questa soddisfazione, Mark. E ridevamo, ridevamo… Che persona incredibile, Mark. Sapere che non c’è più è durissima.
In effetti The Desecration of Desire quasi per intero non è per nulla un disco techno. Noto una cosa: è solo con la pandemia che improvvisamente parecchi dj/producer si sono riscoperti estimatori (e produttori) di altri generi musicali, e hanno fatto uscire delle cose ambient o comunque molto più morigerate e meditative nei ritmi, esattamente quando a tutti gli effetti i dancefloor erano sbarrati; tu invece lo hai fatto molto prima. In tempi non sospetti, in tempi in cui era più rischioso e – come dire? – proprio controproducente mettersi a farlo.
Grazie per averlo notato. Perché questo non me lo riconosce praticamente nessuno. Sì: grazie.
Prego.
Il punto è che nella mia scena – ma forse non solo nella mia scena – troppi artisti non riescono a uscire dal cliché di se stessi. Io, come produttore, ogni tanto ritorno alla techno anche oggi seppure in maniera sghemba, come un remix che ho fatto recentemente per Arnaud Rebotini – una cosa punk-techno, diciamo – e quello per i Fontaines D.C.; in linea di massima però, come produttore, sono in questo momento e già da qualche anno più interessato a fare altro. La techno mi interessa relativamente. E non perché mi senta troppo intelligente o troppo bravo per farla, attenzione; è che semplicemente oggi che ho finalmente uno studio di registrazione a casa esattamente come l’ho sempre desiderato mi interessa più esplorare altre strade. Questo come produttore, sì. Mentre come dj, la techno mi interessa ancora parecchio. È ancora il mio primo punto di riferimento, sono ancora assetato di novità. Ma come produttore… Ho perso il gusto di stare lì un’intera giornata a spostare dei cursori, capisci? Era inevitabile che The Desecration of Desire venisse fuori come è venuto fuori, un disco quasi di canzoni, in certi momenti. Credo che la Skint, la label, ci sia rimasta male. Mi hanno lasciato totale libertà, non hanno mai chiesto di sentire nemmeno mezzo provino durante la lavorazione, la loro fiducia era totale e incondizionata. E credo infatti ci siano rimasti un po’ male, poi, quando hanno sentito il disco fatto e finito. Probabilmente si sono anche detti: «Aiuto, che è ‘sta roba? E ora cosa facciamo? Come la promuoviamo?».
Era effettivamente un disco fuori dai cliché. Però, Dave, ok gli altri, ma sarà capitato anche a te di essere intrappolato dal cliché di te stesso.
Assolutamente sì. Qualche volta senza accorgermene, spesso però intenzionalmente. Perché sai qual era la mia strategia, per un sacco di tempo? Quando vedevo che stavano crescendo dei cliché su me stesso, io mi divertivo a incoraggiarli – e manco poco. Era un’ottima arma di difesa, sai? In questo modo mi chiedevano un po’ tutti le stesse cose, giornalisti e addetti ai lavori; e io davo più o meno le stesse risposte preconfezionate, in modo da confermare le dicerie e i pregiudizi su me stesso. Lo facevo però in modo molto astuto: mi sinceravo sempre di dare ai media delle frasi buone per farci un titolo, e delle affermazioni forti che loro poi potevano rivendersi per rendere scoppiettante e molto letta l’intervista.
Sembri Mourinho con la stampa calcistica.
Non ho mai avuto un rapporto facile con i media. Da giovane, ho fin dall’inizio avuto l’impressione non fossero in grado di capirmi. E quindi mi sono detto che, se non mi capivano, beh, allora almeno potevo togliermi lo sfizio di manovrarli un po’: tenendo come schermo di protezione tutti i luoghi comuni sulla mia ferocia, la mia intransigenza techno, la mia scarsa affabilità.
Che poi guarda, «Dave Clarke» e «schermo di protezione rispetto ai media» mi suona però anche un po’ come una contraddizione in termini, sai? Visto che sei fra i pochi, pochissimi dj/producer che esterna sempre opinioni molto nette. Provocatorie, anche. Non hai certo paura di esporti, ecco. Soprattutto negli ultimi tempi, aggiungo.
Ora sono in una relazione meravigliosa. Sono anni che sono una persona felice, serena. Sai cosa mi dice sempre la persona con cui sto? «Non devi sprecare l’energia inutilmente. Devi usarla per far risplendere te stesso. Quello che sei veramente». Io sono sempre stato una persona con molti interessi e, senza falsa modestia, in grado di leggere discretamente la realtà. Vogliamo parlare di politica, ad esempio? Vogliamo far notare che io già due anni e mezzo fa sollevavo il problema dell’Ucraina, e facevo notare che poteva succedere quello che poi effettivamente è successo? Ma parliamo anche dell’ultima polemica grossa che mi ha coinvolto.
Soundstorm.
Mi sono permesso di puntare il dito contro chi era andato a suonare in questo mega-festival techno, un festival sostenuto direttamente sostenuto dal governo dell’Arabia Saudita: nazione dove l’omosessualità è ancora reato, la discrminazione di genere è terribile e dove le esecuzioni capitali sono all’ordine del giorno. Io non ce l’avevo con la popolazione saudita; non è che volessi togliere loro la possibilità di ascoltare i nomi più importanti dalle scena techno e house odierna. Ma cosa dire di artisti che hanno accettato di suonare lì, però per farlo hanno richiesto dei cachet in qualche caso decupli rispetto al loro solito? E cosa dire del fatto che, al di là di tutti i discorsi stile «siamo qua per la popolazione, siamo qua per incoraggiare la modernizzazione dell’Arabia Saudita» che sono stati fatti, poi quando qualche mese più tardi il governo saudita ha giustiziato 81 persone in un colpo solo – 81! – nessuno e dico nessuno di loro abbia avuto qualcosa da ridire? Magari fossero state 81 donne, qualche voce di protesta in più si sarebbe levata? Di questi tempi pare quasi che la vita di una donna conti di più di quella di un uomo… Il punto è che oggi quello che conta è il virtue signalling: indignarsi per una causa solo ed esclusivamente se questo ti porta più e meglio sotti i riflettori, se ti fa fare bella figura. Altrimenti, te ne stai zitto. C’è un narcisismo, nella nostra scena, che è spaventoso. Spaventoso. E se è una cosa che posso capire nelle generazioni più giovani di artisti, che sono cresciuti in un’era dove tutto è misurato con la popolarità sui social, lo trovo imperdonabile in artisti con un po’ più di esperienza. Ma i veri colpevoli di tutto questo sono anche i media, i giornalisti.
Eccoci.
Dovrebbero essere una voce autorevole. Dovrebbero avere i mezzi, materiali e intellettuali, per esprimere una posizione forte. Com’è possibile che, nel caso del festival saudita, tutti si siano bevuti la versione de «eh, ma la musica può cambiare il mondo», però intanto per andare a suonare là pretendevi cachet molto più alti del solito? Ti interessava cambiare il mondo o massimizzare il guadagno? So che tu ne hai scritto. Ma dei tuoi colleghi non l’ha fatto quasi nessuno, nel nostro settore. La polemica è rimasta sui social, la discussione si è fermata lì e non è mai finita sulla stampa ufficiale. Sono quasi tutti ormai accondiscendenti verso il “sistema”. Il giornalismo musicale, soprattutto nella nostra scena, ha smesso di essere contropotere, questa è la verità, accontentandosi invece di essere un meccanismo di un ingranaggio più grosso di lui. Sacrificando in questo modo completamente la sua gravitas intellettuale. Nessuno vuole rinunciare a piccole fette di privilegio, oggi, e per riuscirci mette da parte le questioni di principio, mette da parte le proprie responsabilità su di esse. E se pure fai battaglie su questioni di principio, giornalista o artista che sia, le fai appunto solo e unicamente se questa stessa battaglia ti può in qualche modo favorire, ti può mettere in una buona luce, può aumentare i tuoi dividendi. Esempio: quando Trump è stato eletto, tutti a dire «che schifo, che orrore, che disgusto», giusto?
Vero.
Ma che io sappia solo io e Robert Henke abbiamo deciso che non saremmo andati a suonare negli Stati Uniti, rinunciando così anche a guadagni ed esposizione, finché Trump sarebbe stato presidente. Solo noi due, nessun altro. Per il resto vedevi cose tipo stories su Instagram «Che disgusto, Trump presidente, ma com’è possibile? Comunque ehi, ricordatevi, questo sabato suono a Miami, ci vediamo lì, non mancate!». Che imbarazzo. Davvero: non vedo quasi nessuno, oggi, che per sostenere una causa sia disposto a fare dei sacrifici, a togliersi qualcosa dalle proprie tasche. Le cause vengono usate esclusivamente come scalini per guadagnare di più, e migliorare il proprio profilo pubblico; nel momento in cui non possono più offrire questo effetto, vengono scaricate in un attimo. E nessuno lo fa notare, nessuno ne scrive, nessun giornalista musicale specializzato mi chiede di parlarne. Tranne poche eccezioni, come questa.
Eppure, nonostante tutto questo lassismo morale, a me pare che ultimamente giri buona musica, nella scena. Sbaglio?
Sì, accidenti. Ci sono artisti che non dicono mai nulla di politico, perché non è nelle loro corde e va benissimo sia così, ma comunque fanno musica spettacolare. Guarda caso però, permettimi questa osservazione, molto spesso sono artisti a cui non importa granché di apparire spesso sui social. Che coincidenza, vero? Ma ti ringrazio per aver fatto notare che oggi comunque c’è della bella musica in giro: perché la cosa più facile di tutte è quella di sempre e solo lì a lamentarsi, a criticare, e io non voglio cadere in questa trappola. Quindi sì, stiamo attraversando un periodo creativamente molto fertile, anche artisti con trent’anni di carriera alle spalle stanno facendo una musica molto coraggiosa, sfidante; e quando io dico «non voglio produrre più techno» non è perché mi sento superiore a queste persone, ma semplicemente perché in questa fase della mia vita come producer non sento di avere la motivazione di pancia per creare della techno. Mentre adoro ascoltarla, così come adoro ascoltare l’electro, in questi anni: artisti come Anthony Rother o Carl Finlow sono più in forma che mai.
Non mi stai però nominando artisti di primo pelo. Forse il sottinteso è che dobbiamo guardare più ai classici che alle leve nuove?
Assolutamente no. E ti parlo proprio da dj, qui.
Ovvero?
Il pubblico è cambiato. È come se, dopo la pandemia, fosse saltata una generazione. Quando metto su un grande classico, come che so The Bells di Jeff Mills, un tempo la gente esplodeva all’unisono. Ora solo una piccola fetta riconosce il pezzo e prorompe in grida di gioia: con la conseguenza che si esaltano anche le altre persone, sì, ma non perché hanno riconosciuto The Bells e sono contente di sentirla, ma perché hanno visto le persone accanto a loro accendersi improvvisamente e, di conseguenza, lo fanno pure loro, per emulazione. L’euforia oggi si propaga progressivamente, come un’onda al rallentatore, e con meno intensità. È una bella sfida per un dj, questa: perché ti porta ad interrogarti sull’importanza della musica vecchia, dei classici, se il loro valore si sta erodendo in modo così netto. A me piace mettere sempre dei classici all’interno di un mio set, anche se non devono mai superare una percentuale minoritaria del set in sé, diciamo mai più del 20%: chi suona solo grandi classici è qualcuno che si arreso artisticamente, e nella vita. Non sono io. E comunque, se suoni i classici puoi farlo scegliendone anche da hip hop, funk, soul, punk, house, disco. Non esiste mica solo la techno. C’è solo un unico genere che non ho mai suonato, e che non suonerò mai: la trance. Però ecco, c’è una cosa che mi manca, oggi…
Cosa?
La controcultura.
Cioè?
Parlandoti in modo molto concreto: io ormai voglio suonare sempre meno nei grandi festival dance. L’hai notato? Perché ho capito che sono sempre più dei grandi contenitori standardizzati (guarda caso, ormai sono sempre più posseduti dalle stesse due, tre società…), completamente impermeabili a tutto ciò che è controcultura e, più in senso lato, a ciò che è storia della musica. Oggi quello che è cerco come artista lo trovo soprattutto nei club con una storia, club che magari si sono dedicati anche alla musica live, perché chi li porta avanti è innamorato della musica a trecentosessanta gradi. Voglio andare in un camerino, ed anche se è un po’ putrido nel momento in cui vedo le scritte sui muri lasciate negli anni dalle band che ci hanno suonato, beh, io mi sento subito bene, sento che sono finalmente a casa. Sento che sono in mezzo a situazioni e persone per cui la musica è una questione di vita e soprattutto di identità. I festival dance, invece, ormai sono sempre più sottoposti a un processo di mcdonaldizzazione. Sono l’arena in cui un dj va, fa le mani ad aeroplanino mentre suona (anzi: finge di suonare), e poi a un certo punto le alza al cielo a favore di scatto fotografico, con un’espressione beata e beota: io non voglio diventare questa cazzo di persona. Io voglio essere parte della cultura e della storia, identitaria e sociale, che si è costruita attorno alla musica, a un certo tipo di musica. Ecco perché oggi, al momento di scegliere dove andare ad esibirmi come dj, cerco di privilegiare delle venue che abbiano una storia, e una storia magari non solo nel campo della musica techno. Voglio essere in un posto dove, se decido di suonare 20 minuti di punk, la gente non si stranisce perché non gli sto dando quello che si aspettano, ma è invece doppiamente contenta perché coglie lo spirito, l’intenzione, la ragione.
Ecco perché il tuo ritorno in Italia, dopo un’assenza relativamente lunga, è al Circolo Magnolia, a Milano. Una venue più conosciuta per la musica live che per la techno, decisamente. Mi chiedevo infatti la ragione della scelta.
Non suono in Italia da tre anni, e sai cosa? Sono nervoso.
Nervoso?
Ci sono due Paesi con cui sento di avere un particolare legame emotivo e affettivo, come artista: Irlanda e Italia. Ti faccio un esempio pratico: io non amo stare su un palco sotto i riflettori e al centro dell’attenzione, non è una cosa che mi mette a mio agio, e di conseguenza sono sempre piuttosto scontroso e immusonito, visto da fuori, in serata.
Già.
L’Italia è uno di quei Paesi dove la gente, sia fra il pubblico che gli organizzatori, inizia a dirmi «dai Dave, non fare così, sorridi!»: e se altrove lo farebbero in modo un po’ polemico e un po’ sarcastico, in Italia no, in Italia capisci che te lo stanno dicendo dal cuore, che ci tengono che tu sia felice quanto loro sono felici di essere lì con te. Io allora faccio uno sforzo, tento di sorridere, e suppongo di assumere l’aria di un bambino idiota quando faccio così, ma vabbé, pazienza. Sì, all’idea di tornare a suonare in italia sono nervoso, davvero: perché ho la paura di scoprire che in realtà anche voi siate cambiati dopo la pandemia, che abbiate perso questa istintiva gioia di vivere e di cercare la felicità che vi caratterizza, anche nelle situazioni più difficili. Ma non è così, vero?